FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 68
novembre 2024

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DARE VOCE
Sul libro di poesia Nanof di Enzia Verduchi

di Marina Marotta



1995, Campeche, Messico. Enzia Verduchi compra un cd di musica classica contemporanea. E scopre Nanof. Ecco la genesi di un più che ventennale interesse, coltivato con una seria attività di documentazione e divenuto immedesimazione appassionata e obbligo morale di testimonianza. Testimonianza consegnata alla piccola e densa raccolta poetica Nanof, uscita in lingua spagnola nel 2019 e lo scorso ottobre anche in edizione italiana con testo a fronte, per la cura e la traduzione di Alessio Brandolini (per puntuali notizie sul libro, l’autrice e Oreste Fernando Nannetti si rinvia al numero 67 della rivista, che comprende anche una scelta dei componimenti).

Il pregio morale della raccolta riposa nell’aver riconosciuta la dignità umana di quel povero “scarto sociale” che era Nanof e nell’avergli restituito l’amore che gli mancò per tutta la vita, come dolorosamente egli incideva sul muro, annotando la gelida statistica delle cause di morte dei ricoverati: “10% per applicazione magnetico-catodica / 40% per trasmissione di malattie / 50% per odio, mancanza di amore e affetto” (II Interrogatorio, pp. 38-39). E tale interesse affettivo pone Enzia Verduchi nella scia di Aldo Trafeli, l’infermiere che riuscì a creare un rapporto con Nanof, decifrandone le incisioni; di Mino Trafeli, lo scultore che intuì il valore di quelle incisioni; di Paolo Rosa, con il suo film documentario del 1985; di Pier Nello Manoni, che riprodusse fotograficamente tutto il ciclo dei graffiti prima che si deteriorassero; di Piero Milesi, compositore dalle cui musiche è iniziato l’interesse di Enzia; di Antonio Tabucchi, che lo fece conoscere al grande pubblico; del museo del manicomio di Volterra e della onlus Inclusione graffio e parola, che promuovono molteplici iniziative dedicate, anche, a Nanof. È come se tutti loro, ed Enzia Verduchi con loro, si fossero sentiti e ancora si sentano responsabili in quanto appartenenti al genere umano degli eccessi del regime manicomiale e volessero riparare attraverso opere e parole che sono delle dichiarazioni d’amore.

Il libro raccoglie 29 fra poesie e prose poetiche, incernierate in una struttura di dieci sezioni, che ha nei cinque Interrogatori i suoi pilastri, fra i quali si succedono le altre sezioni, cioè le Cartoline, i Profili, Groenlandia e la Tavola Periodica. Il libro, soprattutto nelle sezioni degli Interrogatori e delle Cartoline è una biografia mentale e sentimentale di un internato in manicomio, che nelle fluttuazioni extraterrestri vede alternativamente la condanna e la via di fuga per sé e il resto di quella comunità ferita. La condanna perché sono creature messe al margine, respinte al di fuori (come il cosmonauta abbandonato nello spazio, della poesia La tristezza [artificiale] di Ivan Istochnicov, pp. 54-55), rifiutate perché diverse, irriducibili, aliene (Nannetti chiama sé stesso “l’Altro fra gli Altri”). Ma è anche la via di fuga perché la fantasia, là dove non possono arrivare le “talpe in camice bianco” (terza Cartolina, pp. 28-29), consente di evadere e di immaginarsi come “un astronautico ingegnere minerario” nonché “colonnello astrale”, quale Nannetti si definiva e ritraeva nei graffiti sulle pareti del cortile del Reparto Ferri del Manicomio di Volterra.

Gli Interrogatori sono la rielaborazione poetica degli incontri periodici fra il paziente Nannetti e gli psichiatri del manicomio di Volterra, desunti da annotazioni presenti nella cartella clinica e si presentano ciascuno come un questionario di cinque domande, sempre le stesse e sempre nello stesso ordine. In realtà, le domande sono sottintese, suggerite soltanto da un punto interrogativo e desunte dall’ordine e dal tenore delle risposte.
Le prime due domande ineriscono a come si svolgono le giornate di Nanof, alla consapevolezza che egli ha di ciò che accade nel reparto. Nelle risposte la fredda elencazione dei medicinali usati per piegare volontà e annullare coscienze; la contabilità statistica delle percentuali delle cause di morte dei ricoverati; la burocratica quantificazione di lavandini, latrine, metri cubi di edifici, cartelle cliniche, teste rasate.

La terza domanda verte sulle storie di altri ricoverati, identificati col solo numero di fascicolo. Le risposte di Nanof raccontano di povere vite alla cui tragedia quotidiana egli assiste: il suicida, che non voleva essere deprivato della sua volontà ad opera dei barbiturici; il trapanato al cervello, “figlio maggiore dell’amnesia”; il soldato traumatizzato dalla guerra, che tutti i giorni si accosta al muro, in attesa della fucilazione; il parkinsoniano, che nasconde fra le ginocchia il tremore delle mani, quando i familiari vanno in visita.
La quarta domanda sollecita sogni e ricordi d’infanzia: la visione indelebile dello squalo ammazzato a bastonate, nel cui sguardo vitreo e smarrito si legge la muta domanda di chi ha patito un’immeritata violenza; o il cane lapidato con i compagni di giochi, altra inutile violenza contro un incolpevole; ma anche momenti liberatori, come il volo sui sette colli della città natìa o viaggi visionari verso Giakarta e la Malesia, con tanto di Sandokan e tigre del Bengala.

La prima sezione delle Cartoline propone sei testi di varie date, fra la seconda metà degli anni ‘50 (Nannetti arrivò a Volterra nel 1958) e l’inizio degli anni ‘80. Nanof era un uomo disperatamente solo (nessuno andò a trovarlo mai nei lunghi anni del ricovero) e s’inventò parenti ed amici nonché una fidanzata, Milena, ai quali scrisse centinaia di lettere e cartoline postali, conservate nella sua cartella clinica ed alle cui copie ha avuto accesso Enzia Verduchi nel suo viaggio a Volterra del 2007 sulle tracce di Nanof. L’autrice ha voluto reinventarne sei, scelte fra quelle destinate a Milena.

La sezione Profili abbandona per un attimo il personaggio Nanof e raccoglie cinque componimenti ispirati a figure a vario titolo legate alla follia (come Martìn Ramìrez, malato psichiatrico e massimo esponente dell’art brut messicana, pp. 51-52, o il nostro Dino Campana, pp. 52-53), al delirio di onnipotenza di certa medicina (il britannico “Dottor Morte”, pp. 46-47) e, ancora una volta, all’emarginazione dei “diversi”.

La sezione Groenlandia è la seconda parte di una piccola opera già uscita in spagnolo nel 2018 e qui da noi fatta conoscere da Alessio Brandolini nel 2021 sul numero 57 della Rivista. Il filo conduttore è la nostalgia per quello che è lontano e ignoto, per quel candore liquido e misterioso, simile al cosmo infinito in cui “l’astronautico ingegnere” Nanof naviga nelle sue avventure interstellari.

La sezione Tavola periodica, con i suoi sette componimenti, si ispira al libro di 21 racconti autobiografici pubblicato da Primo Levi nel 1975, Il sistema periodico, dove le caratteristiche proprie degli elementi chimici sono il filo conduttore del racconto. Non è un caso che Enzia Verduchi abbia pensato a dei minerali in un libro incentrato su Nannetti, che si definiva “astronautico ingegnere minerario” e che sui muri dello Psichiatrico graffiva fantasiose formule chimiche. Un esempio: “Uranio Rame Acciaio cristallino Fusione 1927 Lancio 1936 Calata il 2013 Fusione 1928 Calata 2058 Piombo Uranio Nichel Atomizzazione Attiva Monti Stelvio”.

L’ultima Cartolina è invenzione originale dell’autrice e giustifica l’intero libro. La poetessa immagina che Nanof l’abbia scritta il 24 novembre 1994, giorno della sua morte, rivolgendosi a tutti i compagni di sofferenza, finalmente ricordati ciascuno col proprio nome, con la propria tristezza, le proprie croste, gli errori, le contusioni, la goffaggine. In loro, “gli alienati, quelli marci in testa, i diversi”, s’identifica Nanof, “sopravvissuto per raccontarlo” (pp.110-111). E a tutti dà voce Enzia Verduchi, con la mente e il cuore rivolto a quanti sono scomparsi nel nulla, i malati di Volterra deceduti per le violenze e le cure inappropriate, e portati via furtivamente (II Interrogatorio, pp. 38-39) ma anche, come lei stessa ha dichiarato altrove, pensando alle migliaia di donne seviziate, mutilate e uccise negli ultimi trenta anni a Ciudad Juárez, città del nord del Messico dal terribile primato mondiale di femminicidi.

Uno dei temi forti del libro è quello dei segreti e dei ricordi, che i pazienti, privati della loro identità, ridotti soltanto a numeri di cartella clinica, cercano disperatamente di proteggere dall’ostinato scandaglio degli psichiatri, che agisce attraverso i colloqui, non a caso chiamati Interrogatori, ed attraverso i trattamenti farmacologici, molti dei quali hanno come effetto devastante la perdita della coscienza e della memoria.
“Sono cose private”, rispondeva Nannetti a chi, non senza sfottò – sia altri pazienti che infermieri – gli chiedeva che cosa scrivesse sul muro: costretto ad usare un supporto visibile a tutti non aveva altra possibilità che la clandestinizzazione della scrittura (pratica che lo avvicina ad altri esponenti dell’art brut). E anche quando gli fu data carta e penna (una biro nera) cedette alla curiosità degli infermieri soltanto perché questi barattarono la concessione di altro materiale scrittorio con la possibilità di leggere i testi delle lettere e cartoline postali.

Nella terza Cartolina Nanof evoca un’immagine, un lampo nella memoria: Milena alla stazione, sorrisi, abbracci, lacrime. E la soddisfazione di essere riuscito, scavando in profondità nel terreno, a nascondere quel ricordo prezioso lì “dove le bianche talpe non possono frugare” (pp. 28-29).
Egualmente, nel già citato II Interrogatorio Nanof racconta dei corpi dei pazienti deceduti che vede trasportare nel cortile: “Vedo solo passare i corpi e, qualche sera, parlo con questo/cuore/o questo cervello che respira nella formalina. Il vetro non fa/trasparire segreti,/conserva i battiti, i ricordi con i loro contorni.” (pp.38-39).

Malgrado la violazione estrema dei corpi attraverso le autopsie e l’estrazione dei cuori e dei cervelli, l’immagine ossimorica del vetro che non fa trasparire esprime il piccolo conforto che i segreti siano stati preservati. Ma non si riesce quasi mai a salvare i ricordi. Infatti, poche righe più sotto, nello stesso II Interrogatorio, si ammette che “la follia si sfoga con la verità del penthotal” (pp-38-39). E più avanti (pp. 40-41) il fascicolo 221158 è definito “figlio maggiore dell’amnesia […] Il trapanato non sa il proprio nome, né ricorda il sorriso di sua moglie a maggio. Morto ancor prima di morire”. E nel III Interrogatorio: “Hanno sbiancato con la calce la nostra storia / Hanno sfregato le tracce su specchi e finestre / Hanno scolorito le nostre voci / Nella città Salute evaporano i ricordi. Brucia l’odore dello iodio nelle ferite e puzza il vapore del cloro sulle piastrelle. Tutta questa pulizia lacera, smorza la memoria” (pp. 58-59).

Un altro tema forte del libro è quello della violenza su anime e corpi. Fra le mura di quel “paradiso di igiene mentale”, vera “voragine infernale”, operano “i nostro assassini” fra luci accecanti, docce fredde, farmaci, vomito, escrementi. Lì non sono soltanto i cervelli ad essere spappolati, i ricordi rubati, le coscienze annullate. Anche l’integrità dei corpi è brutalmente violentata: teste rasate, gengive gonfie, cicatrici dell’ago ipodermico, tempie bruciate dall’elettroshock, crani trapanati, voci irriconoscibili, trachee raschiate, olfatto azzerato dal persistente odore di cloro, laddove la perdita dell’odorato uccide, ancora una volta, anche i ricordi, il ricordo di un campo di lavanda, del pane sfornato, delle donne accaldate d’estate. “Corpo? Una pila, un ponte tra protoni ed elettroni” (I Interrogatorio, pp.16-17.) Nel IV Interrogatorio (pp. 78-79) Nanof-Verduchi si rivolge al “caro, amato assassino”, cui offrì “le tempie e le vene”, accusandolo: “hai insultato la condizione umana/spianando la mia carne con prove prodigiose”: non solo hanno offeso la dignità dell’uomo ma hanno fatto carne da macello del suo corpo.

Infine, il tema di Dio, inevitabile dove c’è la sofferenza innocente. La quinta risposta degli Interrogatori, la più tragica e disperata, quattro volte su cinque (tranne nel V Interrogatorio, dove Dio è, ormai, uscito di scena) affronta Dio, un Dio volta per volta imperfetto, indifferente, arcigno e punitivo, imbarazzante, secondo un drammatico climax: come può un Dio permettere l’elettroshock?

Nel I Interrogatorio (pp. 16-17) Volterra è un luogo dove si rischia di perdere la fede in quel Dio cui già si consente di non essere perfetto. Nella quarta Cartolina a Milena (pp. 30-31) in epigrafe le parole di Yuri Gagarin (“Dov’è Dio? Io non l’ho visto!”) e nel testo il dubbio se Dio sia verità o follia. Nel II Interrogatorio (pp. 42-43) Nanof si rivolge a un “Dio senza argomento”, la cui esistenza dovrebbe giustificare l’incomprensibile sacrificio ma che rimane indifferente a tanto dolore; a questo Dio Nanof grida: “Non so che farmene del tuo paradiso”.

Nel III Interrogatorio (pp. 62-63) non ci sono più illusioni: nella sua imperscrutabilità Dio ha scatenato la propria ira contro tutti i diversi, gli alieni di ogni tipo, gli irriducibili all’ordine costituito, scagliandoli ai margini di Volterra: zingari, strampalati, frenetici, agitatori, disertori o leviti, sono tutti cosmonauti che fluttuano abbandonati nello spazio. Unico conforto, unica misericordia quella della natura: “Fratelli, non conosco altra misericordia che quella del paesaggio./ Fratelli abbracciamo un albero fino a fonderci nella sua linfa”. E così nel IV Interrogatorio (pp. 82-83) Nanof rinuncia a questo Dio che crea disagio, rifugiandosi nella dolcezza silenziosa e riposante della natura, sola in grado di alleviare il dolore.

Qualcuno ha sostenuto che in questo testo la Verduchi, attraverso il paradigma del manicomio, esprima la condanna delle forme di governo che criminalizzano la otredad, la diversità di ogni tipo, e l’autrice stessa consente tale interpretazione. Tuttavia, sullo sdegno per il disumano annullamento di chi è visto come un pericolo per l’ordine sociale sembra prevalere l’umana pietas per Nanof e tutti gli “Altri”. Senza, però, che mai il palpabile coinvolgimento emotivo prenda il sopravvento. Grazie alla sapiente alternanza di prosa quasi cronachistica e versi liberi. E grazie ad un linguaggio distillato, apparentemente ordinario nel lessico e avaro di aggettivi, di fatto lucente e bruciante come il ghiaccio della Groenlandia.


Enzia Verduchi, Nanof, a cura di Alessio Brandolini, Edizioni Fili d’Aquilone, Roma, 2024.




Enzia Verduchi
è nata a Roma nel 1967 ma dall’età di cinque anni vive in Messico dove si è laureata in Giornalismo e Scienze della Comunicazione. Nel 1992 ha ricevuto il Premio “Nacional de Cuento Efrain Huerta”. Ha collaborato a riviste e supplementi culturali messicani e internazionali. Ha pubblicato i libri di cronaca: 40° a la sombra (2013), Los segundos y los dias. Breviario sobre el temblor (2018) e le raccolte poetiche: Cartas de usurpacion (1992), El bosque de la hormiga (2002), Groenlandia (2018) e Nanof (2019). Suoi testi poetici sono stati tradotti in diverse lingue e pubblicati all’estero.


marina_marotta@yahoo.it