A thing of beauty is a joy for ever
Una cosa bella è una gioia per sempre
JOHN KEATS
Non siamo mai gli stessi, ogni giorno qualcuno ci lascia, torna a casa, altri ci raggiungono e vengono con noi, si uniscono per poi proseguire assieme. Non abbiamo paura. Per strada quasi sempre qualcosa troviamo: un po’ di cibo, acqua, un rifugio provvisorio dove dormire di notte, quando fa freddo ed è buio. Non sempre e talvolta si digiuna, ci si spaccano le labbra per la sete e lo stomaco fa male, si gonfia. Allora si sogna un bagno caldo, una doccia, un comodo letto, della frutta fresca e succosa.
Molte strade sono ricoperte di fango, carcasse di auto e camion, animali, pali della luce. La protezione civile lavora sul campo per sistemare ogni cosa ma a volte capita che i loro pesanti mezzi (betoniere, gru, trattori, scavatrici) vengano trascinati via da una bomba d’acqua, da un temporale “anomalo” che dura giorni e con una potenza così feroce da strappare via dalla terra alberi, vigneti, ponti, le case isolate e più deboli. E ogni volta si è costretti a ricominciare dall’inizio.
“Le case più deboli”: io abitavo in una di queste con la mia famiglia, in una piccola fattoria nella provincia di Ravenna, e mi sono ritrovato da solo, salvato per miracolo. Per fortuna i miei due fratelli lavorano altrove, ma i miei genitori sono rimasti sotto quel fango e poi è stato difficile ritrovarli e dar loro una degna sepoltura. Anche i cimiteri della zona sono stati devastati dalla valanga di melma e detriti e in piedi sono rimaste solo le tombe più alte e robuste, quelle costose, di marmo bianco o granito rosa e lì non c’è posto per tutti. Ho provato a chiedere a uno dei proprietari di questi monumenti funebri e mi ha chiesto tanti soldi per poco spazio, per conservare lì dentro, all’asciutto, le ceneri dei miei, la lapide con i loro nomi, le date di nascita e quella di morte: 7 novembre 2044.
Il livello medio del mare è aumentato e le zone costiere sono state sommerse dall’acqua. Le popolazioni locali si sono trasferite all’interno, in zone più sicure, più elevate. Anche le temperature sono salite e l’inverno si è accorciato anche se poi, a volte, la temperatura precipita all’improvviso. Ci sono stati dei morti e l’economia delle zone devastate fatica a riprendersi, sta cambiando, ora si pensa più che altro a sopravvivere e ci vorranno anni per adattarsi, se il clima migliorerà. I flussi immigratori prendono direzioni strane, s’intersecano, cambiano all’improvviso, si disperdono per poi ricompattarsi e andare per altre strade. Sempre in cerca di sicurezza, un lavoro, di una natura più benigna.
Nulla è sicuro ed è arduo prevedere ciò che accadrà a distanza di qualche mese. Una casa stabile dalle solide fondamenta di cemento armato può trasformarsi in un luogo insicuro, in una trappola. Meglio essere pronti a trasferirsi altrove, cambiare aria, non mettere radici, scappare in fretta portandosi dietro quel poco che si ha.
Una “natura più benigna”, come se fosse colpa sua, della natura. Si sapeva da oltre un secolo che cosa stesse accadendo: la contaminazione aumentava e le temperature andavano su, anche i ghiacciai perenni si scioglievano e le città, sempre più inquinate, venivano devastate da piogge incessanti. Non cade acqua per mesi, c’è siccità, e poi ecco i temporali intensi e improvvisi, vere e proprie bombe liquide che si riversano sulla terra e portano morte, distruzione e lasciano le strade, le piazze strapiene di macerie e fango denso, appiccicoso. Città che poi vengono ripulite con un lavoro collettivo che dura settimane e poi questo accade un’altra volta: tutto si asciuga e ogni cosa viene di nuovo sommersa dall’acqua piovana, da fiumi e torrenti che straripano. Ed ecco altre distruzioni, altri morti e alla fine si preferisce abbandonare il proprio paese, trasferirsi in altri luoghi. Centri urbani che resteranno sepolti per secoli, come Pompei ed Ercolano, e poi forse rivivranno come musei, se raggiungeremo un “nuovo equilibrio”.
Andiamo avanti, non abbiamo paura. Ora i mezzi di trasporto sono tutti elettrici (anche in Cina, finalmente) e la foresta Amazzonica, con un accordo internazionale, non solo viene conservata ma si tende a espanderla così da riportarla all’antico splendore. Le acque sono più pulite e nelle città, quelle che hanno resistito alle alluvioni, si piantano alberi ovunque e ogni piazza ha il suo ampio giardino, i suoi vasi enormi con ulivi e fiori. Sono state edificate zone verdi multipiano, con gli ascensori di vetro, e in Centro ci si sposta solo in bicicletta, monopattino e chi lo fa (ormai siamo in tanti, la maggioranza) non corre il rischio di venire schiacciato da un’auto o un camion.
Non siamo mai gli stessi e ogni giorno si fanno nuove amicizie. Ieri, camminando lungo il percorso, ho parlato a lungo con Paola, è di Ferrara, città che è stata colpita duramente negli ultimi anni. Ha saputo di questo nostro strano viaggio attraverso l’Italia, che vogliamo raggiungere Brindisi per poi imbarcarci per la Grecia e arrivare in Palestina e si è unita a noi (ora siamo in venti, più o meno) portando scorte di viveri, acqua, caffè e tanta allegria, entusiasmo. Anche lei ha perso amici e familiari in un’alluvione, poi ha lavorato per mesi per ripulire dal fango le strade e le case della sua città. Ha protestato sotto le finestre dei palazzi governativi per chiedere più aiuti alle famiglie colpite dalle alluvioni, rifugi più confortevoli e nuovi posti di lavoro. Occorre uscire dalle beghe politiche, dice Paola, dalle divisioni, dagli spregiudicati tornaconti elettorali e salvare il salvabile, proiettarsi – stando uniti – verso il futuro con una mentalità nuova, più ecologista che possa far migliorare celermente la salute del pianeta e poi salvaguardarla.
Qualcosa è cambiato, sono nate nuove coalizioni politiche e una Protezione Civile più attenta ed equipaggiata: si agisce meglio e più rapidamente, si fanno progetti di riqualificazione del territorio a breve e a lunga scadenza.
Paola ha risollevato a tutti il morale con le sue parole, l’entusiasmo, con quel suo sguardo fiducioso che guarda sempre avanti con ottimismo. Per lei ogni giorno ha la sua bellezza e bisogna prenderla al volo, altrimenti va sprecata, scivola via, appassisce ma se afferri quell’attimo di gioia e di bellezza poi te lo porterai dentro per sempre. E allora ecco un gatto spelacchiato (Tigrotto) che ci segue zampettando e miagola in continuazione per avere cibo, carezze ed è una lagna, sì, eppure fa ridere e ci commuove. Ecco un gregge di nuvole che dall’alto ci osserva e all’improvviso si apre per mostrarci l’occhio bellissimo del sole che ci incoraggia ad andare avanti, con allegria, nella nostra avventura.
A fine marzo 2045 da Porta Capena, a due passi dal Circo Massimo, imbocchiamo l’Appia antica, le pietre secolari di basalto hanno retto bene l’usura del tempo, ci sono ancora i segni dei carri romani. Lungo la strada, un perfetto tracciato lineare, ci aspettano altri gruppi di persone, per lo più di giovani, e ora tutti assieme facciamo un bel numero. Siamo una settantina pronti a proseguire il viaggio, a raggiungere la nostra meta. Dopo un paio di settimane siamo a Brindisi, stanchi ma felici. Ci intervistano alla radio, un paio di reti televisive ci tallonano con le telecamere. Parliamo poco, solo l’indispensabile e ci divertiamo a provocare i giornalisti: venite con noi, dai, mollate tutto! Così saprete cosa stiamo facendo, quale sono le nostre intenzioni.
Da Brindisi arriviamo in Grecia, un po’ alla volta, ognuno di noi fa il suo biglietto per la nave, la fila per salire a bordo. Dall’altra parte ci contiamo, sì, ora ci siamo tutti, possiamo rimetterci in viaggio. Direzione? Istambul! Ed è proprio lì che accade l’imprevisto, poco prima di attraversare il Bosforo. L’acqua è salita parecchio nell’ultimo periodo e ora fa paura, qui le popolazioni locali si sono trasferite altrove già da qualche anno, in luoghi più alti e asciutti. Più sicuri.
Il tornado in lontananza sembra inoffensivo, arriva dal mar Egeo danzando sull’acqua ma via via cresce, cambia colore, si innalza, vortica su sé stesso sempre più veloce, si avvita, si contorce. Ora si avvicina a noi. Arrivano acqua e vento ad assalirci e molte cose ci vengono strappate via, anche gli zaini con acqua e cibo. Qualcuno di noi ruzzola via e scompare tra la polvere, in lontananza lo vediamo rialzarsi e cadere ancora, spinto dal tornado. Il vento ora soffia contro di noi da ogni direzione ed è impossibile rimanere in piedi. Ci aggrappiamo ai pali della luce, cerchiamo di resistere abbracciandoci, tenendoci stretti. Fra breve tutto passerà e noi andremo avanti. Il tornado vola sulle nostre teste con la lunga proboscide azzurrina, con tutta la sua forza distruttrice. I detriti che volteggiano intorno a noi sono proiettili che accecano, feriscono.
Più di una settimana per riprenderci, fare un inventario, contarci. Qualcuno del posto ci aiuta. Arrivano da lontano, con gli elicotteri, altre scorte di viveri, abiti asciutti. Così riprendiamo, un po’ ammaccati, il nostro itinerario verso la Palestina che da tre anni è un paese pacifico, un’oasi di libertà e democrazia dopo decenni di guerre e crudeli devastazioni. Le zone desertiche sono state trasformate in splendidi frutteti, grazie ai canali d’acqua desalinizzata. Siamo diretti lì perché vogliamo che tutto il mondo osservi con più attenzione questa terra che ha subito un martirio e ora è un luogo sicuro e all’avanguardia nel rispetto della natura, nello sfruttamento delle risorse.
Attraverseremo la Siria, il Libano, Israele. Non ci vorrà molto se non avremo altri scogli da affrontare. Ci spostiamo rapidamente camminando quindici ore al giorno. Anche se a fatica ora riprendiamo a muoverci, il tornado è svanito e il cielo è più azzurro che mai. Un passo dietro l’altro: in silenzio maciniamo chilometri, attraversiamo ponti, città e piccoli paesi. Ci salutano, offrono da mangiare, da bere e qualcuno si unisce a noi, sì, ogni giorno ha la sua bellezza. Paola sorride con il grosso zaino sulle spalle, mi fa un cenno con la testa e indica la strada dritta davanti a noi, allunga il passo, mi supera. E sorrido anch’io.
novembre 2024
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