Talvolta la scrittura propone il rovesciamento del possibile o dell’accaduto, sempre che, suggeriscono maliziosamente alcuni, ciò-che-accade sia davvero l’unica superficie, e il sostantivo non è casuale, di un’unica realtà. Stringhe, universi paralleli, sogni di sogni, quelli ad esempio di cui parla in conferenza Borges affrontando i sentieri ininterrotti di Le mille e una notte{1} permettendo. E così il dubbio ci aiuta e aiuta Daniele Archibugi a narrare un incontro impossibile secondo il determinismo storico, nel suo La notte brava di Kant e Casanova: i due campioni della riflessione razionale e dell’avventura in sé e per sé, soprattutto ma non solo quella erotica, avrebbero potuto incontrarsi davvero. Se le stringhe avessero ondeggiato nel loro pulsare e si fossero intrecciate attraverso le due tappe del veneziano a Königsberg, città del filosofo, ma anche di ponti che molta importanza hanno in questa storia, e anche nella possibile realtà della logica filosofico-matematica. Eulero docet.
Archibugi racconta una possibilità di incontro tra due dimensioni che si potrebbero pensare radicalmente diverse del Settecento, se non fosse che, e anche questo romanzo ci aiuta a ricordarlo, l’uomo è in continua trasformazione e non è mai uguale a quello di prima, con i suoi dubbi, le angosce, le certezze e anche le aporie del suo cammino. Ovviamente basandosi su quanto di apparentemente fermo e uguale ci hanno lasciato – ma anche l’ermeneutica testuale non è mai ferma, come Peirce ed Eco ci avevano avvisato – riuscendo però ad entrare nell’instabilità degli uomini e non solo nelle autobiografie più o meno libertine o nella ricerca della ragione più o meno perduta.
Una notte brava che ci conduce ad assistere al percorso e ai pensieri di due persone che passano attraverso le loro inevitabili contraddizioni e riescono a confessarsele, anche se con una naturale ritrosia. Tal Hans von Lehwaldt, di fresca nomina a governatore di Königsberg, viene informato che una tappa del viaggio – in realtà un ingresso e una fuga perenni, di sospetto compulsivo, che rischierebbe peraltro di impoverire la sua complessità – di Casanova sarà proprio nella città baltica. Non gli sembra vero mettere a confronto diretto – pensiero ovviamente molto più a noi contemporaneo – i due angoli opposti del suo tempo e si dà da fare per invitarli ad una cena.
Una cena, con il senno di uno scrittore del poi, e di noi spettatori che abbiamo digerito le classificazioni di quel secolo, che permetta l’incontro del filosofo della ragione e del dubbio metafisico con il libertino seriale, il sostenitore, nella sua azione, di un fare che impedisca all’altro –il dubbio, il demone del taedium vitae – di prendere il sopravvento con la resa al non senso.
La ragione di Voltaire e Rousseau, che sono nominati in questo racconto, ma anche quella dei d’Alembert, dei Diderot per non parlare, a proposito di Casanova, della letteratura libertina, invitava almeno i sapienti – e i politici, non mancarono i contatti con i regnanti d’Europa e di Russia – a operare il tentativo di smascherare le superstizioni e le menzogne per rifondare una nuova cultura, pur sempre d’élite, imperniata apparentemente sulla ratio. Senza impedire la persistenza degli abissi di una condizione, quella umana, assai complessa e estranea alle classificazioni rigide, e che poi sarebbero lentamente emerse anche all’interno dell’illuminismo stesso (de Sade e Rousseau) e poi con gli irrazionalismi, con le guerre, le carneficine e i dubbi su quella stessa ragione.
Merito di questo racconto è di aver saputo riconoscere questa abissale complessità, suggerendo “scandalosamente” il paradossale contatto, problematico e contraddittorio, con la sensualità e l’abbandono di sé di Kant, e il suo lento, ambiguo, farsesco innamoramento, per di più goffamente dichiarato, per una giovane attrice di strada, e dall’altra parte mostrandoci un Casanova che rimpiange la semplicità di una fede che ritrovi la gioia e il senso di una esistenza in balia delle convenzioni e di un piacere ormai riconosciuto come fine a se stesso. E fine di se stesso.
Nel racconto della loro notte, i due si trovano in una trattoria-albergo con attori di strada (e Casanova veniva da una famiglia di attori), saltimbanchi, avventurieri, giovani innamorati che però accettano la vendita ai piaceri dei ricchi per poter sopravvivere, e che rappresentano la continuità vitale, la “proletaria”, in anticipo sui tempi, necessità di vivere: gli altri, i privilegiati, si consumino pure il cervello con le domande sul senso della vita e sulle sue finalità.
Casanova non è narrato solo come il consueto libertino seriale, questo è uno dei meriti della narrazione di Archibugi, ma come un uomo attraversato dal dubbio e dalla nostalgia, nel senso letterale di dolore di un ritorno impossibile. Il raggiungimento di ciò che gli altri invidiano, la conquista, l’amore, la bellezza si trasforma nel tarlo dell’infelicità e della noia. E di sospetto d’altro.
Kant, da parte sua, confessa che la sua ricerca spasmodica e solitaria della ragione gli ha portato il dono acheo della distanza dagli altri: solitario, anche se capace di buone maniere in attesa della amata-odiata solitudine, e forse per questo non in grado ormai di aprirsi realmente all’amore, avvertito come parte oscura, non razionale: l’opposto della ricerca di affermazione di un nuovo io che lui e il suo tempo tentavano di realizzare. Anche se, lo abbiamo visto, l’amore fa la sua apparizione nell'orizzonte umano, agli antipodi della sua ragione. La strada umana, ci suggerisce questo racconto, è piena di imprevisti e contraddizioni, anche per i campioni del limpido, raziocinante pensiero d’occidente.
Ma anche Casanova riuscirà a penetrare un po’ più in profondità nel senso dell’esistenza, attraverso una ricerca intermittente di fuga – immaginaria e insieme reale, come quella dai Piombi – dalla propria infelicità di conquistatore seriale terrorizzato dal sospetto del nonsenso globale e dalla graduale coscienza dei propri limiti di possibile compagno nel breve cammino di vita comune.
Non lasciamoci ingannare dalle catalogazioni scolastiche, sembra dirci questo racconto, perché il Kant che prediligeva Rousseau, era uno che stava minando l’impianto del razionalismo da salotto e da corti imperiali, preparando altre, dolorose ma necessarie fondamenta d’occidente.
Quelle del cuore, ad esempio, non solo e non tanto quelle di una libido fine a se stessa, esemplate qui nei pensieri reconditi e contraddittori, in apparenza, del conquistatore compulsivo che sembra voler tornare al mondo perduto della fede e della bellezza umile ma abissale, esemplata nell’immagine della Vergine, precluso da una ragione fine a se stessa o dalla schiavitù libertina ai sensi, lontana sempre più dalle radici dell’amore e della civiltà.
{1}Ora in Sette sere, Adelphi, 2024.
Daniele Archibugi, La notte brava di Kant e Casanova, Neri Pozza, 144 pagine, 17 euro.
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