*
Kierkegaard (Diari): la paura è un’attrazione, un’ esca la paura è tutta da decifrare ha ragione? sto per abboccare?
tutto il tempo
vedi com’è? darei la testa al muro per com’è ma così è che ti penso e invento accanto non ne sai niente e io tutto il tempo nella mente a dirtelo
Fretta
il cuore è stufo, vuole essere abbracciato per questo ho pianto al banco del mercato (a Rita della frutta ho fatto un gesto di pazzia con la mano, le è bastato) dirti che mi fai pensare ai baci: sbagliato! figuriamoci dirti l’abbraccio che mi manca di darmelo, di non tenerlo ripiegato, chiuso: escluso! ho pianto – una fretta così tanta d’averti che l’unica è cacciarti
out
in-namorarsi è out going abroad to fall in un dirupo a lato attendere slogata l’altra me a riportarmi sulla via avere nostalgia
mi raccomando testa sulle spalle!
la testa meglio starebbe sul tuo petto e i piedi allineati col bacino insomma, sdraiata vicino invece, tengo i piedi per terra e la testa sulle spalle che palle!
pozione
una voce torbida, sexy, curva, torbata ci metto tu mettici parole armate dalla tua mente sorprendente ignota ci metto un sorriso insistito una conferma sfrontata tu mettiti non inerte non pauroso non scaltro beviti tutto che bene ti fa
del sesso di poi son piene le stanze
uva spiccata appena, pronta terra smossa, lucente, grassa, pronta è adesso invece ti scavo la fossa, rossa d’onta
l’ora non viene
che non è mai venuta come se fosse l’ora della vita aspetto che tu dica ch’io sono l’ora e mi divora paura che tu non sia la mia di ora che non sia buona l’ora e la volta ancora e aspetto e aspetti e stiamo troppo zitti
d’un lampo sono nata
non ci è voluto niente una guardata si sono mosse le tombe i letti i fiori sul balcone i libri dalle mensole come campava chi era io ier l’altro? – so ch’era vero ma sembra che non c’ero e solo adesso d’un lampo sono nata, nuova, scema beata
ancora
la fola non fa più gola – dici – ma urge ancora – dico il gioco di scoprire le carte, imparare l’arte di stare insieme coltivare il seme stranissimo dell’altro amica sperimento un innesto improprio – solo per miracolo o fine di un sortilegio fiorirà il rovo ma io lo stesso credula nelle fiabe nel mio sesso lo covo
è tardi
è tardi – nella casa una donna trasmette il suo segnale a volte un gracchío debole a tratti – vergogna – un vecchio rock se viene una musica accettabile (un brano noto anche se l’esecuzione notevole non è) vorrebbe fartela sentire ma non ci sei e a cercarti, dicono, si perde il filo, il fiato si perde il ritmo il tempo si perde, dico io ma è tardi e di nascosto ci prova – al buio pesto scambia il tuo gracchío per la risposta musicale al suo segnale è tardi, è sola e si fa male
fuori!
al freddo le ossa tinnano come un cancello scosso: voglio entrare al fuoco del camino al dolce odore ocra dei corpi al bisbigliare ma temo – nella schiusa seta dell’incarnato per tutto il tempo temo l’agguato ad ogni scricchiolio il contrarsi della casa in tugurio e io nella misera che attende stente visite nasconde sotto il letto il fascio zuppo di pianto delle lettere e ogni desolante altro aspetto mi dico: via dal camino! le dolci monachine le streghe le befane le mani enormi da dormirci dentro bimba e gigante amata e amante in fretta fuori con spalle naso seno fuori dal giardino fiorito sotto i piedi per incanto rorido fitto di steli mormoranti al freddo augusta col vecchio mantello fuori! dentro la vita fatta a punta e dura e che finisce angusta
rottura
sembrava una questione dirimente invece niente – la distanza ha solo cambiato stanza una sala spoglia ai piedi uno spiffero gelato che costipa ogni voglia d’afflato mio caro, che peccato!
tutto non c’è ancora
il tempo brucia – tutto non c’è ancora le sedie financo implorano di stare al corso yoga si dice chiaramente del fulgore presente lappare immemori immersi come pupi nell’istante ma l’animo attempato ama bruciare il tempo: tutto che non c’è ancora di tutto in fretta prima di morire
volevo tutto e ho te che mi fai correre
nella corsa per te sbuffo vapore sono un cavallo all’alba sono l’odore delle foglie che pesto sono l’umanità pacifica in panchina sono gli alberi nella corsa per te rompo la scorza vengo alla luce dentro il mio corpo come una radice come la volpe stanca alla sua tana come la rana affonda nel suo stagno corro dritta da te e in te mi bagno
lo so, stiamo morendo
lo sguardo coglie via via il mutamento della luce la prospettiva dietro che s’allunga l’allarme che vena la bellezza la rapace tristezza della presa ma se la manco non mi piace niente perciò ti amo tanto: mentre muoio mi scordo di morire a tratti addirittura m’incanto
|