Dire di un libro che è sorprendente, pare un’enfatica banalità.
Ma come altro definire un’opera che, ogni tre pagine circa, butta lì una frase che ci sorprende e ci obbliga a domandarci: cosa c’è, in realtà, sotto questa storia? Intensa, commovente, ma che può riassumersi in due parole?
Eccola, infatti: il racconto lungo di Massimiliano Scuriatti, Mico è tornato coi baffi (Bietti, 2011), narra la vicenda di uno dei tanti giovani strappati alle terre del Sud e deportati al fronte – siamo negli anni della Grande Guerra – per difendere un’Italia di cui nemmeno comprendono la lingua. Ed è raccontata da un suo amico d’infanzia, un ragazzo che la Patria non potrà mai servirla a causa di una malattia che gli ha paralizzato le gambe.
Sembra farlo apposta, Scuriatti: non appena ci adagiamo sul fondo del racconto e ci lasciamo cullare dalla piacevolissima velocità di crociera della narrazione, ogni volta che ci sdraiamo a guardare le nuvole di immagini che ci fa scorrere davanti – i carabinieri che fanno irruzione, il prete ottuso e pettegolo, il campo delle lucertole, gli ulivi duri come pietra, il mare che si ruba padri e mariti – ecco che uno scricchiolìo sospetto ci mette in allarme: e se nella stiva del racconto l’autore avesse nascosto un carico di contrabbando? Insomma, perché un racconto così semplice è tanto coinvolgente, perché ci suggestiona, ci emoziona e ci dà, al tempo stesso, tanto da pensare?
Tocca andare a vedere. Partiamo allora da un esempio. L’amico del protagonista – e voce narrante – è un giovane che ha interrotto gli studi all’altezza della terza elementare, uno che non ama l’aritmetica perché le astrazioni non le capisce, uno che ha una visione e una comprensione limitate alle cose semplici e tangibili, uno che non sa far niente. Tranne le giare in terracotta: «Le facevo bellissime perché mi sentivo parte della terra. È questo il segreto, devi sentirti parte della terra».
Ecco, è proprio questa una di quelle frasi che producono un rumore sospetto nella stiva del racconto. Scuriatti la infila senza retorica, come fosse uno dei tanti pensieri naïv del ragazzo. Ma lo sa bene che è una fondamentale dichiarazione di poetica, di prospettiva sul mondo.
Il giovane diventa così il latore di quella prospettiva infantile, candida, ingenua, di cui da secoli la letteratura si avvale per stravolgere, rovesciare, demistificare, sbugiardare, insomma, la Storia e le verità ufficiali, ovvero la realtà convenzionale. Agli occhi del narratore nessuna astrazione, nessuna ideologia hanno valore –valore di realtà, intendo – : non la Patria, non la Guerra, non l’onore. La sua sensibilità registra solo i fatti concreti, gli oggetti che può toccare. Delle lettere che il comune amico Antonino gli scrive per informarlo sulle sorti di Mico, invece analfabeta, lo colpiscono le ferite, il sangue, il piscio nei pantaloni, magari anche la cioccolata e le sigarette distribuite nell’ospedale da campo. Delle località che via via Antonino gli elenca, invece, non riesce neppure a pronunciare il nome.
La prospettiva di un ragazzo fisicamente menomato, nel paesino d’una Sicilia forzatamente resa italiana, è evidentemente una prospettiva limitata al proprio perimetro culturale, a quegli oggetti con cui costantemente confronta ciò che non conosce, per poter arrivare, dal noto, all’ignoto. È una prospettiva elementare, concreta, terrigna, inconsapevolmente antagonistica e di nobile e lunga tradizione letteraria.
Soprattutto, è una prospettiva che coincide con una lingua: una lingua orale, concretissima fino alla saturazione degli spazi, le cui radici spuntano fuori dal terreno in inserti ed espressioni dialettali, facendo inciampare e cadere, a terra appunto, il lettore. È una lingua che atterra e atterrisce chi la pensa ancora prima di parlarla, lo radica e lo spinge verso il basso (linguisticamente e tematicamente) tagliando le gambe a ogni sogno di fuga.
Eccolo, allora, l’abbiamo trovato, il tema fondamentale che innerva l’intera narrazione è il concetto di fuga, di partenza come salvezza, libertà, cambiamento. E di fughe è infatti pieno il racconto: le fughe dei disertori, di quelli che emigrano in America, le fuitìne di Mico. Ogni fuga è invece preclusa al narratore, inibita sul nascere da un linguaggio (inteso come prospettiva sul mondo) “storpio” come lui, limitato, che sa maneggiare la vita in un perimetro ristretto, ma non può camminare con le proprie gambe per andare oltre.
E così, abbiamo scoperto anche il vero protagonista: è il dialetto, cui poteva prestare le sembianze solo un narratore “storpio”. Già, perché fino all’ultimo non era facile decidere chi fosse il protagonista: e questo sempre per l’abilità da funambolo con cui Scuriatti gioca – mai gratuitamente – col testo narrativo. La storia di Mico contiene infatti, al suo interno, la storia del narratore, che assume rilievo anche maggiore di quella del protagonista dichiarato. Ma questo a Scuriatti ancora non basta. La storia di Mico è raccontata dal giovane narratore, ma, almeno per un terzo, questo ne ha notizia per via epistolare dal compagno d’armi di Mico, Antonino. Gli altri due terzi discendono, poi, dal ricordo dell’infanzia trascorsa insieme e dell’esperienza diretta della profonda trasformazione avvenuta in Mico, una volta congedato.
Insomma, valeva la pena andare a curiosare nella stiva di questo piccolo gioiello di racconto. Adesso godetevi la storia: è bellissima.
Massimiliano Scuriatti, Mico è tornato coi baffi, Bietti, 2011, pp. 130, euro 15.
Massimiliano Scuriatti (1970) autore e sceneggiatore siciliano, vive in Lombardia. Mico è tornato coi baffi è il suo primo romanzo.
carmosino.y@gmail.com
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