FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 54
gennaio/aprile 2020

Fiabe & Follia

 

NELLE PRATERIE DELLA FINE DEL MONDO
di Andrea Cote

di Alessio Brandolini



En las praderas del fin del mundo [2019, Nelle praterie della fine del mondo] è l’ultimo libro di poesia della colombiana Andrea Cote (1981) che da qualche anno vive negli Stati Uniti dove insegna all’Università di El Paso (Texas). Ultimo suo libro ma che, a mio avviso, segna un distacco e insieme l’inizio di un percorso nuovo, un proiettarsi verso uno scenario che si è appena schiuso perché la poesia va sempre avanti anche se non sappiamo in quale direzione. Si scruta l’orizzonte e non si vede nulla, e allora? Magari domani accadrà qualcosa: resta la tensione e l’attesa come nel romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei tartari. Forse cadrà la neve o magari solo polvere, scrive l’autrice. Raccolta poetica dedicata al figlio Pablo e che prende il titolo da un passo di Platone, nel Libro X de La Repubblica, lì dove si racconta di un uomo che torna da una morte momentanea e descrive tutto quello che ha visto. La morte si ricongiunge alla vita e la prateria (l’unione tra l’umano e il divino) è un luogo meraviglioso.

Nei due precedenti libri, Puerto calcinado (2003, 2012 – pubblicato anche in Italia con LietoColle, Porto in cenere, 2010) e La ruina che nombro (2015) Andrea Cote ha tracciato un lucido percorso (contundente e ben dettagliato) tra rovine, porti distrutti e/o bruciati, fiumi in fiamme e terre incolte dove l’infanzia è un territorio bramato dalla paura e non si trova un angolo dove rifugiarsi se non il centro del dolore. Tra ferite e morti insepolti perché la terra è il primo cadavere, dove la collera non si trasforma in partenza, in distacco, in uno scenario più integro. Il corpo resta ancorato a una casa vuota, distrutta e la sola speranza è quella della morte o del labirinto senza ritorno: “Non mi piace sapere / che il mio corpo è una ferita”, una ferita sanguinante dove i fiori marciscono. Una visione pessimistica che riporta all’epigrafe di Baudelaire (in esergo a Puerto calcinado): “è annegato il sole” (nel suo denso sangue).

In La ruina que nombro (2014) tutte le cose (non solo le case) sono fragili e anche scrivere è un continuo sgretolarsi, allora occorre che il crollo narrato si trasformi in polvere, in poesia dove rinascere, in deserto dove perdersi e, alla fine, distaccarsi dal “mal tiempo” – un fatto doloroso? – e finalmente si possa perdonare. Mettere i piedi tra le rovine, nominarle, significa altresì incontrare tutto allo stesso tempo: passato e presente.
Parliamo di due libri intensi, taglienti che scavano tra le macerie e tessono un suadente linguaggio poetico.

In questo nuovo libro, En la pradera del mundo, dal quale provengono i testi qui sotto tradotti, ci si imbatte, come accennavo all’inizio, in una luminosa apertura, in uno sguardo sul mondo e sulle cose più aperto e morbido, concentrato sulle sfumature, i dettagli, i millimetrici passaggi, i piccoli spostamenti, i traguardi raggiunti (un figlio, la serenità di un raggio di sole, il silenzio e la mitezza del deserto), le ombre con le quali si convive tutti i giorni, anche quelle invisibili o che passano a distanza e non le vediamo, non ce ne rendiamo conto. Ne è ben consapevole l’autrice che mette in esergo alla prima parte del libro una epigrafe di Italo Calvino proveniente da Le città invisibili: “Ogni città riceve la sua forma dal deserto”. È come segnalare su una mappa personale e intima il punto di partenza di questo nuovo tragitto. Ha inizio un processo di spogliamento, un distacco dal passato (dalla sua rigidità, dalla sua incombenza), dall’edificio in cui si è cresciuti e ci si mette in viaggio “dal porto del primo giorno”, non quello in cenere dell’omonimo libro perché oltre il deserto c’è un bosco ma per raggiungerlo occorre prima immaginarlo (o è l’immaginazione stessa a crearlo?).

Dopo ogni sfida o battaglia c’è sempre qualcuno che rimette a posto, che pulisce con calma e per bene la città e le strade perché le cose (citando Wisława Szymborska) non si rimettono a posto da sole e in En las praderas del fin del mundo la notte non fa più paura, il sole non affoga nell’acqua. Si cammina a testa alta nel deserto, tra macerie del passato proiettandosi verso altri paesaggi, altre visioni. Il bosco, alla fine, non sarà solo un’apparizione ma qualcosa di concreto, di percepibile e offrirà, verosimilmente, anche un raccolto, un assiduo dialogo con la propria famiglia e un pugno di polvere con dentro la paura.




POESIE DI ANDREA COTE
da En las praderas del fin del mundo
Valparaíso Ediciones, Spagna, 2019


DESIERTO RUMOR

Padre, madre, ya tengo el peso de un hombre.
Aquí es el puerto del primer día,
no escojan alimento para mí,
no vigilen mis pasos,
ya he desembarcado en mí,
soy solo.

Denme una hoja de eucalipto para el viaje,
un impreciso pronóstico del tiempo
la brújula quebrada que sólo marca norte,
un mendrugo de pan.

Desmantelen la habitación en que crecí,
abran fuego en la noche con mis mantas,
otórguenme el don del despojo.
De ser posible,
un momentáneo olvido.

Dispuesto estoy para partir.
No ostento
otro peso que el nombre.


MORMORIO DEL DESERTO

Padre, madre, ho già il peso di un uomo.
Questo è il porto del primo giorno,
non scegliete cibo per me,
non sorvegliate i miei passi,
Sono già sbarcato in me,
sono solo.

Per il viaggio datemi una foglia di eucalipto,
imprecise previsioni meteorologiche
la bussola rotta che punta solo il nord,
una crosta di pane.

Smantellate la stanza dove sono cresciuto,
di notte accendete un fuoco con le mie coperte,
Lasciatemi il dono della spoliazione.
E se possibile,
un temporaneo oblio.

Sono pronto a partire.
Non ostento
altro peso che il nome.


TORMENTA

Ni la estepa, ni el baldío,
ni el alud de viento que se agranda en la espesura
son labor del despojo.

Hay vacío aquí
pero nada de esto
lo ha perdido el hombre.

En sus pardas lejanías
el desierto es manso.

Y ahora, como antes, mis paisajes,
poderosos tumultos de lo derribado,
son la garra de lo vivo.

La farragosa neblina
alcanza mi ventana,
el desierto se revuelve sobre sí
enorme y pedregoso,
pero mínimo.

El avizor rugido de tormenta
es calma,
pues todo el mundo sabe
que hay pavor en el silencio.

Por la mañana cosechamos luz,
accidentales beduinos en las noches
contra el frío vertemos
cántaros de resplandor petrificado.

Y no tenemos más preguntas
para la esperanza
que la que eleva el desierto
cuando recrudece
en el árbol solitario.


TEMPESTA

Né la steppa, né la terra desolata,
né la valanga di vento che si allarga nella vegetazione
sono lavoro dello spogliamento.

Qui c’è un vuoto
ma niente di tutto questo
l’ha perso l’uomo.

Nelle sue buie lontananze
è mite il deserto.

E ora, come prima, i miei paesaggi,
potenti tumulti di ciò ch’è stato colpito,
sono l’artiglio del vivo.

La farraginosa nebbia
raggiunge la mia finestra,
il deserto si rivolta su sé stesso
enorme e pietroso,
eppure conciso.

Il vigile rombo della tempesta
è calma,
perché tutti sanno
che c’è terrore nel silenzio.

Al mattino raccogliamo luce,
accidentali beduini notturni
versiamo contro il freddo
giare dal bagliore pietrificato.

E non abbiamo altre domande
per la speranza
che quella sollevata dal deserto
quando si esaspera
in un albero solitario.


COSECHA

Afuera,
hijo,
no dejes palas, cubetas o crayones.
El botón desprendido de la blusa,
papeles, mucho menos.

En el desierto
los objetos sobre la hondonada
hieden a yerba seca de rituales.
Son terribles presagios.

Las botellas vacías,
no las muevas,
déjalas torcerse,
partirse entre sus vetas de sal,
reventarse por dentro,
como por la sed.

Las valijas, en cambio,
ni las mires
son para los caminantes
de los que no se habla.

Confórmate con
escarbar la grama,
amasar la piedra,
triturar chamizo hasta
exprimirle
su promesa:
el fruto reseco del desierto.

Para Sylvia A.


RACCOLTA

Fuori,
figlio,
non lasciare pale, secchielli o matite colorate.
Il bottone staccato dalla camicia,
e tantomeno fogli di carta.

Nel deserto
gli oggetti nel canale
sanno d’erba rinsecchita da rituali.
Sono terribili presagi.

Le bottiglie vuote,
non spostarle,
lasciale torcersi,
spezzarsi tra le venature di sale,
scoppiare dall’interno
come assetate.

Le valigie, invece,
non guardarle nemmeno,
sono per i vagabondi
per coloro di chi non si parla.

Accontentati di
strappare la gramigna,
impastare la pietra,
sminuzzare rami bruciati fino
a spremergli
la promessa:
il frutto assettato del deserto.

Per Sylvia A.


RÍO ABAJO

Me dicen que más allá de este paisaje está
el bosque.
Pero tuve que sentarme a imaginarlo.
¿Qué será
un hartazgo de árboles rendido entre la niebla?


FIUME A VALLE

Dicono che al di là di questo paesaggio ci sia
la foresta.
Ma sono rimasta seduta a immaginarla.
Cosa sarà
un’ondata di alberi tra la nebbia?


EN LAS PRADERAS DEL FIN DEL MUNDO

Los que hablan de cosechas,
como de lánguidas apariciones,
entre torres de polvo y bruma
distinguen maizales de fuego.

Entre saguaros erguidos,
que al azul saludan como hermanos,
extienden su feroz quejido
que pide al desierto que no los vea.

Las recámaras de cielo desecado,
templado por ceniza y cal,
invocan el amparo del árbol
cuya savia es una roca dura.

En las praderas del fin del mundo,
de las láminas ajadas de los cuerpos,
se desclavan, una a una, las partículas de polvo
que engulle el viejo sol, único dios íntegro.


NELLE PRATERIE DELLA FINE DEL MONDO

Quelli che parlano di raccolti,
come di languide apparizioni,
tra torri di polvere e nebbia
distinguono campi di grano in fiamme.

Fra eretti cactus giganti
che al blu salutano come fratelli,
estendono il loro feroce lamento
per chiedere al deserto di non guardarli.

Le stanze di cielo inaridito,
temperato da cenere e calce,
invocano la protezione dell’albero
la cui linfa è una dura roccia.

Nelle praterie della fine del mondo,
dalle lamelle consumate dei corpi,
si schiudono, una ad una, le particelle di polvere
che il vecchio sole inghiotte, unico Dio integro.


LECHO

Dímelo a mí,
que vengo del fondo de ese río
cuyo caudal
es un cúmulo de piedras.


FONDALE

Dillo a me,
che vengo dal fondo di questo fiume
la cui portata
è un ammasso di pietre.


VISIÓN

Casi todo era escombros,
árboles enanos,
piedra que nació quebrada
como si este fuera
el predio en que arrojaron
la pedriza que sobró después de hacer el mundo.

Esqueletos de barcos y ballenas
soplando en el costado de todo lo que vive.

De este lado, madre,
no envío misivas que incluyan mi apellido,
—no lo preciso—
me he hecho uno con él,
y los que tienen temor de pronunciarlo me llaman “aquel”,
uno cuyo nombre es su rostro.


VISIONE

Quasi tutto era macerie,
alberi nani,
pietra venuta al mondo spezzata
come se questo fosse
la proprietà su cui fu buttato
il residuo pietrisco della creazione del mondo.

Scheletri di navi e balene
che soffiano sul fianco di tutto ciò che vive.

Da questa parte, madre,
non invio messaggi recanti il mio cognome,
– non è necessario –
mi sono fatto tutt’uno con lui,
e quelli che hanno paura di pronunciarlo mi chiamano “quello”,
uno il cui nome è il proprio volto.


LUGAR

Pero en la tierra estremecida todo cruje,
incluso la existencia discreta de la rama
ambiciona un ruido,
un traqueteo vegetal.
Los bosques crispados crujen como la marea
y las cascadas rompen con el mismo crepitar del fuego.
Son lecciones del viento que lo ha tocado todo.


POSTO

Ma sulla terra che sussulta tutto scricchiola,
anche la discreta esistenza del ramo
ambisce a un rumore,
a uno scoppiettio vegetale.
Le foreste agitate scricchiolano come la marea
e le cascate si infrangono con lo stesso crepitio del fuoco.
Sono lezioni del vento che ogni cosa ha sfiorato.


NIEBLA

Al volver nos falta padre para olfatear peligros en la bruma.
Que no nos hablen de bosques o de flores,
cumbres sembradas de rocío y plantas.
No se ve nada.
Visibles son las casas que alguien despobló de prisa,
la cama a medio hacer,
los bordes de un tazón de sopa
y todo lo que pinta un roñoso polvo verdinegro.
La guerra trabaja para el desierto.


NEBBIA

Quando torniamo ci manca un padre per fiutare i pericoli della nebbia.
Che non ci parlino di boschi o di fiori,
cime seminate di rugiada e piante.
Non si vede nulla.
Visibili sono le case che qualcuno svuotò in fretta,
il letto mezzo rifatto,
i bordi di una ciotola per la zuppa
e tutto ciò che dipinge una immonda polvere verdecupo.
La guerra lavora per il deserto.


ARIZONA

Lo que llamo paisaje es la visión rotunda.
Al sur, donde esta contienda se dirime de vegetales maneras.
Interminables praderas
sembradas con esbeltas
blancas aspas,
un automóvil
agarra casi vuelo.
Nos lleva a ese destino.
La estepa eólica por la que nos abrimos paso,
nosotros,
apenas adultos,
apenas padres.
Gente a merced del portátil hechizo
de la velocidad.
En la ruta estamos sin sentir el espesor de nuestra enorme pérdida,
el camino que llevamos recorrido:
te haré ver el miedo en un puñado de polvo.


ARIZONA

Quel che chiamo paesaggio è la nitida visione.
A sud, dove questa contesa si conclude in modo vegetale.
Praterie infinite
seminate da torri slanciate
corni bianchi,
un’auto
che quasi spicca il volo.
Ci conduce a questo destino.
La steppa eolica nella quale ci siamo fatti strada,
noi,
appena adulti,
appena genitori.
Persone alla mercé del portatile incantesimo
della velocità.
Lungo la strada non sentiamo lo spessore della nostra enorme perdita,
il cammino che abbiamo percorso:
ti farò vedere la paura in un mucchio di polvere.


PLEGARIA

Que por el campo
limpio y liberado
asome
la
raíz
de una noche sin espanto.


PREGHIERA

Che attraverso il campo
pulito e liberato
spunti
la
radice
di una notte senza paura.


Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini




Andrea Cote
è nata in Colombia nel 1981 e da qualche anno vive negli Stati Uniti dove insegna all’Università di El Paso (Texas). Ha pubblicato i libri di poesia: Puerto calcinado (Colombia, 2003; Spagna, 2012 - pubblicato anche in Italia con LietoColle, Porto in cenere, 2010, a cura di Giulia De Sarlo), La ruina que nombro (Colombia, 2015) e En las praderas del fin del mundo (Spagna, 2019).
Ha pubblicato i libri in prosa: Una fotógrafa al desnudo: biografía de Tina Medotti (2005), Blanca Varela o la escritura de la soledad (2004) e Chinatown a toda hora (2017, in collaborazione con gli artisti Adalberto Camperos e Davian Martínez).
Ha ricevuto premi per la poesia e suoi testi sono stati tradotti e pubblicati in diverse lingue.
Ha tradotto dall’inglese i poeti Jericho Brown e Tracy K. Smith.

(Foto di Margarita Mejía)


alexbrando@libero.it