Lui si sarebbe limitato a raccontargli tutte quelle storie come delle favole: alcune belle, piene di animali gentili, di alberi con occhi e naso, di macchine che mangiavano le carte; altre tristi, senza alcun lieto fine. Lieti o tristi che fossero, erano pur sempre racconti, e fin quando puoi raccontare qualcosa a qualcuno, vuol dire che sei ancora vivo.
Daniele è il prolungamento di una famiglia che viene da lontano, da un Ottocento laico e mazziniano, dalla asciutta e severa consapevolezza di un ruolo e di una missione nella vita. Realizzare ideali, nella famiglia di cui Gualtiero è ottocentesco e laico patriarca, significa anche compiere il destino nell’affermazione e nel riconoscimento del proprio genio e di quello dei discendenti. L’impossibilità attraverso le generazioni di questa sostituzione al destino o a Dio è la storia raccontata da Sergio De Santis in Non sanno camminare sulla terra. Senza cadere nella trappola di raccontare il disastro, o la perdita di senso, che pure fanno parte della vita di questa famiglia, ma ne rappresentano passaggi, fluidi e non meccanici, attraverso personaggi che rimangono schiacciati dal peso di quelle attese (la malinconia e la depressione della figlia di Gualtiero, Adelina), o che sembrano seguire apparentemente il programma della buona famiglia (Gabriele sceglie sì di aprire uno studio legale, ma anche di fuggire dall’asfissia salottiera borghese unendosi more uxorio con una popolana); Ernesto scappa letteralmente in America, anche se in teoria avrebbe dovuto rappresentare l’unico possibile, lecito ancoraggio della famiglia nella realtà italiana fin dalle radici, essendo un latinista. Anche le radici si rifiutano di continuare ad alimentare una pianta che è esistita solo nei progetti e non nell’accettazione del luogo e del tempo.
La non dichiarata maledizione che spinge un altro figlio al suicidio è conseguenza del soffocante senso di predestinazione a qualche bel destino, che uccide letteralmente chi non se ne sente portatore. La storia vera comincia da un ruolo non scelto che le generazioni si portano dietro: diventare qualcuno. Il Daniele dei nostri tempi è una delle vittime familiari di questa antica Ananke.
Merito di questo romanzo è non aver presentato una sfida frontale tra una antica castrazione edipica e una reazione consapevole: la storia della famiglia diviene soprattutto quella di Daniele che combatte contro forze non direttamente connesse con quell’archetipo familiare. Anche lui è soggetto a quelle crisi depressive che avevano portato Adelina a morire in una casa di cura, anche lui cova un risentimento oscuro verso chi ha tentato di imporgli quella assurda e aristocratica missione di essere qualcuno, anche lui si è tolto di mezzo. Non fisicamente come chi ha portato il suo stesso nome – allusione alla necessità della piccola morte per poter rinascere – ma con la scelta del cono d’ombra in cui cercare un senso. E questo diviene il nucleo portante dell’intero racconto. Un vero e proprio inizio, una nuova apertura sul mondo delle possibilità.
I vissuti non solo letterari, il che non vuol dire i prestiti coscienti, ma le dinamiche che si sviluppano dai confronti profondi con la testualità sommersa, sono diversi: la scelta del cambiamento in se stessi invece che nell’utopica azione definitiva per l’affermazione del sé sul mondo, che in Cartesio ha trovato un punto di snodo; l’allusione – che però è lasciata lì senza ulteriori sviluppi – all’antidogmatismo spinoziano e alla sua scelta di vivere nel piccolo cono d’ombra del proprio lavoro, che ha conosciuto una nuova stagione grazie a Il problema Spinoza di Irvin D. Yalom.
Nel romanzo di De Santis appare però una possibilità nuova, oltre lo stesso rifiuto delle “maledizioni” familiari: la ricerca del microcosmo dove iniziare da capo, l’eden perduto fin dalla nascita a causa di una attesa di prestigio che schiacciava ogni richiesta d’amore al di là delle funzioni e finzioni sociali.
Il pino con occhi e naso si avvicinò alla finestra per avvisare che il vento stava portando via la nebbia di nuvole. Di più non avrebbe potuto o saputo comunicargli, ma Daniele lo ringraziò lo stesso.
Il nuovo cosmo è quello legato ai cicli della natura, al paese e alla comunione immediata con lo spirito del luogo, che da sempre è presente nella letteratura, ma qui è espressa con la leggerezza –nonostante il racconto incroci i draghi contemporanei della depressione, dell’anomia, delle separazioni senza neanche più un motivo e di figli senza orizzonti affettivi- della scoperta di un sentiero e della semplicità della un tempo esecrata vita di paese.
Tutta quella fatica anche per uno come lui, per farlo ritrovare una sera qualsiasi in un viottolo alberato finalmente in compagnia di se stesso, felice perché il giorno dopo sarebbe stato insieme al figlio. Era solo questo che contava davvero. (…) Prima però gli avrebbe parlato di Lucia e Ico, di Nanni il barista, di Biagio il contadino, di Giovanni il barbiere e di Agostino, che gli aveva insegnato ad avere compassione per gli alberi (…).
La scoperta che la vittoria sulla società ricercata dalla parte maschile della sua famiglia era stata raggiunta nel proprio cambiamento e nell’accettazione, finalmente liberata dalla dannazione dei ruoli prestabiliti, del proprio ruolo di padre è uno dei motivi di maggior interesse di Non sanno camminare sulla terra. Un cursus lieve, introspettivo più che narrativo, racconta una storia fatta di altre storie senza cadere nella peripezia e nell’intreccio a tutti costi, narrando l’essenzialità fatta di fughe dagli ismi e delle “attualizzazioni” cronachistiche.
Sergio De Santis, Non sanno camminare sulla terra, Mondadori, 2018, 151 pagine, 19 euro.
Sergio De Santis è nato a Napoli nel 1953. Vive a Roma dove insegna filosofia e storia al liceo. Suoi racconti sono apparsi su varie riviste letterarie e antologie. Ha pubblicato Malussia. Storie del vulcano muto (2000, Avagliano), Cronache dalla città dei crolli (2005, Avagliano, finalista al premio Strega 2006), Nostalgia della ruggine (2010 , Mondadori, Premio Napoli), L’opera viva (2014, Mondadori) e Non sanno camminare sulla terra (2018, Mondadori).
testi.marco@alice.it
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