Perché mi sono innamorato della Romania? Non è mai facile rispondere a domande di questo genere. È un qualcosa di profondo, che ha a che fare con i codici dell’anima. E questi, chi è in grado di decifrarli?
L’amore non si misura; ma se ti conquista, senti che è come se fosse lì da sempre. Ecco, quando ho messo piede in Romania per la prima volta (molto più tardi rispetto ad altri Paesi europei e mondiali), ho provato l’emozione che ci pervade tornando nella terra natale dopo una lunga assenza. Ovunque posassi lo sguardo, qualcosa di familiare, di semplice e di estatico, di trasparente e misterioso allo stesso tempo.
Un amore tardivo dunque, ma proprio per questo maturo, forte, completo, come a voler riempire un vuoto che la mia anima aveva tollerato solo perché ignara della fonte capace di apportare nuovi stimoli e interessi alla mia vita.
Il fatto è che prima della diaspora dei romeni, e della massiccia emigrazione nel nostro Paese, noi italiani sapevamo ben poco della Romania. Il regime comunista di Ceauşescu, gli scrittori Eliade e Ionesco, le leggende intorno a Dracula, le prodezze sportive di Nadia Comaneci e Gheorghe Hagi, qualcosa sulle bellezze naturali dei Carpazi; quasi niente, invece, riguardo alla geografia, alla storia, alla letteratura, alle vicende sociali e politiche del Paese nelle vene dei cui abitanti – come recita in modo commovente l’inno nazionale – scorre ancora il sangue dei romani.
Purtroppo, le prime immagini della Romania che passarono dinanzi ai miei occhi erano intrise di una drammaticità e di un dolore a stento sopportabili. All’inizio degli anni ’90 la tv italiana trasmise un servizio sui bambini romeni ricoverati in condizioni disperate in orfanotrofi che parevano più dei lager che istituti di accoglienza. Scioccati e commossi, io e mia moglie ci informammo sulla possibilità di fare qualcosa per quelle povere creature, ma ci venne detto che non sarebbe stato facile arrivare a un’adozione. Ci arrendemmo troppo presto, devo ammetterlo…
Da quella triste serata, il mio radar interiore si volse con maggior interesse verso lo Stato posto fra i Carpazi, il basso Danubio e il Mar Nero. Iniziai a leggere gli autori romeni tradotti in italiano; pochi in verità, solo qualche antologia poetica e alcune opere dei letterati più famosi. Uno di essi, Emil Cioran, filosofo emigrato in Francia, parlava della Romania con malcelato amore, descrivendo con grande rimpianto gli anni dell’infanzia trascorsi ai piedi dei Carpazi e quelli da studente nelle città universitarie romene; e tuttavia, non perdeva occasione per stigmatizzare l’atavica passività della Romania, la sua debolezza come Nazione, l’incapacità di sedersi da protagonista sugli scranni della storia.
La conoscenza del pensiero di Cioran mi induceva ad essere scettico almeno quanto lui su alcune sue affermazioni. Ma come a confermarle brutalmente, nei reportage televisivi italiani passavano altre immagini dolorose: le lunghe code di persone ordinatamente in fila per comprare un po’ di pane o un po’ di latte, le scene di estrema povertà, le prime notizie relative alla diaspora dei romeni, che presto cominciò a interessare anche il mio paese, Gerano.
Ma questo popolo – mi chiedevo – i discendenti dei Geti che Erodoto considerava “i più giusti e valorosi fra i Traci” e dei Romani che avevano occupato la Dacia, il popolo nostro alleato già nel 1883 e poi in due Guerre Mondiali, che ha dato al mondo alcuni dei più grandi intelletti dell’epoca moderna, conosce solo sofferenze?
Non tardai a fare amicizia coi romeni presenti a Gerano, scoprendo cose sempre più coinvolgenti. Mi colpiva il loro dinamismo, la vitalità, la voglia di dare un senso al drastico cambiamento avvenuto nelle loro vite. Notavo il legame con un presente del tutto diverso da quello della Nazione in cui erano emigrati: pigro, satollo, rassicurante, il nostro; impastato di tenacia, di abitudine al sacrificio, di desiderio di riscatto il loro.
Pur sapendo che il romeno faceva parte delle lingue romanze, rimasi particolarmente sorpreso dall’estrema somiglianza lessicale, morfologica e sintattica con l’italiano. Quando mi ritrovai fra le mani l’edizione del 1968 de La Letteratura Romena di Gino Lupi, lessi un’affermazione che non ha perso nulla della sua straordinarietà: “Ha del miracoloso questa lingua neolatina, conservatasi malgrado la perdita di ogni contatto col mondo romano, come un’isola fra marosi mugghianti di popoli di razza e lingua assolutamente diverse”.
Un altro dato si imponeva alla mia attenzione: non pochi dei romeni con cui conversavo parlavano in modo intrinsecamente malinconico della loro Patria, se non apertamente critico. Ma che mostrassero di adorare la loro terra o ne fossero delusi, che meditassero di ritornarvi o di lasciarla per sempre, non c’era romeno che non concludesse la conversazione in questo modo: “A parte i problemi che abbiamo, voi italiani non potete immaginare quanto sia bella la Romania”.
Un comprensibile, sano campanilismo? L’inevitabile nostalgia per la Patria lontana? Già dopo le prime due visite potei constatare la veridicità di quell’affermazione, perché la Romania è un Paese di straordinaria e multiforme bellezza.
Le vette aspre e selvagge dei Carpazi, le foreste più intatte d’Europa, le immense e dolcissime distese verdeggianti della Moldavia. Il delta fluviale più vasto e importante dell’intera Europa – quello del Danubio – Patrimonio Unesco dal 1991 e Riserva della Biosfera dal 1998, un’area di circa 600.000 ettari che ospita quasi tutte le specie di fauna acquatica del nostro Continente. Le commoventi chiese lignee del Maramureş, i mistici monasteri affrescati della Bucovina, quelli ameni e sereni della valle dell’Olt, i conventi-giardino intorno a Piatra Neamț. La strada (Transfăgărăşan) che diversi esperti di riviste automobilistiche considerano la più bella del mondo (quello di Top Gear lo dichiarò in diretta, mentre la percorreva!). Il secondo ghiacciaio sotterraneo del mondo per grandezza (è il Ghețarul de la Scărişoara, nei Monti Apuseni, inferiore solo al ghiacciaio della grotta Eisriesenwelt di Werfen, Austria). La desolante, sinistra bellezza della pianura stepposa del Baragan. Una capitale, Bucarest, che raccoglie nel centro storico tutte le cose belle e importanti che contraddistinguono le più grandi città del mondo. I gioielli cittadini che rispondono al nome di Cluj-Napoca, Sibiu, Braşov, Timişoara, Iaşi, Piatra Neamț, con la chicca di Sighişoara, una delle città medievali meglio conservate d’Europa, anch’essa Patrimonio Unesco.
Intanto, dentro di me, la corrente del fiume sfociava in mare aperto. Leggevo le poesie di Eminescu, di Arghezi, di Blaga. Le leggende immortali della Mioriţa e di Mastro Manole mi commuovevano profondamente. Mi appassionavo alle vicende storiche della “generazione Criterion”, letterati del calibro di Mircea Eliade, Eugène Ionesco, Emil Cioran, Petre Ţuțea, Mircea Vulcănescu, Constantin Noica, Dan Botta, Mihail Sebastian, Arşavir Acterian, Petru Comarnescu, Mihail Polihroniade; nati a pochissimi anni di distanza l’uno dall’altro, spesso in dissenso fra di loro, ma uniti tutti, nel periodo interbellico, per cercare di ridare vigore politico e culturale a una Nazione martoriata dalla storia. Con esiti e ricadute non sempre condivisibili, come ormai sappiamo; ma lo spirito rifondatore e l’amore per la Patria che li animava non potrà mai essere messo in discussione.
Naturalmente, più mi immergevo nella realtà romena, più scoprivo pagine di cultura completamente sconosciute non solo a me, ma – constatavo con una certa sorpresa – anche a persone di una certa erudizione. Nei licei e nelle facoltà classiche delle Università italiane nessuno ignora i nomi di Poggio Bracciolini, Flavio Biondo, Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II), Giulio Pomponio Leto, Antonio Bonfini, umanisti e storici del Quattrocento che partendo dalla lezione degli antichi elaborarono una nuova concezione dell’uomo e della realtà. Non tutti sanno, però, che non trascurarono di estendere i loro studi all’origine latina del romeno e alle somiglianze etimologiche e semantiche con l’italiano.
Nei secoli seguenti, molti altri nomi si aggiungeranno a quelli dei grandi umanisti italiani. Fra di essi, un posto di tutto rilievo spetta allo scrittore e giornalista Luigi Cazzavillan (1852-1903). Uomo di studi e di azione (fece parte dell’esercito garibaldino), filantropo e imprenditore, arrivò a Bucarest come corrispondente di guerra di alcune testate italiane. Amò subito la Romania, decise di stabilirvisi e nel 1884 fondò il giornale Universul, destinato a diventare, sotto la sua direzione, il primo giornale moderno e ad alta tiratura della Romania.
Sul versante romeno arrivavano sorprese ancora maggiori, perché i rapporti con l’Italia si caratterizzano per continuità e profondità sin dagli albori della cultura letteraria romena. Quando all’inizio del XIX secolo ripresero vigore i contatti fra la Romania e l’Occidente (in special modo quelli con la Chiesa Cattolica) fu soprattutto Roma ad ospitare nelle scuole e nei seminari i giovani studenti romeni. La Scuola Latinista Transilvana, i cui promotori furono i monaci basiliani Samuil Micu, Gheorghe Şincai e Petru Maior, sorse con l’intento di dimostrare la derivazione della lingua romena dal latino; in particolare, Petru Maior si batté per una riforma linguistica basata sull’ortografia italiana. Più tardi, il grande Ioan Eliade Rădulescu pubblicò Repede aruncătură de ochiu asupra limbei şi ȋnceputului Rumȋnilor (Breve sguardo sulla lingua e sulle origini dei romeni), saggio in difesa della latinità dei romeni, cui fece seguire, nel 1841, Prescurtare de gramatica limbei romȃno-italiene (Breve grammatica della lingua romeno-italiana) e Paralelismu ȋntre limba rumȋnă şi italiană (Parallelismo fra la lingua romena e la lingua italiana); con queste pubblicazioni, Rădulescu ordinò i suoi studi (non privi di alcune esagerazioni) in un vero e proprio sistema.
Ancora, uno dei primi grandi poeti romeni, Gheorghe Asachi, compone sonetti e liriche amorose alla maniera di Petrarca e in lingua italiana, per poi tradurle egli stesso in romeno. Ma Asachi è anche tra i primi letterati a collaborare con un quotidiano italiano, il Giornale del Campidoglio.
Dentro di me, intanto, era accaduto ciò che forse era destinato ad accadere: parafrasando uno dei più grandi amanti della Romania, lo scrittore Patrick Leigh Fermor (ne parlerò più avanti), tutto ciò che aveva a che fare con la Romania iniziò ad emanare un incanto misterioso e potente.
Perciò, ero felice di frequentare l’Accademia di Romania in Roma, con la sua splendida, ricchissima biblioteca e le continue iniziative culturali. Sentivo le giovani borsiste affermare con un lampo nello sguardo di essere arrivate in Italia per il grande amore verso il nostro Paese; uguale apprezzamento ascoltavo dalle donne romene più impegnate nel campo della cultura e dell’integrazione sociale fra le nostre genti.
Sono diventato amico di parecchie di loro, e posso affermare che la presenza e il crescente peso culturale e umano della Romania nel mio Paese si coniuga soprattutto al femminile. Del resto, questa non è una novità; già in passato, specialmente nell’ambito dell’aristocrazia di fine Ottocento e primi decenni del Novecento, le donne romene hanno giocato un ruolo rilevante nella vita della Nazione. È vero che alcune di esse vissero in Francia e si espressero in francese; è comunque importante ricordare lo spessore culturale e umano di Elena Bibescu, Anna de Noailles, Alexandra Didina Cantacuzino, Hélène Soutzo, Hortensia Papadat-Bengescu, Olga Sturdza, Martha Bibescu.
Nel percorso che mi ha condotto verso la Romania non è stato meno esaltante venire a contatto con le sue tradizioni, che rimangono forti e radicate nel popolo romeno. Non c’è animo umano che possa rimanere indifferente ai canti popolari più struggenti che io conosca, i cântece bătrâneşti, le doine, le colinde, melodie dove l’animo semplice dei contadini della terra di Romania si è elevato sino ad attingere la pura poesia.
Non so quanti romeni conoscano l’opera di Patrick Leigh Fermor, scrittore inglese che reputo il massimo esponente della letteratura di viaggio del secolo scorso, superiore, a mio parere, anche al suo amico Bruce Chatwin e a Robert Byron. Quest’uomo impavido, amante dell’avventura, del bello, della cultura popolare come dell’arte più raffinata, attraversò l’intera Europa negli anni Trenta, con il proposito di raggiungere a piedi Costantinopoli. Due Paesi rimasero sempre nel suo cuore, e a loro dedicò le pagine più belle dei suoi impareggiabili resoconti di viaggio: la Grecia e la Romania.
La sensibilità linguistica gli fece scoprire immediatamente che “il rumeno è ricco di parole che esprimono sfumature di tristezza”. Dopo aver individuato nel dor (e nello zbucium) uno stato d’animo inconfondibilmente rumeno, lo scrittore ne ritrova la costante presenza nella musica e nel canto delle doine, che descrive così: “La doina è un’emanazione dei campi, dei villaggi, delle pianure, infinitamente lenta e con lunghe pause e melodie inafferrabili, di una bellezza incantevole; la si ascolta dai finestrini di un treno, o da dietro un mucchio di paglia dopo che i mietitori hanno falciato l’ultima spiga, o al calar della sera, proveniente da un villaggio a cui ci si sta avvicinando a piedi; ci si ferma, si ascolta e si capisce come solo le scansioni e l’ordine imposti da queste trenodie rendano sopportabile l’incombente consapevolezza che tutte le cose che spezzano il cuore sono qui, e che tutte sono vane”.
Doine e colinde, ovvero l’anima antichissima e pura del contadino romeno. Emerge così un altro dei motivi per cui il mio io interiore è così attratto dal mondo romeno. Sono nato in una terra di contadini, anche i miei nonni lo erano. L’ambiente contadino è presente in tutte le letterature del globo. Ma la letteratura romena registra, per questo aspetto, un dato unico. La millenaria presenza del popolo contadino, le sue lotte quotidiane per la sopravvivenza, la sua miseria e la sua generosità, il legame sacro con la terra, il palese o segreto rimpianto per una condizione che non muta, come se la miseria e le sofferenze rappresentassero una tragica fatalità della terra di Romania: tutto questo viene riflesso in una dolorosa epopea degli umili che percorre moltissime pagine della letteratura romena. Conachi, Alecsandri, Creangă, Slavici, Eminescu, Delavrancea, Duiliu Zamfirescu, Vlahuță, Coşbuc, Mihail Sadoveanu, Arghezi, Goga, Rebreanu, Teodoreanu; non c’è praticamente un solo grande scrittore che non abbia trattato della condizione naturale e spirituale dei contadini romeni. Sarà Nicolae Iorga a compendiare l’attenzione e l’amore per il popolo contadino, riconoscendo in esso, come aveva già fatto in parte Eminescu, l’unico e vero elemento nazionale.
Dal mondo rurale e popolare proviene un altro dei fattori che mi legano alla Romania con un amore particolare. È la lingua romena a possedere uno dei sostantivi più straordinari del parlare umano. Quando ho udito per la prima volta la parola dor, ho immediatamente percepito, come per una mistica Rivelazione, che quel nome comprendeva un mondo, la storia e l’antropologia di un popolo, le sue sofferenze e il suo pessimismo, il suo amore per la terra natia e la sua fede nell’Assoluto. Ed è sorto in me l’irresistibile desiderio di cercare di comprendere la malia di uno dei termini più evocatori del linguaggio mondiale, pur rimanendo sempre consapevole del monito di Noica, per cui “devi chiedere perdono agli Dei del buon gusto per poter dire ancora una parola in questa materia, o agli Dei del pensiero esatto, per tutto ciò che è vago, inafferrabile e imperdonabilmente sentimentale nel contenuto della parola dor”.
Procedo con umiltà, quindi. La parola dor deriva dal latino vernacolare dolus, nome che può tradursi con “dolore, sofferenza malessere interiore”. Imparentata col i>dol catalano e provenzale, è affine a sostantivi che esprimono dolore, melanconia, nostalgia, come saudade, duolo, spleen, désir, douloureux, Sehnsucht, malaise, wunsch. E tuttavia il dor romeno è più di queste parole che, pure, sanno di un profondo sentire dello spirito.
Per qualsiasi amante delle lingue, non solo quelle indoeuropee, non solo quelle neo-latine, è un piacere fonetico e morfologico udire e leggere le infinite sovrapposizioni semantiche concesse dal lemma dor. Ci si incanta quando si ascolta o si legge mi-e dor, dor de mamă, de casă, de țară, te doresc, dorință, doritor, cu dor, de dor, a-i duce dorul, ȋn/de dorul lelii, a dori, dor de libertate, moare de dor.
E dunque, cercando la traduzione in un italiano che al paragone appare debole, impossibilitato ad esprimere in una parola tutte queste accezioni, scopriamo che dor può significare: dolore dell’anima per l’assenza di una persona cara, nostalgia di un luogo, desiderio ardente di una persona, brama di avere qualcosa, rimpianto per qualcuno o qualcosa, inquietudine e tumulto interiore, dolore spirituale, anelito verso uno scopo irraggiungibile, pena, afflizione, struggimento…
Dor: come scrive splendidamente Cioran, una parola “che sale dall’oscurità del sangue, come una sorta di tristezza della terra”. L’unica parola al mondo nella quale si coniugano magicamente il dolore e il piacere nato dal dolore.
E magici e immortali sono i versi delle doine che celebrano la potenza e l’onnipresenza del dor nel panorama umano dei romeni:
Cȋtă boală e sub soare,
nu-i ca doru arzătoare…
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Cine-o zȃs dorului dor
n-o zȃs un cuvȃnt usor
cin-o zȃs dorului drag
umble pă păduri pribeag
Cine-o zȃs dorului dor
n-ar putea durmi uşor
nici pă cergă nici pă tol
numa pă pămȃntul gol |
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Quanti mali sotto il sole,
nessuno brucia come il dor…
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Chi ha chiamato dor il dor
non ha detto una parola facile,
chi ha chiamato caro il dor
vada a smarrirsi nel bosco
Chi ha chiamato dor il dor
non potrà dormire facilmente
né sulla coperta né sul tappeto
ma solo sulla nuda terra |
Il dor: la sproporzione tra l’immensità dell’universo e la nostra finitezza, la malinconia per le inesorabili cessazioni decretate dal destino, la rassegnazione per l’irreparabile che può ghermirci in qualsiasi istante, come sa bene chi ha subito una storia fatta di miserie, di sofferenze, di ingiustizie, di invasioni, di divisioni, di dittature. Ma il dor è un elemento spirituale ed estetico, non un tratto genetico; è legato alla storia umana come il benessere interiore è legato alla vita che conduciamo. Sono convinto che per ogni romeno la consapevolezza del dolore che la Storia ha inflitto alla Patria costituirà il fermento per una crescita, già in atto, nel segno della fecondità sociale, economica, culturale. I romeni non vogliono più nutrire dubbi su stessi, vogliono migliorare, vivere la loro libertà, esprimere tutte le potenzialità della loro magnifica terra e del loro spirito antico e fiero. Se si ama la Romania, non si può non sperare che il dor, nella sua accezione più dolorosamente pessimistica, rimanga la memoria storica di un difficile passato, l’eredità spirituale trasposta eternamente nelle note di un musicista, nelle immagini di un artista, nei versi di un poeta della terra di Eminescu.
L’articolo è stato pubblicato in rumeno sulla Gazeta Românescă, col titolo “Mi-e dor de tine – Perché amo la Romania” nell’ottobre 2018.
armando.santarelli@inwind.it
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