FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 50
settembre/dicembre 2018

Aurora

 

ALFREDO FRESSIA, RADICI DEL PARADISO

di Marco Benacci



Far conoscere ai lettori italiani l’arte poetica di Alfredo Fressia (Montevideo, 1948) è già di per sé una gran cosa; proporlo in questa edizione elegante, attraverso un’ottima selezione dei testi e traduzione, fa di questo libro, un gioiello imperdibile per gli amanti della poesia contemporanea.
Radici del Paradiso è un’antologia degli ultimi vent’anni di poesia (1998-2017) di uno dei poeti latinoamericani più apprezzati al giorno d’oggi. Si capisce il perché dell’alta considerazione che il mondo della critica riserva a Fressia, sin dalle prime battute della raccolta: «In frantumi la scogliera, scheletro / scortato, un numero / squallido sulla fronte» (C.I., p. 17); attraverso il suono di questi pochi versi, l’autore, che nella vita è anche professore, traduttore e critico letterario, dimostra di conoscere bene sia l’arte della parola che l’arte della poesia in generale. Quella dell’uruguaiano è una poesia libera, poco inquadrabile o assimilabile a correnti letterarie, dove fonte di nascita poetica è ogni cosa con cui viene a contatto, come possiamo notare nei curiosi componimenti senryu d’ispirazione giapponese, (p. 89):
      Vola e naviga.
      La pescano in aria:
      è la mia poesia.

La cosa che abbaglia di più però di questo libro è la serenità delle poesie; qualsiasi sia il tema del componimento, Fressia affronta poeticamente tutto con questo sentimento. Ad esempio con un argomento delicato come quello dell’esilio, che altre penne avrebbero trattato graffiando il foglio, in lui diventa una lenta piuma che cade in un’aria senza vento, a tal punto che il lettore fa difficoltà a comprendere se si sta parlando della patria perduta, della condizione umana, di se stesso, della noia: «Sono solo pensiero / perduto in un giardino // che sogna di essere Eden. / So che una scimmia mi osserva, // è su un ramo. / È eterna, calcolo. // E nel frattempo, mi annoio.» (Noia, p. 109). Il poeta quindi dà l’impressione di essere sempre tutto sommato tranquillo, certamente non senza problemi, ma comunque uno che prima di comporre ci ha dormito sopra (o si è fatto una passeggiata) e non si è lasciato influenzare dal momento negativo o dalla prima reazione.

Forse è per questo che nelle poesia ricorre spesso un altro Alfredo, che forse è lo stesso Fressia (o almeno una parte); quello che sicuro è che è la parte di lui che si è riposata, senza fretta, l’Alfredo poeta, che a volte sembra proprio che lo stesso Fressia conosca poco o non l’abbia capito del tutto:

      […]

      Sopravvivo a ogni notte
      come un puledro celeste
      nutrito con trifoglio e stelle
      mentre tu, Alfredo, odori di vecchie erbe
      nel cassetto stipato di segreti.
      Mi dimentico di te quando mi sveglio, continuo la ricerca
      ostinata nel pagliaio del mondo
      e ti ritrovo nel cuscino
      spillato dall’altro lato del mio sogno.

      (“Alfredo e io”, p. 129)

Strategia poetica meravigliosa forse nata dalla voglia di essere un altro o di uscire da se stessi per analizzarsi meglio, fatto sta che ogni ingrediente crea questa serenità in cui la poesia, quando sgorga è già pronta, già cotta per essere mangiata. Quindi una poesia costruita artificialmente? No, niente affatto. In Radici del Paradiso è chiaro che l’istinto poetico di voler comunicare col mondo è indipendente dal momento in cui è avvenuto un fatto, dal tempo trascorso. Ed eccoci quindi a un altro punto fondamentale della poesia di Fressia: il tempo. In lui, il tempo come lo conosciamo o come abbiamo provato ad immaginarlo attraverso la letteratura (ad esempio quello circolare di García Márquez), è un’altra cosa. Certo che esistono passato, presente e futuro, ma la loro collocazione è sempre nuova («Futuro era quello di prima», “Place des Vosges”, p. 19), come si vede bene i tutti i componimenti del libro (e credo che sia nata da aspetti come questo l’esigenza e l’importanza di proporre un’antologia da parte del curatore). E lo stesso discorso può essere fatto per lo spazio: il senso geografico di Fressia non è il nostro, laddove Montevideo o lo stesso Eden non sono quasi mai laddove uno si aspetta di trovarli.

Quello che comunque rimane, al di là delle strategie poetiche e delle tematiche, è che in Radici del Paradiso si parla essenzialmente di vita in maniera inedita, della vita del poeta, che grazie alla serenità dei componimenti ci appare “vita di tutti i giorni”, anche se spesso non lo è (esilio, amori, perdite, vittorie). E questo rende la lettura un vero piacere, anche nel caso in cui la vita di Fressia non avesse niente in comune con quella del lettore. Almeno per il momento.


Alfredo Fressia, Radici del Paradiso, a cura di Carmelo Andrea Spadola, Edizioni Fili d’Aquilone, Roma, 2018.




5 POESIE DI ALFREDO FRESSIA
da Radici del Paradiso


PLACE DES VOSGES

Futuro era quello di prima, del tempo dei miei quindici anni. Ogni notte consumo le suole delle scarpe camminando fino a plaza Matriz, e mi siedo ad aspettare il futuro. Vieni e compra arachidi ricoperte di cioccolato e siediti. Le donne che fumano già mi conoscono. Io no, ancora non mi conosco. E nemmeno vedo nessuno, né nulla. Mangio arachidi ricoperte di cioccolato. Aspetta qualcuno? Sì, il futuro. Respiro profondo, seduto accanto alla Cattedrale, di spalle a via Sarandí. Ogni notte, sono assiduo e puntuale. So che quando il futuro apparirà, verrà in volo da dietro il Municipio. Una raffica, e lo imprigionerò nei polmoni e mi condurrà leggero come un palloncino, lontano dalla piazza. La notte è fresca, ha piovuto stasera. E oggi, è arrivato? No, deve essere in ritardo, arriva da molto prima. Le arachidi ricoperte di cioccolato mi pesano come pietre. E guardo le mie scarpe, indifese.


GENESI

Prima era il futuro, e prima
ancora
del primo minuto della prima cellula
c’era ancora c’era
l’eternità, e senza allora
in quell’allora il futuro
era un errore.

Prima del futuro, esisteva una spiaggia colma di lattine vuote di birra, una notte di caldo con un’enorme luna piena, greve e gialla. In spiaggia giungeva il brusio di boleri dei cabaret irrespirabili di fumo e d’odore di rum. Sulla scena una spogliarellista imitava, languida, Maria Félix e Lucho Gatica cantava Quizás, quizás, quizás... E allora ci fu il filtro. Come quello di Tristano e Isotta, l’errore. E il futuro disse: Io sono il futuro. E fu un’opera lirica. Ma ancora senza cantanti. E c’erano calici di champagne in mani splendenti. Ma di gesso. E iniziò una danza sotto lampadari di cristallo illuminati. Ma senza musica. E quando tutto era pronto e nel silenzio nessuno si ricordava più della spiaggia abbandonata, ebbe inizio il futuro.
E il passato dinanzi al futuro soccombeva
strepitosamente nuovo e fresco e rigoglioso
e ancora nuovo e fresco e rigoglioso
e ancora e sempre fatto di
paura, desiderio, merda, morte.


LA PAURA, PADRE

Padre, ho paura
di essere prigioniero del mio corpo, la soglia
condannata, perfetta, questo ritorno, padre,
sempre in viaggio e morto, dalle quattro
stagioni e la sorte
segnata degli uomini, dei figli
ubbidienti della specie, padre,
dei morti futuri. Chi è
quest’ospite nel mio corpo? Questi anni,
di chi sono prigionieri nelle vene?
Che faccio, padre, con la mia paura
in spalla, e con i miei giorni
nei giorni implacabili degli uomini?


ABELE

Giocano i due bimbi. Fratello mio
il crimine sarà così esatto, a te
spetteranno queste città e i figli,
e rideremo quasi nauseati
sul carosello. Girammo per i fiumi
dell’Eden e vedemmo girare il globo
terrestre sullo scrittoio, un equatore
obeso scricchiolava sulla sfera,
il crampo nella costola di Adamo.
Era come una vertigine, un viaggio
di ritorno ubbidiente verso il ventre.
Ruminerò con gratitudine il pasto
dei nati per morire. Tu
traccerai col compasso quel circolo
in cui sprofondo ancora. Fratello mio,
misi via la macchia di sangue promessa
nei lenti quaderni dell’infanzia,
o erano pergamene, pelle mortale, versi.
Rimane soltanto la volta del cranio
e quella stella solitaria. Che guarda?


EPITAFFIO

Qui giacciono le spoglie di un poeta.
Nacque durante un’eclissi, fu straniero,
non vi chiese nulla, coltivò un Eden di assenza
e alla fine riunì i suoi fantasmi nell’aurora.




Alfredo Fressia
poeta, traduttore e critico letterario, nasce a Montevideo nel 1948. Figlio di un italiano e di una spagnola emigrati in Uruguay. Insegna lingua e letteratura francese fino al 1976 quando viene destituito dalla dittatura militare. Costretto all’esilio, si trasferisce in Brasile dove lavora come docente e critico letterario.
Ha pubblicato: Un esqueleto azul y otra agonia (1973), Clave final (1982), Noticias extranjeras (1984), Destino: Rua Aurora (1986), Frontera móvil (1997), El futuro/O futuro (1998), Veloz eternidad (1999), Senryu o EI árbol de las silabas (2008), Ciudad de papel, Crónicas en movimiento (2009), Poeta en el Eden (2012), La mar en medio (2017). Tra le antologie si segnalano: Eclipse. Cierta poesia 1973-2003 (2003) e Susurro Sur (2016).


marco.benacci@live.com


(Foto di Rogelio Cuéllar)