Un controllo totale, a volte inavvertibile; le comunicazioni e l’accesso alle tecnologie severamente limitate; una rete di obblighi, interdetti, punizioni per ogni momento della vita, dal lavoro alle relazioni private; assordanti sirene che segnano l’ora della sveglia per tutti e quella del ritiro serale; beni di consumo razionati; necessità di speciali permessi per spostarsi nel paese; domiciliazioni coattive; possibilità di concepire subordinata ad autorizzazione, con sanzioni pesanti in caso di inosservanza.
Questo, e molto altro, è la grigia Italia del 2041, narrata da David Becchetti nel suo lucido, intenso romanzo d’esordio, dal cui titolo è intuibile il richiamo a un grande classico novecentesco, 1984 di George Orwell. Un’Italia regredita a condizioni economiche da dopoguerra, parte di una Confederazione dei Popoli d’Europa che conta 27 nazioni federate e governata da un Partito Nazionaldemocratico nato dall’intesa tra precedenti forze politiche contrapposte. L’antico Stato nazione è stato sostituito da un onnipresente Ente Programmazione Nazionale.
Orwell aveva posto a base del suo 1984 la strategia della comunicazione nella costruzione di un sistema totalitario: un incubo recentemente riproposto ne Il Cerchio dell’americano Dave Eggers, sotto le sembianze di Internet. Il mondo di Becchetti, al di là del richiamo-omaggio a Orwell, non ipotizza invece un uso autoritario delle tecnologie, bensì la crescita esponenziale e totalizzante della burocrazia italiana, della giungla delle sue norme, della tirannica minuziosità delle sue prassi. Qui si innesta il carattere originale di questo libro nei confronti del canone del romanzo distopico: nel quale, ricordiamolo, a un regime che pur mostrandosi benevolo e sollecito della vita della popolazione esprime la degenerazione autocratica di tendenze già identificabili nel presente in cui scrive l’autore, si oppone un protagonista che si batte in nome dei valori conculcati e riscoperti.
È proprio questo a mancare nel libro di David Becchetti, un protagonista che emerga dalla grigia uniformità senza volto per farsi antagonista, ulteriore avatar del personaggio dell’eroe. Il protagonista di 2041 è tutt’altro che un eroe; è invece una presenza in più in quella fila di “uomini inutili” che popolano da lungo tempo le vie della letteratura. Il suo unico identificativo è la B. in cui si condensa e si cela il suo cognome: un protagonista anonimo, dunque, come il Potere, che non si manifesta in questo libro sotto le forme di un Grande Fratello, bensì sotto quelle dell’Ente, del Partito, della Banca Centrale.
I rischi della sovrappopolazione in una realtà economica da sottosviluppo, in cui la produzione industriale sembra marginalizzata, richiedono un costante equilibrio nel rapporto fra densità abitativa e possibilità di soddisfazione di bisogni elementari. Il mantenimento di questo equilibrio è compito dell’Ente Nazionale Programmazione: dietro questa sigla anodina ci sono soppressioni di individui o di intere categorie, sinistri “svuotamenti ospedalieri”, spostamenti coatti, e infine deportazioni massive in località selvagge e deserte. Ed è proprio in quest’Ente che lavora con serena soddisfazione il protagonista, apprezzato dai superiori e destinato a una brillante carriera. Vive con una madre amatissima, ha un fratello come lui iscritto al Partito e orgoglioso ufficiale della Milizia di Finanza.
Insomma, un perfetto cittadino e dirigente impeccabile. Non si verifica in lui nessuna presa di coscienza, egli non si fa portatore di istanze e valori soffocati e tanto meno artefice di nessuna rivolta; continua invece a muoversi con competenza in un mondo di minuziose procedure e piccole corruzioni, di taciti arrangiamenti, di raccomandazioni, di favoritismi. La denuncia, la simulazione, la menzogna, il tradimento, sono le prassi non scritte di un sistema in cui le lettere anonime costituiscono per il codice penale prove primarie. Egli le mette in atto una per una; ed è questo a provocarne l’ascesa e più tardi la caduta, attraverso percorsi sui quali non intendo soffermarmi, se non per sottolineare il carattere di assoluta “normalità” di quest’uomo, che mentre condanna interi gruppi umani alla deportazione mantiene intatte le emozioni primarie, la capacità affettiva, il senso della famiglia, la tenera attenzione alla madre, la lacerazione davanti alla malattia e alla morte di lei; e infine l’amore e la gelosia: in un dualismo che non può non far venire in mente il noto, doloroso concetto della banalità del male. In fondo è tutta una catena di “debolezze” a portarlo alla rovina, a partire dal momento in cui la sua vita privata e il suo lavoro si incrociano: è per allontanare un rivale dal collega con il quale ha avuto una relazione omosessuale, e poi per salvare dalla deportazione la ragazza della quale si è innamorato, che comincia a sfruttare a suo vantaggio le procedure dell’Ente restandone alla fine grottescamente schiacciato.
Nessun antagonismo politico, nessuna indicazione di riscatto, ma solo un fallimento individuale che non ha nulla di eroico. E se pure quell’organizzazione, i suoi sistemi di controllo, le sue proibizioni, lo stato generale di impoverimento economico e morale risultano terrificanti data l’oscurità del tempo in cui ci è dato vivere, sembra a chi scrive che la distopia finisca per allontanarsi sullo sfondo, lasciando sbiadire il proprio valore di profezia per lasciar meglio emergere lo sguardo spietato che dà forma al presente: al qui e oggi da cui nasce la storia. L’interrogativo che il libro pone non è infatti se il futuro sarà davvero come viene ipotizzato, o se ci si possa nel 2041 rallegrare che non sia andata così. Perché in esso la visione anamorfica propria delle distopie si rivela come una superficie riflettente nella quale direttamente si rispecchia una storia – italiana – che rimanda maledettamente al presente.
Questa sensazione di chi scrive è fortemente alimentata anche dal fatto che il protagonista di 2041 è personaggio a tutto tondo, egli stesso narratore della storia, che certo esiste in forza di una trama ma possiede una profondità che non è invece necessaria agli eroi di Orwell o di Huxley, per statuto pure funzioni dei valori che rappresentano; il che non vuol certo stabilire un giudizio di valore ma semplicemente marcare una differenza, che sottrae in buona parte questo romanzo alla classificazione.
La fine di B. è la stessa di tantissimi altri che tante volte egli stesso ha contribuito a decretare, la deportazione. Nessuna catarsi è possibile, solo un ultimo, disperato guizzo di dignità: “Il cibo è bollente e puzza, il vento è bollente, il sudore cola caldo. Ma non mi spoglio come gli altri, come tutti, non mi abbandono come il vecchio miserabile, già moribondo. Io resto vestito, resto me stesso”.
Alla luce di questo segnale estremo si possono rileggere i versi eliotiani de “La morte per acqua” posti da David Becchetti in esergo al suo libro, e che nell’ultima pagina un vecchio coperto solo da una canottiera stracciata cantilena come un mantra. “Pensa a Fleba, / che un tempo è stato bello / e ben fatto al pari di te”. Forse Fleba il Fenicio non ha mai smesso di annegare. Forse è sempre lo stesso Fleba l’uomo che annega. Forse è sempre la stessa la pietà invocata da chi cade.
David Becchetti, 2041, Fazi, 2014, pp. 260, euro 14.
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David Becchetti è nato a Roma nel 1970, dove si è laureato in Storia medievale. Giornalista professionista ha lavorato per il gruppo La Repubblica L’Espresso, La7 e Rai. Attualmente è capoautore di Agorà – Rai3. Ha pubblicato racconti su Nuovi Argomenti e il Fatto Quotidiano. Ha vinto il Premio Solinas per il miglior soggetto cinematografico.
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