FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 36
ottobre/dicembre 2014

Mare

 

IL TESTIMONE

di Luciana Mattei



Le gocce di sangue si rapprendevano in monetine scure non appena toccavano la sabbia: erano visibili anche in una notte senza luna come quella. Ignazio, carponi, le schiacciava col dito, le mescolava alla rena sottile e asciutta per cancellarle e disperderle. Era suo quel sangue che colava? Oppure era quello di Michele? No, doveva essere il suo: Michele giaceva riverso sul bagnasciuga, di schiena, il braccio sinistro abbandonato in una posizione innaturale, il cranio che aveva perso la sua forma originale, con la fronte schiacciata e la tempia sfondata.

Grida improvvise. Non voglio andarmene da qui, pensava Ignazio, devo dire come sono andate le cose, mi capiranno. Le onde arrivavano piccole e silenziose, si arrotolavano con grazia su se stesse, gonfiando appena il margine superiore, e poi si ritiravano nel loro andirivieni senza fine. Ignazio avrebbe voluto trattenerle, infilando le mani con delicatezza nell’orlo sottile di spuma che ornava quelle creste minuscole.

– Voi avete visto, vero? – disse rivolto all’acqua. – Rimanete qui e raccontatelo anche voi come sono andate le cose.

Una rete da pesca gli arrivò dal nulla sul volto. Ignazio ebbe la sensazione di soffocare, la afferrò e cercò di strapparla via.

Si svegliò di soprassalto: il lenzuolo liso del letto di Ciambellone, che occupava la branda sopra la sua, gli pendeva sulla faccia. L’aveva afferrato con la mano destra mentre dormiva, era quella la rete che lo stava soffocando. Non era ancora giorno: dalle fessure del blindo arrivavano lame di luce, quelle che tenevano accese durante tutta la notte nei corridoi senza fine. Rumore di tacchi veloci, toni di voce strozzati, smozzicati inviti a far presto. Le grida udite in sogno si ripetevano al di là del muro, nella cella vicina. Erano in otto anche lì dentro, come nella sua. Ma erano male assortiti: tre rumeni, tre maghrebini, un colombiano, un ucraino. Scoppiavano discussioni violente almeno una notte ogni tre. Stavolta stavano accorrendo le guardie, qualcuno aveva esagerato. L’ucraino forse, quello dalla faccia angelica e gli avambracci possenti. Oppure il colombiano, col suo tono di voce irritante, che in un discorso ripeteva ogni frase almeno due volte: sembrava parlare tanto, in realtà ripeteva sempre le stesse cose.

Ciambellone lo chiamò sottovoce.

– Igna’, che è stato?

– Niente. Il resto del mondo, di là. Ciambello’, – proseguì Ignazio, – il lenzuolo, quando dormi, vedi di appuntartelo nel buco che hai sulla pancia, così si blocca e non mi cade in faccia.

Ignazio, in realtà non era infastidito un granché dal lenzuolo penzolante. Era la rete del sogno che l’aveva terrorizzato.

Ciambellone si era girato verso il muro e russava di nuovo. Lo chiamavano così per via della cicatrice perfettamente rotonda e infossata che aveva sopra l’ombelico: una coltellata ricevuta in una rissa quando aveva solo diciassette anni.

Ciambellone era un capocella magnanimo. Nella gerarchia dei reclusi, il capocella badava a mantenere un ordine fatto di forma svuotata dei significati, di formule e parole ripetute nella monotonia dei giorni che trascorrevano tutti uguali. Dettava ritualità e regole non scritte che scandivano la giornata: dall’apparecchiare la tavola e condividere rigorosamente i pasti alla fila per le docce, dalle passeggiate durante l’aria alle attività da svolgersi durante la socialità. Ignazio, quando era entrato in carcere quindici anni prima, era un pivello, ossia un detenuto alla prima condanna, proveniente da un ambiente che con la malavita non aveva nulla a che fare. Ciambellone lo aveva preso da subito sotto la sua ala protettrice: non per farne un affiliato, un ragazzo del suo giro, ma proprio perché era incuriosito da questo giovane esile e spaventato che aveva commesso un delitto terribile.

– Hai sognato ancora il mare, Igna’? – gli chiese mentre erano in cortile, vicini, con le spalle appoggiate al muro e gli occhi socchiusi a godersi il sole di novembre in quella mattinata insolitamente tiepida.

– Sì, stavolta la rete mi cadeva in faccia e mi soffocava, – rispose Ignazio sollevando la testa verso l’amico che lo sovrastava di almeno dieci centimetri in altezza – ma era il lenzuolo tuo – aggiunse con un mezzo sorriso.

– Pensa se quello lo avessi fatto fuori con un argano per le barche! – aggiunse Ciambellone – Avresti tirato capocciate al muro tutte le notti! – Non c’era dileggio nelle sue parole, erano considerazioni prive di cattiveria.

Erano quindici anni che Ignazio sognava il suo mare e quella notte che gli aveva cambiato la vita. A volte era vittima, altre carnefice; la dinamica del delitto cambiava continuamente, e mai che avesse sognato quell’avvenimento così come era andato in realtà.

– Domani te ne vai – proseguì Ciambellone in tono neutro.

– Sì, fine pena – rispose Ignazio senza emozione.

– Torni lì, al paese tuo? – indagò Ciambellone.

– Tornare ci torno, ma non so se ci rimango.

– È un bel posto, io ci sono stato, sai? Tanti anni fa, ero appena uscito dopo sei mesi dentro per furto aggravato. Mi ero sposato poco prima della cattura, e non avevo fatto in tempo a fare il viaggio di nozze. Così, una volta fuori, mi sono fatto prestare centomila lire e la macchina da mio cugino e siamo andati, io e Brigida, mia moglie. Avevamo poco più di vent’anni, tutti e due. Abbiamo preso una stanza in affitto da una signora, proprio sulla spiaggia. È stata una bella settimana, l’unica vacanza della mia vita.

Quindici anni di vita infilati in una sacca, pronta ai piedi del letto. La guardia aprì di scatto il blindo e gli fece cenno di uscire, senza parlare. Ignazio seguiva il secondino che camminava veloce. Si stavano dirigendo verso un fragore assordante fatto di ululati e risucchi, di folate di vento, di spruzzi di acqua e sale. Il corridoio era in realtà un molo lunghissimo, e alla fine c’era il mare. Le assi erano viscide e declinavano nell’acqua. Ignazio puntò i piedi per non scivolare, le onde altissime rischiavano di trascinarlo via. Aveva una rete da pesca fra le mani, sfilacciata, con un buco enorme fra il bordo e le maglie: un cappio. Michele era davanti a lui, di spalle. Non sembrava fare alcuna fatica a reggersi in piedi, mentre Ignazio continuava a sbilanciarsi ora a destra ora a sinistra per tenersi fermo sulle gambe. Nonostante l’intenso fischiare del vento e il ruggito dell’acqua, le parole di Michele gli giungevano chiare.

– Ti stavo aspettando. Guarda, mi sono messo anche di spalle per facilitarti il compito. Fai quello che devi fare, e sbrigati.

Ignazio si ritrovò in piedi, fradicio di sudore, al centro della cella. Dormivano tutti, tranne Ciambellone, che lo fissava con benevolenza.

– Rimettiti a dormire, – disse il capocella con dolcezza – è finita, basta. Domani te ne vai.

Steso sulla sua branda, Ignazio riascoltava nella mente le parole pronunciate da Michele nel sogno appena concluso. La voce dell’uomo gli era risultata stranamente rassegnata. Il tono aveva perso la boria insopportabile che ricordava da sempre, non c’erano gli insulti, le offese e le minacce che erano state il suo pane quotidiano, quando lavorava sulla pilotina. Il lavoro in mare era duro, Michele un padrone senza misericordia. Ma a Ignazio quell’impegno piaceva: non gli costava fatica svegliarsi all’alba e camminare a piedi nudi sulla spiaggia quando faceva appena giorno, con la sabbia gelida che scricchiolava come vetro sotto la pianta dei piedi. Al timone, si concentrava sul baluginare dei primi raggi sull’acqua ancora perfettamente liscia, e osservava incantato la prua della barca che rompeva quella superficie compatta. Quando, al largo, gettavano l’ancora, Ignazio si tuffava e spariva nel blu in poche bracciate, andando a raggiungere i posti che solo lui conosceva, per tirare su ricci e polpi con le mani.

Il suo amore per il mare era puro e assoluto, una comunione di corpo e anima con quella meraviglia sconfinata che non aveva bisogno di parole.

Ma a Michele non andava mai bene nulla: bastava una rete bucata per scatenare maledizioni, urla, bestemmie e insulti. Ed era così sempre, tutti i giorni che Dio mandava in terra.

Così, quando quella volta che erano rientrati al molo, dopo aver legato il natante alla bitta, il secchio pieno di ricci era volato per disattenzione nell’acqua, Michele aveva tirato giù tutti i santi del paradiso e aveva ordinato al ragazzo di tuffarsi e recuperarli tutti.

Ignazio si era rassegnato ad eseguire, ma Michele aveva aggiunto:

– Basta! Domani rimani pure a dormire! Sulla mia barca non ti voglio vedere mai più!

Allora Ignazio aveva afferrato la rete da rammendare e l’aveva stretta al collo di Michele finché l’uomo non si era mosso più.

L’indagine era stata breve, il giudice non gli aveva concesso attenuanti. Ventiquattro anni, ridotti a quindici nel corso del tempo per buona condotta.

Ignazio si alzò, si avvicinò al letto di Ciambellone che era ancora sveglio e lo guardò negli occhi.

– Avrei voluto che il mare potesse parlare, sempre che esistano parole capaci di spiegare gli istanti di buio e follia che cambiano per sempre la vita di un uomo: era l’unico testimone che avevo. Domani andrò a sedermi sulla riva, guarderò l’orizzonte e sorriderò di nuovo, senza bisogno di dire nulla.

Ignazio si distese sulla branda, in attesa del giorno. Se si fosse addormentato, era sicuro che il mare non lo avrebbe sognato più.


luxmattei@libero.it