«Oh mare nero mare nero mare ne’... Tu eri chiaro e trasparente come me». La canzone del sole partiva sempre, prima o poi, quando con gli amici ci si ritrovava nel classico scenario del falò in spiaggia. Chitarra, vino, ragazzi e ragazze eccetera. Era, se non ricordo male, l’unico brano consentito di Lucio Battisti, l’unico strappo alla regola, l’unica eccezione in un repertorio rigorosamente selezionato e politicamente coerente: noi, amici dell’epoca, eravamo infatti tutti di sinistra e lui, Lucio Battisti, aveva fama di essere “di destra”, se non addirittura “fascista”. Ma era difficile rinunciare a suonare La canzone del sole in quelle serate lì, per via di quell’irresistibile giro di accordi e per quella corrispondenza tra le parole cantate e la situazione in cui ci trovavamo. Ma i più integralisti tra noi continuavano a vedere nelle parole “mare nero” la pistola fumante che smascherava senza indugio l’appartenenza politica di Battisti (sarebbe interessante qui ripercorrere tutte le leggende metropolitane, i finti indizi, le acrobatiche dietrologie a supporto della tesi “Battisti era fascista”, ma andremmo fuori tema).
Io volevo scrivere, per questo numero di “Ascoltare”, un pezzo sui dischi bellissimi che scopri quando ormai sei già grande e ti chiedi “ma come è possibile che a me - ascoltatore onnivoro e scrupoloso - sia sfuggita questa perla?». E pensavo che avrei parlato di mezza discografia di David Bowie, di Warchild dei Jethro Tull (per anni sono stato azzurro di ascolto dei dischi dei Jethro Tull ma il meraviglioso Warchild, vai a capire perché, l’ho ascoltato per la prima volta solo l’anno scorso) oppure di In the land of grey and pink dei Caravan (un disco che avevo deciso di comprare quando avevo diciott’anni e poi ho rimandato e rimandato e rimandato e l’ho comprato qualche tempo fa, incontrando finalmente il capolavoro di cui avevo sempre sentito parlare). E poi Battisti, appunto. Un autore che ho ignorato per larga parte della mia vita di ascoltatore.
Come dicevo, Battisti, per me adolescente, era tabù, per via della sua appartenenza politica (presunta o reale). Certo, era impossibile non conoscere pezzi come Dieci ragazze, Fiori rosa, fiori di pesco, Non è Francesca. Chissà quante volte li avrò ascoltati in radio o in tv. Ma l’idea di acquistare un disco di Battisti non mi ha mai sfiorato. Poi, a partire dagli anni Ottanta, era arrivato Pasquale Panella a sdoganarlo. Ma quello era già un “altro” Battisti. Lì avevamo una scusa: in realtà noi ascoltavamo gli assurdi testi di Panella, non la musica di Battisti.
Solo qualche mese fa mi è venuta la curiosità di capire cosa ci fosse tra il primo Battisti e l’ultimo, tra Emozioni e Hegel per capirci, e si è aperto l’Eldoardo. C’è una sequenza di dischi incredibili, in particolare gli album dei primi anni Settanta sono qualcosa di eccezionale, delle cose con le quali avrei nutrito le mie orecchie per ore se solo non avessi evitato certi territori per i motivi di cui sopra.
Il mio canto libero, Il nostro caro angelo, Anima latina. Ecco, Anima latina è un vero e proprio monumento della musica italiana. Un disco compositivamente audace eppure “facile” da ascoltare, suonato egregiamente, con degli arrangiamenti sorprendenti, un immaginario sonoro inaspettato, una struttura originale (penso alle due reprise di brani del lato A piazzate una dopo l’altra all’inizio del lato B), scanzonato, ambizioso eppure leggero, autoironico (l’incredibile rilettura in chiave di marcetta bandistica di I giardini di marzo alla fine di Anonimo), pieno di colore e mistero.
Anima latina è un disco del 1974. Andiamo a vedere cosa facevano i colleghi di Battisti in quello stesso anno. De Gregori pubblicava l’album che porta il suo stesso nome (quello che contiene Niente da capire), Paolo Conte cantava Onda su onda nel suo disco di esordio, Guccini pubblicava Stanze di vita quotidiana, Vecchioni Il re non si diverte. Tutti dischi che in misura diversa ho amato e apprezzato. Ma tra questi e Anima latina c’è la stessa differenza che corre tra una qualunque festa in maschera e il carnevale di Rio.
Il problema, come sempre nel Battisti pre-Panella, sono i testi di Mogol. Insulsi, velleitari, irritanti. Per dire: Battisti compone un pezzo da brivido come Due mondi (e lo arrangia e lo suona da Dio) e poi è costretto a cantare stupidaggini del tipo “Oltre il monte / C'è un gran ponte / Una terra senza serra. / Dove i frutti son di tutti.”. Ma io ho sempre pensato che Battisti fosse, absit iniuria verbis, un ignorante. E lo dico con il dovuto rispetto. Anzi, secondo me la sua grandezza era tutta lì. Battisti era una macchina musicale, un pentagramma umano, un genio della composizione. E non era minimamente interessato a tutto il resto. Avrebbe potuto cantare numeri in sequenza o nomi di case farmaceutiche e i suoi brani sarebbero dei capolavori comunque. Proprio per questo secondo me ha sempre cercato parolieri che scrivessero testi che non dicessero nulla di particolare, senza messaggio, senza contenuto, affinché la sua musica risaltasse ancora di più. Con Mogol ci è riuscito benissimo. E non è un caso, secondo me, che quando i testi di Mogol cominciano a diventare appena passabili (con Una giornata uggiosa, 1980), il sodalizio tra i due si rompe.
Insomma, Anima latina. Mi rendo conto solo adesso, mentre scrivo, che questo disco compie quarant’anni. Quarant’anni durante i quali ne ho ignorato addirittura l’esistenza. Poco male: lo considero uno strepitoso Barolo d’annata che ho avuto l’occasione di stappare quest’anno. Salute, anzi, in latino: prosit.
federico.platania@samuelbeckett.it
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