Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì.
miniracconto di Agustín Monterroso
Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì. Un erbivoro con un lunghissimo collo in cima al quale spuntavano occhi assenti e una bocca larga che ruminava un fastello d’erba racimolata tra i sassi, biascicandola da destra a sinistra e poi da sinistra a destra con pacifica voluttà.
Ruminare, biascicare, parole inesistenti per Hu, che avrebbe usato un unico monosillabo per indicare al tempo stesso la presa di possesso del cibo, la masticazione, l’ingestione e anche la digestione e l’evacuazione del medesimo. Ma se vogliamo raccontare in modo comprensibile la storia di Hu, di come scoprì tutto in una volta il turbamento amoroso, la menzogna e con essa l’arte del narrare, non possiamo che metterci del nostro, e perciò servirci in misura esauriente di una delle lingue a noi contemporanee: alla cui formazione peraltro, egli arrecò un contributo non secondario.
Dunque, il dinosauro. Era l’ultima immagine rimasta nei suoi occhi nel momento in cui era crollato ai piedi di una roccia striata color del sangue asciutto, disfatto dalla lunga corsa, dopo che le ragazze nel vederlo comparire fuori dal nascondiglio dal quale era stato ad osservarle erano scomparse agilissime in mezzo alla sassaia che difendeva le pendici della montagna. Ci aveva provato, ad inseguirle lassù, e le aveva perse, e allora si era fermato, ansimante per la stanchezza e soprattutto per tutte quelle novità che avevano scelto proprio quella normale giornata di caccia per scombussolargli le idee.
La carne era finita, e quella mattina prima dell’alba Hu aveva lasciato la caverna a mezza costa sull’acrocoro pelato dal vento insieme agli altri maschi giovani, dopo aver passato la sera prima a temperare al fuoco la punta di selce della lancia. Come ogni volta le donne si erano mostrate sull’ingresso delle grotte con qualche marmocchio in braccio, per vederli partire. Anche Hua, che vista dal basso con le sue cosce da pachiderma e gli immensi seni non era mai sembrata a Hu tanto attraente.
L’orizzonte si andava colorando di un rosso calcinato e già il calore si faceva sentire sulla pelle degli uomini che procedevano in formazione stretta, un po’ curvi a terra, i sensi in allarme pronti a cogliere il minimo suono che indicasse la vicinanza di una preda. O la presenza di estranei, ominidi scimmia affamati e sprezzanti del rispetto dei territori altrui. Allontanarsi dagli altri era pericoloso, e non era mai accaduto che uno dei cacciatori perdesse i contatti con il gruppo, tanto meno a Hu, che possedeva le orecchie più sveglie, gli occhi più acuti, il naso più sensibile del clan: insieme a un’irrequietezza non condivisa con gli altri suoi simili, e che può da noi esser definita come un’avventurosa curiosità. E fu proprio questa a farlo deviare dal percorso abituale, conosciuto fin dalla generazione dei vecchi come il più agevole e più adatto per procurarsi cibo sufficiente per un’intera luna.
All’inizio fu un odore sconosciuto, se fosse di pianta o d’animale non seppe lì per lì riconoscerlo: e questo bastò a spingerlo per un breve tratto fra le rocce giallastre e i rovi un po’ a destra del cammino, da dove ancora poteva vedere i compagni e le loro facce incuriosite. Convinto che vi si nascondesse una preda di piccola taglia, menò un colpo, a vuoto, in una cavità fra due rocce. Ma l’origine dell’odore si era fatta più lontana, glielo disse il naso alzato al vento in tutte le direzioni, e così si allontanò per un altro tratto, rassicurando con un gesto i compagni allarmati; proseguissero pure, tra poco li avrebbe raggiunti.
Il sole era già alto quando si accorse di star camminando, irresistibilmente attratto da quell’odore, fra muraglie di pietra su un fondo da cui filtrava a tratti un residuo di umidità, simile a quello che la stagione secca aveva lasciato nel fiumiciattolo da cui le donne erano solite attingere acqua. Poi sentì crollare il terreno sotto i piedi e scivolò giù per una spaccatura ricoperta di erbe sottili lunghe molti palmi, dure e taglienti, invano cercando di afferrarsi alle grosse radici che spuntavano dal suolo. Il dislivello sembrava non finire mai, e Hu rotolava raccogliendo ammaccature e ferite mentre l’odore si faceva più intenso, un misto d’erba e sudore e qualcos’altro che gli parve familiare, come qualcosa di noto che però sfugga, come uno sgusciar via d’animale intravisto solo per un attimo con la coda dell’occhio. Conosceva bene gli odori aspri della caccia, della fuga, dell’inseguimento, del sangue. Il suo olfatto sapeva distinguere a grande distanza un cinghiale da un cervo, un mammuth da un tirannosauro, e in più di un’occasione gli era servito a proteggere se stesso e gli altri dagli agguati del leone dai denti a sciabola. Ma non gli era mai accaduto di inseguire un animale che avesse quell’odore, che sembrava sprigionare dalla terra e lo stordiva. I tagli gli dolevano, in più punti strisce di sangue gli scendevano sulla pelle. Sopra la sua testa si innalzava una montagna arida, mai vista prima. Il luogo sconosciuto e la coscienza di aver perso i compagni lo riempì di paura. Si trattenne dal lanciare richiami, timoroso della belva che certo stava per assalirlo di sorpresa. Ansante, il cuore che batteva a velocità inaudita, girò un paio di volte su se stesso, i capelli irti, puntando la lancia in tutte le direzioni.
Fu allora che udì le voci. A breve distanza, leggere, salivano e scendevano lungo la scala di una melodia ripetuta.
Erano in tre. Ai piedi del monte, sguazzavano in uno stagno dalle acque giallastre, sulle cui rive svettava qualche ciuffo di canne e si posavano su lunghe zampe uccelli dal lungo becco. Immerse fino alle ginocchia, si lanciavano spruzzi battendo forte le mani sulla superficie e provocando il formarsi di cerchi sempre più larghi che Hu fissava affascinato. Assomigliavano a donne, così gli parve, tuttavia non si erano mai viste forme femminili meno attraenti di queste; pensò che fossero rimaste da molto tempo senza cibo, con quei fianchi striminziti e quelle gambe sottili, quei miseri seni. E quelle fronti pelate, quei nasi secchi, quei labbri superiori privi della peluria scura che era il più apprezzato carattere della bellezza. Comunque non davano segni di fame, anzi si mostravano allegre come bambine di pochi anni.
Un colpo di vento gli portò di nuovo quell’odore, di cui nel frattempo, sconvolto com’era, si era dimenticato. Comprese cosa fosse quel che di familiare che si mescolava all’erba e al sudore. Che fossero donne, e giovani, non era dubitabile, e Hu fu sbalordito che se ne stessero lì nude senza far nulla di utile, senza tagliare canne per intrecciare canestri, senza attingere acqua da portare alle loro caverne.
Già, le loro caverne. Da dove venissero quelle sconosciute, a quale clan appartenessero, proprio non avrebbe potuto supporlo. E fu certo per osservare la questione più da vicino che quasi senza accorgersene si trovò catapultato fuori dal nascondiglio fra le rocce dal quale a lungo era stato a spiarle.
Devo ammettere che mi invade un sentimento di comprensione e simpatia, e direi di tenerezza, per questo giovane antenato nel momento in cui, invece di pensare alla carne da riportare a casa, invece di seguire la regola elementare della diffidenza e lasciar perdere e far la strada a ritroso per cercar di raggiungere il gruppo che peraltro ormai è ben lontano, si precipita fuori dal rifugio e corre verso le ragazze con una domanda ben chiara in testa, chi siete, da dove venite, dove andate. Che in realtà sono tre domande, e che secondo la logica dovrebbero esser precedute da appostamenti, inseguimenti, insomma tutta una manovra di intelligence indirizzata a capire a che razza di maschi appartengano queste femmine, e quanto pericolosi, e dove vivano, e dove siano usi cacciare; e semmai a loro, ai maschi, quelle domande dovrebbero esser rivolte, e solo dopo averne accertato atteggiamenti non pregiudiziali. Senza contare che di questi tempi l’approccio diretto con femmine altrui non è propriamente visto di buon occhio.
Invece quelle domande Hu le pose proprio alle ragazze, mentre correva verso di loro; o meglio le urlò, chi siete, eccetera, mentre quelle facevano gesti di spavento e lui cercava di rassicurarle, tranquille, donne, niente paura, sono Hu dei Wag, ma quelle non parevano capire, e starnazzavano come tacchini di montagna emettendo suoni incomprensibili alle sue orecchie, suoni che si mescolavano a formare parole lunghe, liquide, ben più complesse di quelle che costituivano l’idioma conosciuto. Mentre correva verso la sponda dello stagno pantanoso riuscì a metter meglio a fuoco le sconosciute: che mentre senza spostarsi d’un pollice continuavano a strepitare e a far gestacci, sembravano altrettanto incuriosite di lui, e lo scrutavano soppesandolo come ad apprezzarne la bassa statura, le gambe corte e arcuate, i pettorali prominenti, la fronte bozzuta stretta fra il grosso naso piatto e i fitti capelli incrostati di fango secco. O così Hu suppose, fiducioso nelle qualità che ne facevano uno dei maschi più apprezzati del clan. E anche quelle poi non erano così male, gli sembrava adesso che le vedeva meglio, secche, sì, ma in fin dei conti ben proporzionate. Una, soprattutto, che aveva smesso di gesticolare mentre Hu si avvicinava, e pareva non curarsi di lui più che tanto, improvvisamente occupata a seguire il volo di un grosso insetto colorato. Troppo alta, sì, e magrolina; ma per un cacciatore come lui non sarebbe stato difficile costringerla a mangiare come si deve.
Si bloccò di colpo sulle gambe: da dove mai gli era caduto dentro quel pensiero? Un improvviso terrore gli fece maledire il momento in cui era uscito da quella cavità tra le rocce. La sua mente si aprì di colpo e tutto gli fu chiaro: spiriti, ecco cos’erano, spiriti in pervertita forma umana, capaci di incantare gli uomini al punto di apparir loro desiderabili.
Al vederlo lì immobilizzato le ragazze moltiplicarono i gesticolamenti: tranne quell’unica, che adesso si nascondeva dietro le altre, e dalle loro schiene si affacciava a far capolino subito ritirandosi. Poi parve chiamarlo a sé con un cenno della mano, accompagnato da un curioso chiudersi e aprirsi ripetuto dell’occhio destro.
Inconsapevole di sé come in trance, guidato da quello sbatter di ciglia come dall’invisibile flauto senza suonatore che quando si era da soli si faceva udire all’improvviso ora qua ora là per farti perder la strada, Hu riprese ad avanzare. Senza correre. Un silenzio improvviso si fece tra le acque dello stagno mentre le ragazze lasciavano ricadere le braccia lungo i fianchi; e quell’unica lo fissava con un’espressione che oggi definiremmo indefinibile. Gli occhi a loro volta presi nello sguardo di lei, egli non si accorse di avere i piedi bagnati se non nel momento in cui quelle si fecero cadere rumorosamente in acqua e si misero a sbatacchiare braccia e gambe allontanandosi verso l’opposta riva.
Riprese a inseguirle aggirando lo stagno mentre loro uscivano dall’acqua e, tutte bagnate com’erano, si inerpicavano mani e piedi su per la sassaia che formava le pendici del monte, scomparendo fra i massi. Tranne quell’unica, che inciampava e cadeva e zoppicante si fermava a massaggiarsi la caviglia, con occhiate di terrore. Che fossero di terrore lo pensò Hu in quel momento, ma proprio quando stava per raggiungerla – era così vicina, adesso, che avrebbe potuto allungare una mano e toccarle il viso – quella sollevò il labbro superiore mettendo in mostra una doppia fila di denti.
Ora, Hu non è abituato a vedersi mostrare i denti da qualcuno senza che questo significhi ostilità, aggressività, sfida; e anche qualcosa di meno definito, tipo smamma, o pussa via. Tutto ciò designato da una sola parola, juh. E poi di norma i denti sono affari lunghi, nerastri e aguzzi, incrostati di resti di carne: non piccoli, candidi, luminosi come questi; e il mostrarli comporta agitare le braccia e battersi i pugni sul petto accompagnando il tutto con dichiarazioni spavalde e offensive. Quella si limita invece a esporre quei dentini senza alcun segno di aggressività. E sia come sia, non si è mai vista una femmina mostrare i denti a un maschio, se non nell’istante precedente il colpo di clava che secondo il rito consacra l’unione matrimoniale.
Gli faceva male la testa. Come se non bastasse, tra le rocce risuonò alto il bramito di un dinosauro. E in quella, agilmente la ragazza si alzò, gli strizzò l’occhio ancora una volta, si girò di scatto, e prima di arrampicarsi velocissima e scomparire tra le rupi, gli sventolò davanti agli occhi un didietro così diverso dai poderosi deretani delle donne del clan, un didietro di misera consistenza dal quale qualsiasi benpensante avrebbe distolto lo sguardo; ma ormai Hu non era più un benpensante, anche se non lo sapeva, e mentre fissava a bocca aperta quell’allegro sederino tondo e pizzuto, la faccia gli si fece caldissima fino alle punte delle orecchie, e sentì prorompere la propria erezione.
Fece per inseguirla, ma quella era già sparita e la sassaia si innalzava ripida e minacciosa. Allora il cuore gli si strinse, e lui si sentì tutto d’un tratto molto stanco. L’ultima immagine nei suoi occhi prima di cadere in un sonno profondo ai piedi di una roccia fu il lungo collo del dinosauro.
Più tardi cercò di convincersi che fosse stato solo un sogno. Ma c’erano quelle contusioni e quei tagli su tutto il corpo, c’era quel luogo sconosciuto, e soprattutto c’era nelle narici il ricordo di quell’odore che gli aveva tolto le forze. Imbambolato, lasciava vagare lo sguardo sullo stagno, come se da un momento all’altro tutto dovesse ripetersi; ma non tornavano le sguazzanti ragazze con i loro canti, non si udiva più lo sciacquio dei loro giochi, non c’era più lei a massaggiarsi la caviglia, a mostrargli i denti, a fuggire lasciandogli negli occhi la visione del suo didietro straniero. Non si era mai sentito così male.
Hu non possiede un così chiaro sentimento del tempo da sapere che quando una cosa è finita è finita davvero. Lui sa invece che le cose si ripetono, caldo il giorno gelida la notte, il giorno la caccia o l’ozio nel fondo della grotta quando c’è carne a sufficienza, la notte il sonno che segue all’accoppiamento, ogni giorno e ogni notte uguali a ogni altro giorno e a ogni altra notte. L’imprevisto non esiste nell’universo dell’eterno ritorno, dove ogni cosa che accade accadrà di nuovo e sarà sempre la stessa cosa. Noi sappiamo naturalmente che questo non c’entra nulla con quello che è successo a Hu, e forse lo sospetta anche lui però ci si attacca sperando che si adatti anche a questo caso. Si ostina perciò ad aspettare, e intanto si vanno allungando le ombre, e Hu comincia a provare un sentimento mai provato prima e al quale solo molto più tardi saprà dare il nome di melanconia.
Quando a notte alta, tutto intirizzito, vide finalmente brillare i fuochi davanti alle caverne e scorse la sagoma di Hua in attesa, si chiese come avrebbe fatto per raccontare quel che era successo; non esistevano parole adatte per quell’incomprensibile groviglio di fatti, immagini e sensazioni: e dunque per la prima volta in vita sua sentì l’insufficienza del linguaggio. Tuttavia una vocina gli suggeriva che sarebbe stato opportuno far qualcosa che a lui lì per lì suonò assai poco chiara, ma che noi chiameremmo in tutta semplicità inventare una scusa. E sforzandosi di riflettere su cosa avrebbe raccontato a Hua per giustificare il ritorno in piena notte, pesto e graffiato come fosse caduto tra le grinfie di un predatore, gli venne in mente il dinosauro.
Mentre Hua gli stendeva sulle ferite impacchi di terra argillosa e lui si abbandonava con una gran voglia di dormire al tepore del fuoco e alla morbidezza della pelle di lupo, sentì come in sogno la propria voce evocare la caduta in una voragine, il tuffo nell’acqua nera circondata da alte muraglie coperte di una vegetazione impenetrabile, la lotta con le onde a forza di gambe e braccia e il faticoso approdo, la scalata, il fetido odore e l’urlo feroce del tirannosauro, gli inutili colpi di lancia subito spezzata. Hua lo ascoltava a bocca aperta, e lui sentiva la propria lingua andare da sola, la fuga con la belva alle spalle, la montagna sulle cui pendici lui si inerpica per nascondersi in una cavità che ha visto tra le pietre, il fiato del tirannosauro, lui spalle contro la roccia senza via di scampo, il ruggito, la zampa alzata, lui allora gli mostra i denti… Hua aveva lasciato cadere i suoi impacchi e lo fissava con gli occhi sbarrati, lui gli mostra i denti e si batte il petto ululando maledizioni e scongiuri… e allora la belva abbassa gli artigli, richiude l’immensa bocca zannuta e ostenta le terga prima di allontanarsi, come un atto di sottomissione.
Che fosse una panzana, solo molto indirettamente autobiografica, Hua non avrebbe potuto neanche da lontano supporlo. Così Hu pensò di essersela cavata, e chiuse gli occhi, sulla cui retina si formò l’immagine di due piccole natiche che si andarono espandendo fino a che lui piombò nel sonno.
Dormì male, e quando al mattino fu risvegliato da un gran vocio, e vide uomini, donne, bambini, accalcarsi all’ingresso della caverna e pretendere che anche a loro fosse narrata la straordinaria avventura, Hu provò la sensazione di aver provocato un bailamme nell’ordine delle cose senza prevederne le conseguenze. Dunque rifiutò; anche perché non era neppure sicuro di ricordare bene. Ma Hua non aveva perso tempo. Aveva montato così bene l’opinione pubblica che quelli cominciarono a premergli addosso alzando la voce, e così fu che, incalzato da tutta la popolazione del clan, compresi i vecchi tra cui peraltro qualcuno scuoteva la testa in segno di diffidenza contro le novità, spinto con moine e minacce irripetibili da Hua, Hu si arrese al suo ancora inconsapevole destino.
È lecito chiedersi se cercò mai di ritrovare quel luogo e la ragazza straniera. È probabile che quando si fu svegliato quella prima mattina non avesse altre idee in testa. Ma per quanto si può presumere di lui, è probabile che non ne abbia fatto nulla, limitandosi a salire in cima all’acrocoro in certi tramonti rossastri, cercando di scorgere la cima di quella montagna da qualche parte dell’orizzonte: e a raccontare a se stesso, con mille varianti e senza bisogno di parole, la sua storia segreta.
Comunque sia, ogni sera il clan si riuniva intorno al fuoco ad ascoltarlo, e ben presto lui ci prese gusto, anche perché, in quell’altra storia, ci faceva una gran figura. E quando dopo molte lune, accortosi di un calo di interesse per via di occhi che stentavano a rimanere aperti, di teste che ciondolavano, e anche di qualche sbadiglio soffocato, con una scioltezza che stupì lui per primo si mise a inventare nuovi dettagli, cambiare qua e là, aggiungere azioni e far entrare in scena altri personaggi: sicché la storia stessa crebbe, si dilatò, si ramificò in altre storie. E anche le parole cominciarono a ramificarsi, e con esse vennero parole nuove, che Hu andava man mano inventando e che, sottoposte e approvate dall’assemblea, designavano le cose nuove che scopriva mentre andava conoscendo sempre di più se stesso e il mondo, finché cominciò a porre a se stesso quelle domande sull’essere, il venire e l’andare, che aveva posto alle ragazze, quel giorno in riva allo stagno.
E mentre cercava senza trovarla la parola per indicare ciò che gli aveva provocato quella stretta del cuore, ne scoprì una che finalmente era giusta per quel che da un po’ andava sospettando: che ci sono cose che sono, e poi passano, è finita, e non potranno ripetersi uguali.
La sua coscienza linguistica non era ancora così sviluppata da fargli intendere che aveva scoperto il passato remoto. Però quella notte pianse. Hua gli si accostò sotto la grande coltre di pelliccia. Ultimamente non aveva osservato granché le novità che Hua aveva introdotte nel proprio quotidiano: andare in giro con aria sospirosa, osservare pensosamente l’orizzonte, mettersi piume nei capelli, studiare a lungo la propria immagine riflessa in qualsiasi pozza d’acqua ci fosse in giro.
La mano di Hua gli sfiorò un fianco. Hu si voltò verso di lei. Le lacrime gli lasciavano righe di sporco. Guardandolo bene in faccia lei chiuse e aprì più volte un occhio; Hu notò per la prima volta la lunghezza delle ciglia e al suo sguardo attonito si offrì la tumida bocca di lei che si increspava fino ad aprirsi su due rigogliosi filari di denti scuri.
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