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LA POESIA DI JUAN MANZ Un circolo si chiude e una voce si diffonde di Martha Canfield |
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La poesia del messicano Juan Manz, che ha all’attivo diverse raccolte poetiche e due voluminose antologie, offre al lettore un linguaggio di registro alto, molto elaborato ( come prova l’abbondante uso di neologismi originali e ingegnosi (, capace di trasmettere una visione del mondo intima e coinvolgente, che ha le sue radici nella filosofia orientale oltre che nel pensiero che affratella le culture indigene d’America. In particolare per quello che riguarda la concezione del tempo circolare, che il Nostro conosce senz’altro attraverso il mondo azteco e anche, ancora di più, attraverso il mondo yaqui. Già nel suo libro Para repasar el círculo (Per ripassare il circolo), pubblicato nel 1986, finiva con una molto emblematica proposta: «...Y devolverse / para repasar el círculo» («...E tornare indietro / per ripassare il circolo»). Tornare indietro per ricominciare, ripetere il segno circolare per tornare, come il tempo. E in quello stesso libro, nella poesia Parvada, si contrappongono il cuore e il cervello come due energie opposte che nell’uomo possono scoppiare come tuoni e distruggere, ma possono anche, come certe «armi che illuminano con il loro fuoco» aprire strade diverse, nuova luce. Questo, sembra dirci il poeta, precisamente, è la poesia. Si tratta di una vera dichiarazione di poetica che, insieme con il concetto di tempo circolare, risultano molto utili come premesse per capire meglio la poesia di Manz e arrivare alla sua ultima fatica: Dispensario.
Il titolo, a prima vista, può risultare sconcertante: si tratta forse di collegare poesia e medicina, potrebbe domandarsi il lettore. Ma subito dopo la ragione profonda inizia a farsi chiara quando vediamo che ogni poesia è preceduta ( oltre che dalle epigrafi ( da una serie di dati forniti tra parentesi, come se si fosse compilato un modulo, prima la data e poi l’articolo da dispensare:
Giorno [7] mese [luglio] anno [2008] [Articolo da dispensare] [Poesia a base di propoli per curare le gole infiammate]
Allora il lettore capisce che la metafora del titolo si mantiene nella premessa alla poesia: il libro è un “dispensario”, vale a dire uno stabilimento dove si presta assistenza medica a malati di passaggio, e ogni poesia fornisce una medicina speciale per uno specifico malessere. Se Álvaro Mutis aveva associato il suo eterno personaggio, Maqroll il Gabbiere, e il suo costante peregrinare poetico con “gli ospedali di oltremare” e con una solitudine incontrovertibile, Juan Manz definisce la sua poetica come rimedio per la sofferenza esistenziale e l’opera del poeta come un dono che si offre agli altri.
Il libro è composto da cinque poemetti che completano un itinerario americano da Nord a Sud, dall’Alaska al Perù, attraverso il quale il poeta – e certamente anche il suo prossimo lettore cui lui dispensa i suoi articoli – compie un viaggio d’iniziazione e di scoperta della propria identità e delle sue radici. Questo, d’altra parte, è quello che lo stesso Manz ha considerato l’asse portante di tutta la sua opera poetica. In questa maniera lui si conferma essenzialmente americano, potremmo dire anzi “panamericano”, ma con una preferenza per la latitudine sud, forse perché là si concentra ciò che è latino e si moltiplica ciò che è ispanico e indigeno, vale a dire, quei componenti della sua identità culturale così come lui stesso li ha riconosciuti e anche elaborati. Credo che lui potrebbe dire, come il grande artista Joaquín Torres García, «Il mio nord è il sud».
I cinque poemetti del libro s’intitolano: Alaska, Library, Última cruzada (Ultima crociata), Aires de añoranza (Aria di nostalgia) e Salut au Whitman. In quest’ultimo, dove la parafrasi del titolo whitmaniano Salut au Monde suggerisce immediatamente l’ideale di fratellanza universale che il nostro poeta condivide con il nordamericano, offre inoltre una illuminante indicazione di completamento del circolo: s’inizia con il nord, con Eliot e Whitman (nelle epigrafi e non solo...) e si finisce con il sud, esattamente nel Perù, nel Cusco, di nuovo con Whitman, maestro, in qualche modo “padre”, sicuramente “capitano”.
Nel primo componimento, l’epigrafe di Antonio Castrobelli ci situa subito su una strada che avanza ma ritorna, in altre parole, sulla strada del circolo che si completa: «Veniamo dal caldo / al freddo / siamo di ritorno». E ritornare significa senza dubbio riunire passato e presente, radici e futuro, ciò che è immediato insieme a ciò che è sognato e ancestrale.
La misteriosa parola che si ripete in Alaska, il primo poemetto, «Eslooora», ossia eslora (termine marinaro che in spagnolo deriva dall’olandese) pronunciata con un prolungamento della o centrale come se fosse urlata da qualcuno ( ordine? annuncio? –, può alludere sia alla lunghezza della nave dalla prua alla poppa e indicare pertanto il viaggio appena iniziato verso il ghiaccio, sempre attraverso il mare; o potrebbe essere una trascrizione letterale del grido del marinaio-poeta, che vorrebbe dire Es la hora, ma deforma le parole congiungendole. Forse i «propoli per curare la gola» dispensati da questa poesia servono innanzi tutto a lui. In ogni caso, tra ghiaccio, neve, ghiacciai e montagne, il viaggio è iniziato e la meta è già ben definita: «attraversare / l’ultima frontiera americana». E passando da Seattle, dove risulta firmata la poesia, si arriverà prima a Sitka e dopo a Juneau, vale a dire sempre più a nord. Eppure, avevamo visto che il destino finale è il sud. Come è possibile questa apparente contraddizione? Sembrerebbe che questo nuovo Colombo si sia prefissato di fare il giro del mondo: così come l’Ammiraglio voleva andare a est viaggiando verso ovest, il nostro poeta si propone di andare a sud viaggiando verso nord. Ma a differenza di Rodrigo de Triana – il marinaio che nello scorgere le coste americane, il 12 ottobre 1492, lanciò il grido più famoso della storia –, il grido del nostro poeta avventuriero non si riferisce alla terra, bensì, semplicemente e drammaticamente, alla nave in cui ha piantato i suoi piedi, unico luogo che può calpestare con sicurezza: «Eslooora».
Il secondo poemetto, Library, che fornisce caffè forte «per contrastare l’ora della siesta», perché non è il caso di dormire, non c’è tempo, rivela che lo scopo ultimo dell’intera manovra è quello di scrivere un testo poetico. Dice la voce poetante:
In questo scorrere del fiume, circondato dal mare, leggo la terza delle quartine, ma, in verità, scrivo una poesia.
Varie volte ripetuta lungo il testo, la costatazione di questo fatto irreversibile e inevitabile, «scrivo una poesia», «so che scrivo una poesia», indica che la meta cercata è la poesia stessa, dimodoché meta e medicina (l’articolo dispensato in questo appunto Dispensario) sono la stessa cosa. Non è casuale che questa scoperta si produca in una biblioteca (Library), la quale a sua volta si trova in una nave che procede lungo un fiume, «circondato dal mare». Come non è casuale che questo mare sia il luogo destinato a essere attraversato, per arrivare al punto dove finale e principio si riuniscono.
L’equazione fiume-mare precede e illumina la poesia. È presente in primo luogo nell’epigrafe di Eliot: «The river is within us, the sea is all about us» (Four Quartets, «The Dry Salvages», I, verso 15); in secondo luogo, nella memoria letteraria di Juan Manz, associata alla famosa metafora che ha percorso fino ai nostri giorni la letteratura di lingua spagnola, a partire dalle Coplas per la morte del padre di Jorge Manrique: «Le nostre vite sono i fiumi / che vanno a finire nel mare / che è il morire». Per il messicano, che registra la sua esperienza come un viaggio vitale, nello stesso tempo circondato (completato?) dalla morte:
In questo scorrere del fiume, circondato dal mare [...]
sapere – scoprire o ricordare, è lo stesso – questa verità fondamentale non può non approdare nella scrittura. Il primo impulso è quello di leggere («ho portato il mio libro»), ma l’azione di scrivere si sovrappone inarrestabile: «in realtà, / so che scrivo una poesia».
Il terzo componimento di Dispensario, «Ultima crociata», parte dalla poesia di Walt Whitman dedicata al Presidente Lincoln, scritta poco dopo la sua morte, e si centra nel momento di constatare che il viaggio è compiuto, ma nello stesso tempo il capitano («Oh Capitano... Mio Capitano...») è morto. Si è trattato, come si poteva prevedere e desiderare, di un «felice viaggio di andata / e ritorno». Perché il cerchio si chiude e il finale e il principio si riuniscono, come resta stabilito in tutta la poesia di Juan Manz. Questa è stata la sua «ultima crociata», il viaggio finale. Un viaggio che costituisce una vera impresa, difficile, rischiosa; ma indispensabile per portare a termine un determinato ideale.
Si tratta, in effetti, di qualcosa di più che di un semplice viaggio: si tratta di una «crociata». E arrivare al mare, che è il morire, può essere nella concezione del tempo circolare, il punto di partenza per tornare a viaggiare. Ecco perché il poeta augura al suo ammirato Capitano «felice viaggio di andata / e di ritorno». Ma possiamo anche pensare che il viaggio non si può fermare – il Capitano ha segnato la rotta e il poeta non si fermerà fino ad arrivare al suo proprio finale –, e che, in qualche modo, il Capitano sarà ugualmente presente. Perché questo Capitano, a differenza di quello di Whitman, «non giace morto», «non perde sangue / dal suo petto»; questo capitano è sempre presente, perché comunque la memoria lo riporta sulla sua nave, invitto. È altrettanto vero che ha causato un grande dolore con la sua «assenza inaspettata / per la foto familiare». Ma questa assenza s’inverte, e alla fine diviene nuovo inizio. Per questo motivo è così importante la poesia: la parola poetica rende tangibile e imperitura la memoria, l’immagine del Capitano mai vinto.
In questo punto del percorso, è giusto chiedersi se questo Capitano evocato e invocato dal poeta, non sarà proprio suo padre, dal quale ha imparato il mestiere dell’agricoltore e la cui morte l’ha segnato così dolorosamente quando era ancora molto giovane. Nella figura e nel ruolo del padre si riuniscono la guida spirituale ed emotiva, le radici storiche, il marchio del viaggiatore: il padre di Manz era, in effetti, un emigrante arrivato in Messico dalla lontana Romania. Dopo la sua morte allora il viaggio non si conclude, cambia: il Padre vecchio (come lo chiama in un’altra raccolta poetica) diviene presenza interiore e guida luminosa.
La quarta poesia, Aria di nostalgia, focalizza, come conseguenza logica di quanto detto, la memoria e la nostalgia, che con la loro capacità ricreatrice confermano – come dice l’epigrafe di Mijael Noki – che il tempo, qualsiasi tempo, «passa per non passare». L’articolo dispensato in questo caso è, precisamente, un’erba che serve per curare la nostalgia. E la figura evocata, che via via si definisce sempre più nitidamente, è quella del padre, con un chiaro riferimento alla terra d’origine, la Romania.
La quinta e ultima poesia, Salut au Whitman, costituisce una felice e raffinata conclusione, ricca di riferimenti intertestuali. L’epigrafe, presa dal primo canto del poema di Whitman Salut au monde, completa il discorso che scorreva come linfa dentro la tematica del viaggio e che a sua volta rimanda ad un’altra opera di Whitman, Song of myself: ossia la poesia, il canto, come strumento di analisi della propria interiorità e soltanto dopo, e come conseguenza, dell’ambiente circostante e del mondo. L’ambiente particolare e la circostanza di quest’ultima poesia è ormai un’altra terra: è il punto d’arrivo dopo avere fatto il giro del mondo. Siamo in Perù, prima sulla costa, a Lima; dopo sulle Ande, al Cusco, e a Machu Picchu, dove si potrà fare uso delle foglie di coca che vengono dispensate all’inizio. Il cerchio è chiuso, l’itinerario è completo, il viaggio d’iniziazione è finito per cominciare di nuovo, in modo più lucido e pertanto più felice.
Tutta l’ultima parte di questo libro di Juan Manz comunica esaltazione e vitalità. Una volta compiuto il viaggio, ricreata la memoria e scritta la poesia, davanti a chi contempla si solleva un tesoro di emozione e di conoscenza. Per la stessa ragione, risulta molto emblematico il primo verso della quinta poesia, «Cosa vedi fratello [...]», dove il destinatario di questi versi è il prossimo divenuto fratello. L’iniziazione ha portato a questo splendido avvicinamento alla specie umana, a questa fratellanza universale, certamente molto whitmaniana. Tutti i primi versi di questa quinta poesia, inoltre, proposti in corsivo, sono in realtà una parafrasi dei versi di Whitman, nei quali Manz sostituisce il nome di Whitman, che nel suo poema parla con se stesso, con il vocativo fratello; mentre la «grande meraviglia» osservata da Whitman è sostituita con un’aquila, creatura tipica dei cieli che si stanno scoprendo. In genere, la parafrasi e tutto quest’ultimo componimento di Dispensario comunicano l’euforia per l’impresa riuscita: il viaggio si è concluso felicemente e l’iniziazione si è verificata positivamente. Whitman risulta allora molto di più di un poeta ammirato. Lui è il Maestro, il Padre, il Capitano: «Tu mi hai insegnato / Walt Whitman / ad amare la poesia». E dalla meravigliosa prospettiva della Valle Sacra degli Inca, il Nostro si riconosce piccolo nel grembo dell’immensità, e assume la realtà di una provvidenza che determina e riunisce, che apre il cerchio e lo chiude. Per ricominciare:
Sostenuto appena dal firmamento vedo il cielo che scende dai miei occhi con l’umiltà di colui che si riconosce piccolo tra la gente.
Nuovo Colombo di una nuova America universale e poetica, questo poeta gode nello scoprire, o meglio nel constatare, l’imperitura meraviglia del ciclo vitale e la costante forza della poesia che lo trasmette. Dalla terra al cielo e dagli uomini a Dio, il saluto di Juan Manz arriva fino a Walt Whitman e si diffonde senza fine per le strade dell’etere.
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SALUT AU WHITMAN da Dispensario di Juan Manz (di prossima pubblicazione di Messico)
¿Qué se ensancha dentro de ti, Walt Withman? ¿Qué oleajes y suelos transpiran? ¿Qué climas? ¿Qué gente y qué ciudades hay aquí?
WALT WHITMAN
Día [15] mes [septiembre] año [2009] Artículo por dispensar [Poema a base de infusión de hoja de coca para prevenir el mal de altura]
I
¿Qué ves, hermano mío? ¿Quiénes son esos que te saludan, y ese otro, después de otro que te saluda, quién es..? Veo una hermosa águila volar el aire como imagen salida de su idea, la miro cruzar el cielo matinal de Lima mientras paro en medio de la gente y veo también cambiar de guardia a las escoltas. Escucho el resoplar de las trompetas, el ceremonioso reclamo de la marcha y de la banda que avanzan lentamente lentos…
Desde aquí te saludo, Walt Whitman, desde la Lima brumosa y antequera nunca vista por tus ojos, pero que celebraron tus versos largamente largos, escucho tu invocación y respondo a tu pregunta. Aquí, no soy más que ese otro de los que te saludan después de otros y por eso te agradezco hagas diálogo conmigo, aeda de la hierba.
Tú me enseñaste, Walt Withman, a amar la poesía, a desprenderme de prejuicios que pudieran reprimirme, para volar a plenitud la noche misteriosa de mi alma y de mi cuerpo que la sigue a todas partes y cantar sus recorridos. Piensa que estoy contigo -no consideres tan seguro que no esté ahora contigo- te citas a ti mismo e interrogas a mis ojos con la firme intención de aprehender el tiempo en una lágrima de piedra viva, en una puesta de sol que ya se sabe poniente desde que aclara la mañana.
II
¿Y tú, qué ves, Walt Withman? ¿Quiénes son esos que te saludan, y ese otro, después de otro, que te saluda, quién es...? Veo, como tú, hermano mío, la misma hermosa águila pasar por el presente del pasado. Contigo alzo la vista y paro a lado tuyo al otro yo de mí que te presiente. Veo también cambiar de guardia a las escoltas, escucho el decidido resoplar de las trompetas el ceremonioso reclamo de la banda que marcha larga a su paso recortado en tu ojo diestro.
Sabes, yo te alerté con el impulso de mi mente a que miraras hacia arriba, apenas un segundo atrás ya vislumbraba el águila al desprender sus afiladas garras del palacio de gobierno y desplegar sus alas a no sé que destino nosédónde. Esa súbita llamada eléctrica dirigida a tu conciencia la hice con la certidumbre del que habla y ya sabe de antemano que su palabra será escuchada letra a letra, que el sonido de su voz, como un relámpago, daría luz por un instante eterno al cerebro que aún duerme su vigilia.
Desde aquí yo también te saludo, hermano mío. Aquí no soy más que ese otro de los que te saludan después de otros y a pesar de todo, aventuro a recitarte: en las ciudades en donde penetran la luz o el calor yo mismo también penetro… Y con estos versos contesto tu pregunta, cantor de los ancestros. Y deseo que con estos versos te acompañes a donde sea que tus pasos te lleven y te induzcan en su momento a hacer lo mismo.
III
¿Y tú, qué ves, ahora, hermano mío, ¡Qué oleajes y suelos transpiran? ¿Qué climas? ¿Qué gente y qué ciudades hay aquí? Veo a Machu Picchu, desde su altura, bajar hasta Wainna picchu, fincar allí su sitio por el capricho del hombre, pasar por el paso del sol, volar el vuelo del cóndor que pasa, y no puede posar sus alas más allá de la cima a que la piedra lo eleva.
Veo el futuro aquí mismo donde el tiempo se detuvo sin pensarlo, y miro cierta la razón de su retraso, porque sé que él en cada latido de segundo está consciente, que en algún punto del trayecto tendrá que regresar por donde vino.
Desde aquí te saludo, Walt Withman, desde el Valle Sagrado de los incas, desde el Cusco ancestral donde penetran la luz y el calor yo mismo -como tú- también penetro bardo del estruendo.
Sabes, hoy mismo te vi tomar asiento a nuestro lado en Machu Pichu. Te vi en los ojos de Kandry, nuestra guía, desorbitado por el entorno, y, en el medio giro de su mano diestra, al compás de la pasión de su palabra, sombrearte mientras llovizna, Techaba el techo del mundo, profeta del asombro, techaba el ojo tercero su ardor de iris profundo.
Veo, finalmente, hermano mío, la inmensidad que parece derrumbarse entre las nubes a golpe de crepúsculo. Apenas sostenido por el firmamento veo el cielo bajarse de mis ojos con la humildad del que se asume pequeño entre la gente. Veo, escucho, y miro, y canto de euforia y alegría, y con estos atributos del espíritu, te saludo, Walt Withman, en nombre de Dios y de los hombres.
Lima / Cusco
Salut au Whitman
Che cosa si allarga dentro di te, Walt Whitman? Quali onde e terreni traboccano? Quali climi? che persone e città sono queste?
WALT WHITMAN (*)
Giorno [15] mese [settembre] anno [2009] Articolo da dispensare [Poesia a base di un infuso di foglie di coca per prevenire il male d’altura]
I
Che cosa vedi, fratello mio? Chi sono quelli che ti salutano, e quest’altro, dopo un altro che ti saluta, chi è...? Vedo una splendida aquila volando nell’aria come immagine uscita da un’idea, la guardo attraversare il cielo mattutino di Lima mentre mi fermo in mezzo alla gente e vedo anche il cambio di guardia delle scorte. Ascolto il soffio delle trombette, il cerimonioso richiamo della marcia e della banda che procedono lentamente lenti…
Da qui ti saluto, Walt Whitman, dalla Lima caliginosa e andalusa mai vista dai tuoi occhi, eppure celebrata nei tuoi lunghi allungati versi, ascolto la tua invocazione e rispondo alla tua domanda. Qui sono soltanto uno in più di quelli che ti salutano dopo tanti altri e per questo ti ringrazio di dialogare con me, aedo dell’erba.
Tu mi hai insegnato, Walt Withman, ad amare la poesia, a liberarmi di pregiudizi che potevano reprimermi, per volare pienamente nella notte misteriosa della mia anima e del mio corpo che la insegue dappertutto e cantare i suoi percorsi. Pensa che sono con te ( non essere troppo sicuro che non sia con te proprio ora ( citi te stesso e interroghi i miei occhi con la ferma intenzione di afferrare il tempo in una lacrima di pietra viva, in un imbrunire del sole che si riconosce tramonto fin da quando fa mattino.
II
E tu, cosa vedi, Walt Withman? Chi sono coloro che ti salutano , e quest’altro, dopo quell’altro, che ti saluta, chi è...? Vedo, come te, fratello mio, la stessa splendida aquila che attraversa il presente del passato. Con te sollevo gli occhi e fermo accanto a te quell’altro mio io che ti intuisce. Vedo anche il cambio di guardia delle scorte, ascolto il deciso soffio delle trombette il richiamo cerimonioso della banda che procede a passo lungo ritagliato nel tuo occhio destro.
Lo sai, io ti ho avvisato con lo slancio della mia mente a guardare in alto, soltanto un secondo fa essa scorgeva l’aquila mentre staccava i suoi affilati artigli dal palazzo di governo e spiegava le sue ali verso chissà che destino nonsoquale. Quell’improvvisa chiamata elettrica rivolta alla tua coscienza l’ho fatta con la certezza di uno che parla e sa in anticipo che la sua parola sarà ascoltata lettera per lettera, che il suono della sua voce, come un lampo, darà luce per un eterno istante al cervello che ancora dorme nella veglia.
Da qui anche io ti saluto, fratello mio. Qui non sono altro che uno in più di quelli che ti salutano dopo tanti altri eppure malgrado tutto, mi azzardo a recitare: nelle città dove penetrano la luce o il caldo anche io pure penetro… E con questi versi rispondo alla tua domanda, cantore degli antenati. E desidero che con questi versi tu sia accompagnato dovunque i tuoi passi ti porteranno e che essi ti convincano quando sarà il momento a fare la stessa cosa.
III
E tu, cosa vedi, ora, fratello mio, Quali onde e suoli essudano? Quali climi? Che persone e città sono queste? Vedo Machu Picchu, dalla sua altezza, scendere fino a Wainna Picchu, fissare lì la sua dimora per il capriccio dell’uomo, attraversare il passo del sole, volare il volo del condor che passa, e non può abbassare le ali al di là della cima dove la pietra lo solleva.
Vedo il futuro qui stesso dove il tempo si è fermato senza pensarci, e guardo con la ragione certa del suo ritardo, perché so che lui in ogni battito di secondo è cosciente, sa che in certo punto del percorso dovrà ritornare da dove è venuto.
Da qui ti saluto, Walt Withman, dalla Valle Sacra degli inca, dal Cusco ancestrale dove penetrano la luce e il caldo io stesso ( come te ( penetro pure bardo del fragore.
Lo sai, oggi stesso ti ho visto che prendevi posto accanto a noi a Machu Pichu. Ti ho visto negli occhi di Kandry, la nostra guida, spiazzato dal contesto, e, nel mezzo giro della sua mano destra, al ritmo della passione della sua parola, ombreggiato mentre pioviggina. Ci faceva da tetto il tetto del mondo, profeta dello stupore, faceva da tetto all’occhio terzo al suo ardore da iride profondo.
Vedo, finalmente, fratello mio, l’immensità che sembra crollare tra le nuvole a colpi di tramonto. Sorretto appena dal firmamento vedo il cielo che scende dai miei occhi con l’umiltà di colui che si riconosce piccolo tra la gente. Vedo, ascolto, e guardo, e canto per l’euforia e la gioia, e con tutti questi doni dello spirito, ti saluto, Walt Withman, nel nome di Dio e degli uomini.
Lima / Cusco
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(*) Juan Manz cita Whitman in spagnolo; la traduzione italiana è mia. Per la versione completa di Salut au Monde!, vedi Walt Whitman, Foglie d'erba. Edizione integrale, versioni e prefazione di Enzo Giachino, con un saggio di Franco Buffoni, Einaudi, Torino, 1973, pp. 167-179.
Traduzione dallo spagnolo di Martha Canfield
Juan Manz Alaníz è nato nel 1945 a Ciudad Obregón, nello stato messicano di Sonora, nella parte nordoccidentale del paese. Poeta e attivo operatore culturale, Presidente della sezione Cultura del Consiglio Municipale. Come poeta ha pubblicato numerose raccolte che spiccano nel panorama messicano attuale per l’intensità lirica, il linguaggio innovativo e il tessuto intertestuale. Da ricordare: Oro verde (1982, 2001); Con un rumor de canción (1984); Para repasar el círculo (1985-1986); Balada de tierra adentro e Tres veces espejo, uscite negli anni 1995 e 1996; Ciudad de siempre, nel volume collettivo Violento el mediodía; Padre viejo (2000, e 2ª ed. 2002); Sonata de tierra adentro (2002, e 2ª ed. 2003); Agua reparada (2005); Molinar sin aspas (2006); Recital en fuga (2007); infine, Para repasar el círculo. Poesía reunida (2007) e Poemas al Margen. Poesía reunida (ma con una scelta di testi diversa del volume precedente, 2010).
Nel 2003 Juan Manz ha fondato nella sua città un Incontro Latinoamericano di Scrittori, cui ha voluto intitolare “Bajo el asedio de los signos”, e che si realizza ogni anno. È inoltre membro fondatore della “Agrupación para las Bellas Artes” (APALBA), all’interno della quale dirige una collana di poesia e narrativa, “Bakatete ardiente”, e una esclusivamente di poesia, “Instantes”.
È stato inserito in numerose antologie di poesia messicana contemporanea e di poesia internazionale, pubblicate in Messico e fuori dal Messico. Nel 2009 è stato insignito della medaglia d’oro della Casa del Poeta Peruviano, premio promosso dall’Università Nazionale di Cajamarca, Perù. Nella motivazione si sottolinea che Juan Manz è stato straordinariamente attivo in ambito nazionale e internazionale mediante un’indefessa opera di promozione culturale e poetica negli ultimi trent’anni. Nel 2010 viene nominato membro speciale dell’Accademia di Estensione Universitaria e per la Diffusione della Cultura dell’Universidad Nacional Autónoma del Messico (UNAM).
mcanfield@alice.it
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