FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 12
ottobre/dicembre 2008

Suoni di versi

UNA MUSICA DISCRETA
Sull’ultimo romanzo di Richard Ford Lo stato delle cose

di Alessio Brandolini



Il titolo italiano dell’ultimo superbo romanzo di Richard Ford (1944), uscito negli Stati Uniti nel 2006, è Lo stato delle cose (come il film di Wim Wenders del 1982), ed è stato pubblicato qualche mese fa da Feltrinelli, nell’ottima traduzione di Adelaide Cioni. Titolo fedele al senso figurato di quello originale (The Lay of the Land) ma che, inevitabilmente, perde la connotazione legata a "land", quel "territorio" sempre presente nei romanzi di Ford.
Un vasto quadro (sono quasi 550 pagine) che fa pensare a una partitura musicale, con un fraseggio tanto armonico ed esatto quanto discreto - si avverte un meticoloso e lento lavoro sulla scrittura, sulla singola frase - che si svolge in tre parti (tre temi), con una breve e un po’ funebre ouverture (“Sei pronto a incontrare il Creatore?”) e l’aggiunta di un finale (“Ringraziamento”) che fa il punto della situazione e in cui, ironicamente ma con sguardo riconoscente, il protagonista sembra voler ringraziare proprio il Giorno del Ringraziamento (intorno al quale si concentrano i fatti, anche molto tragici, qui narrati). Non manca poi, alla fine, a mo’ di appendice, un rigoroso “Glossario” sulla terminologia tecnica usata dal protagonista, che di professione fa l’agente immobiliare, sui vari stili delle case del New Jersey, di cui si dice praticamente tutto, tanto per ribadire l’esattezza e la pignoleria di Richard Ford, che ha pubblicato il suo primo romanzo, A Piece of My Heart, nel 1976, trent’anni prima di Lo stato delle cose. Un esordio non precoce e poi un passo da narratore calmo e riflessivo, che ha donato alla letteratura una manciata di ottimi romanzi (via via più ponderosi) e tre raccolte di racconti (per lo più lunghi) che lasciano il segno.

Il protagonista lo si conosce orami da un pezzo, dai tempi di The Sportswriter (1986), ed è quel Frank Bascombe che proseguirà a narrarci la propria vita in Independence Day (1995) per poi giungere, esattamente a vent’anni di distanza dalla sua prima apparizione, a una terza fase, più matura, quella appunto di Lo stato delle cose.
Frank ha cinquantacinque anni, fa ancora, con passione e professionalità, l’agente immobiliare e abita a Sea-Clift, una cittadina immaginaria di duemilatrecento residenti a metà della costa del New Jersey. L’anno della narrazione è il 2000, quello delle disastrose elezioni presidenziali americane che videro contrapporsi il democratico Gore e il repubblicano Bush. La vittoria di quest’ultimo (per nulla convincente) segnerà anche l’inizio di uno dei periodi più bui della politica degli Stati Uniti e, quindi, del nostro pianeta. Lo stato delle cose completa la trilogia dedicata a Bascombe, a tre momenti importanti della sua vita, che si svolgono in tre giorni particolari dell’anno: nel primo romanzo era il giorno di Pasqua, nel secondo il Giorno dell’Indipendenza (4 luglio) e ora il Giorno del Ringraziamento (ultimo giovedì di novembre). Ogni romanzo successivo aumenta di consistenza - e si fa più complesso - come se con l’avanzare dell’età del protagonista (e, ovviamente, del suo creatore) ci fossero sempre più cose e più fatti da narrare, da spiegare, da capire. Se Ford fra dieci anni dovesse scrivere di nuovo su un Bascombe ormai ultrasessantenne, probabilmente ci troveremo di fronte a un quarto romanzo enorme. E non tanto per rispettare la consuetudine dell’aumento di pagine rispetto al precedente lavoro, ma proprio perché la narrazione di Bascombe (e quindi lo stile “ad espansione” di Ford), della sua vita, emozioni, paure, non può prescindere (e non potrà prescindere in futuro) da quello che è accaduto al personaggio negli anni passati, nei romanzi già scritti che narrano della sua vita: essi diventano l’indispensabile substrato del nuovo lavoro.

Ne Lo stato delle cose Frank vive da solo in una grande e bella casa davanti all’oceano. Sostanzialmente è rimasto un uomo corretto, è su posizioni democratiche, si preoccupa per il proprio paese, così come per il mondo, ed è sensibile ai problemi sociali e ambientali. Non esalta il denaro, né gli piace accumularlo, magari per il gusto di ostentare la propria ricchezza, che è un fatto che negli Stati Uniti coinvolge tutti, persino gli immigrati da paesi poverissimi, come capita al suo unico dipendente, Mike Mahoney arrivato dal Tibet quindici anni prima, e diventato già ricco, nonché convinto attivista repubblicano.
Frank seguita a comprare i vestiti sui cataloghi di vendita per corrispondenza, fa del volontariato, è fedele alle amicizie. Ha sempre molti dubbi, si assilla con domande su tutto e su tutti. Dorme piuttosto male, forse per via di una smisurata attività della mente, che di continuo innesta il presente al passato, avanza ipotesi, punge i pensieri, li aggroviglia provando a sgonfiarli, a carpirne l’essenza. Si guarda intorno con attenzione, in modo ossessivo come se volesse afferrare tutto ciò che cambia, che muta in continuazione. Così come le belle e costose ville sulla spiaggia che dopo qualche anno di vita sono già intaccate dal vento e dalla salsedine.
Si confronta con gli altri (talvolta anche in modo aggressivo se gli capita di bere un bicchiere di troppo), con il paesaggio, con le idee che gli ruotano intorno. Lo sguardo sul territorio locale è a vasto raggio, e va in profondità e nulla trascura: uomini, case, paesaggio, persino la “configurazione del terreno”. La sua curiosità genera sorprendenti equivoci, come quando lo sospettano di essere un terrorista o gli sparano perché cerca di capire cosa sta accadendo nella casa accanto alla sua. E questo nonostante lo sforzo di elaborare strategie difensive onde evitare i contraccolpi della vita, il desiderio di pianificare sempre tutto, così come il Giorno del Ringraziamento che vorrebbe festeggiare a casa, in modo tranquillo, con i figli Clarissa e Paul.
Frank vorrebbe afferrare il senso della propria esistenza dopo i due matrimoni falliti, e comprendersi di più. Vorrebbe provare a percepire il respiro della vita, soprattutto ora che è malato, che è finito il momento della sicurezza, quello garantito dal “Periodo permanente” – come lui lo chiama – quando non si ha paura del futuro e si dominano sia il presente che il passato. Ora è entrato nel “Prossimo livello”, quello in cui si pensa alla morte, magari la si attende e allora il presente traballa e il passato viene come rivissuto febbrilmente, sotto la spinta del traballante futuro.

Quella di Frank è una strana solitudine: molto attiva e vitale, affollata di ordinarie follie e fatti straordinari, e anche di persone. I due figli, le due ex mogli, i pochi amici, gli incontri con i clienti e le persone che va a visitare quando fa del volontariato. Si sente vulnerabile, è vero, oltre che solo, e prova a tamponare il dolore, il disagio per riuscire a vivere il meno peggio possibile, ad avvicinarsi di nuovo alla felicità, rasentarla ancora per qualche anno, quella felicità andata persa per sempre con la fine (definitiva) del “Periodo permanente”.
La sua seconda e amata moglie Sally lo ha lasciato per tornare a vivere con Wally, il suo vecchio compagno che anni prima era sparito nel nulla. A questo dolore se ne aggiunge subito un altro, non meno grave, quello della malattia: ha un tumore alla prostata che lo costringe a visite e controlli per via di quei sessanta semi di iodio radioattivi incapsulati in pallini di titanio che gli sono stati sparati “come bombe teleguidate” nella prostata.
Se perdere la donna amata è stato per Frank un dolore insanabile ora la malattia spinge la sua esistenza in una grave crisi, facendo traballare la sua condizione di uomo virile (o, più semplicemente, “normale”). Non solo perché quel tumore potrebbe intaccare altri organi (sua madre è morta di tumore), ma soprattutto perché ora deve fare pipì molto spesso e ogni venti pagine Ford non trascura di ricordarcelo, di descrivere tutto nei minimi particolari: lo stimolo (il bruciore) di urinare prima possibile è forte, irresistibile e il protagonista è sempre a caccia di un bagno (o di un albero, di un muro) dove potersi liberare, per poi “riprendere a vivere”, senza quell’assillo, pur sapendo che si tratta soltanto di una tregua. Per sicurezza allora potrebbe (o dovrebbe) portare un pannolino (o un pannolone) ma questo sarebbe troppo umiliante, non farebbe che accrescere il proprio imbarazzo.

La malattia e la morte, così presenti e costanti in questo romanzo, dalle prime pagine (in cui si allude a un possibile suicidio di Frank) fino alle ultime dove il protagonista si ritrova in un viaggio aereo in compagnia di tanti altri ammalati, sono aspetti importanti e decisivi per lo sviluppo della storia qui narrata e che avvicinano Bascombe a Zuckerman, l’alter ego in tante storie del prolifico Philip Roth, che negli ultimi libri (anche quelli senza Zuckerman) parla molto del disfacimento fisico e lo descrive nei suoi aspetti più devastanti e cruenti, come quando in Patrimonio narra dell’ultimo stadio della malattia del padre.
Tuttavia nei romanzi di Ford il distacco tra protagonista (Bascombe) e autore sembra maggiore che in quelli di Roth, anche se - ovviamente - tra i due (Bascombe e Ford) non mancano i punti di contatto, le cosiddette affinità (più o meno elettive), come, per esempio, la scrittura. Bascombe da giovane voleva fare lo scrittore, poi per anni pubblicherà su un quotidiano i suoi pezzi di giornalista sportivo, ma proprio il fatto di aver rinunciato del tutto a scrivere e d’essersi messo a vendere case, a fare un lavoro che nulla ha a che fare con la letteratura (Frank compra libri ma difficilmente arriva a leggerli fino in fondo) crea quel netto distacco che permette a Frank Bascombe di avere il proprio punto di vista, che solo a tratti potrà coincidere con quello del suo autore. Un punto di vista, aggiungo, volutamene diverso da quello del suo autore, come se per osservare bene il mondo, la società in cui si vive, il contesto storico-politico, sia necessario distaccarsene, guardarlo e viverlo con gli occhi di un altro, di un alter ego autonomo, un osservatore attento che non trascura la memoria, né la storia.

Non a caso il punto di vista resta sempre quello di Bascombe, che narra i fatti in prima persona, non ci sono “innesti” di altri personaggi né, tantomeno, interventi dell’autore: l’io narrante coincide sempre (e le pagine del libro sono molte) con quello del protagonista principale e assoluto. Non solo tutto è visto con gli occhi di Bascombe ma ogni cosa passa attraverso la sua mente e il lettore, dopo un centinaio di pagine, è preso dalla morsa dei pensieri di Frank, dalle sue ossessioni, dai suoi cavillosi ragionamenti, a volte arguti a volte banali, o dettati dalla paura della morte, dalla solitudine, dall’insonnia, dalla mancanza di amore, dalle preoccupazioni per i due figli. E il lettore potrebbe provare fastidio per questa eccessiva presenza del protagonista, e delle sue multiple riflessioni.
Però quello sull’alter ego - Bascombe o Zuckerman e tanti altri - è un discorso complesso sul quale non si può generalizzare: ogni autore fa storia a sé. Fin da una lontana intervista del 1984 Philip Roth invita il lettore a non fissarsi sui dati autobiografici della storia narrata, ma di scoprire “i delicati artifici con i quali i romanzi creano l’illusione di una realtà più vicina al reale di quella vissuta”.

Dopo due fitti romanzi ancora così tanto da dire, da pensare e descrivere in dettagli che entrano nei particolari, nelle sfumature dei fatti, nelle relazioni umane, anche le più contorte e difficili (come quella con il figlio Paul), nella psicologia delle persone, in questo mutevole e inafferrabile “stato delle cose” che ruota intorno al perno Bascombe. Non a caso tutti gli altri personaggi “vivono” soltanto quando s’incrociano con lui o passano nei suoi pensieri, nella sua testa. Se questo non si verifica scompaiono alla svelta, non si sa più nulla di loro e tornano a dare segni di vita solo quando intrecciano le loro azioni con quelle di Frank e, soprattutto, quando casualmente si troveranno a passare di nuovo per la sua mente.
Il punto di vista di questi personaggi secondari, eppure essenziali per lo sviluppo del romanzo visto che poi alla sua base ci sono proprio le relazioni umane del protagonista - ma qui sono importanti anche le ripercussioni e gli echi degli incontri con gli altri, siano essi vivi o morti, presenti o lontani - è sempre filtrato dalla testa, dai pensieri, dalle ipotesi, dalle sofferenze di Frank. Se lui non li pensa questi personaggi non esistono: scompaiono.

Allora potremmo chiederci: “lo stato delle cose è quello di Bascombe o è quello oggettivo?”. Ma quale potrebbe essere “lo stato oggettivo delle cose”? chi potrebbe dettarne gli inconfutabili contorni? Ma in un volume corposo come questo una pluralità di voci sfaccetterebbe meglio i fatti narrati, darebbe un punto di vista (sempre su lo stato delle cose) più complesso, più articolato. A questo punto entra in gioco il carattere di Frank. La sua ironia e autoironia, anche cinica (come quando descrive i vari livelli della sua vita), la sua quieta sensibilità pur nella sfortuna (in accordo con “la musica discreta” di cui parlavo all’inizio), il suo attento spirito di analisi, fanno sì che proprio il suo punto di vista possa essere quello più idoneo a descrive la partita in gioco (come quando il protagonista scriveva articoli sportivi).
Il punto di vista resta il suo, dell’agente immobiliare Frank Bascombe, ma potrebbe essere quello di tanti altri: di una qualsiasi persona con una cultura discreta, attenta, semplice nel modo di vivere, un cittadino democratico non velleitario né bellicoso, che conduce un’esistenza più o meno normale e come tutti è soggetto agli imprevisti della vita, e teme le minacce e le ombre del destino. Così come i due proiettili che a un certo punto centreranno il petto di Frank, sparati da due fanatici minorenni. Anche gli imprevisti di natura personale (un amore che finisce, una malattia) e psicologica, quelli che hanno a che fare con gli anni che passano, con la morte degli altri (Frank ha perso da decenni un figlio eppure quella morte è come se si rinnovasse ogni giorno), con un divorzio alle spalle, l’improvviso e irragionevole abbandono della seconda moglie. Imprevisti che rendono mutevoli, e persino profondamente diversi, a volte, da quel che si è normalmente.

Alla fine, di questo stato delle cose minutamente descritte da Frank (cioè da Ford) non è possibile conoscere i contorni in modo nitido e perfetto, eppure ci si entra dentro e molto si riesce a intuire e a comprendere della vita, non solo quella di Bascombe, in questo difficile e tragico inizio Millennio.
Il romanzo è ambientato nel novembre del 2000, le torri gemelle di New York sono ancora in piedi, eppure c’è una netta percezione di tragedia, come un basso che vibra costantemente e ogni tanto fa tintinnare i vetri delle finestre, come se “lo stato delle cose” americane e del mondo avessero preso una brutta piega. L’elezione di Bush, molto dubbia, il cinismo che si diffonde, la violenza (quasi sempre maschile) che sembra alimentare uno stato comatoso di vita (così l’impiegato che mette una bomba in ospedale, così l’uomo che uccide la professoressa che lo ha bocciato a un esame per infermiere, così i due giovani che sparano a due passi dalla casa di Frank), i gravi problemi ambientali affrontati in modo superficiale, l’economia senza freni né etica, il ricorso di tante persone alle associazioni di volontariato per avere una mezzora di compagnia, un sorriso. Grandi e piccole cose che scolpiscono i tratti d’un malessere profondo, nemmeno tanto mascherato. La tragedia dell’11 settembre segna una cesura e scuote a fondo l’idea che gli americani hanno di sé, anche in rapporto al resto del mondo.
L’appartenenza al Sud degli Stati Uniti di Richard Ford non si traduce solo in influsso “geografico”, ma caratteriale, nel modo di comportarsi e di reagire, come se le profonde cicatrici della “guerra civile” (impossibile non pensare a un altro grande recente romanzo americano, La marcia, di Doctorow) fossero sempre lì, a fior di pelle, persino più evidenti negli ultimi decenni, dopo la vittoria di Bush del 2000 (che in termini di voti, di preferenze fu in realtà una sconfitta) decisa proprio nel Sud. E probabilmente oggi, 5 novembre 2008, Richard Ford starà festeggiando assieme al suo alter ego Frank Bascombe la strepitosa vittoria di Barack Obama.

Oltre a Carver (che fu amico di Ford) leggendo Lo stato delle cose vengono in mente altri grandi nomi della letteratura mondiale contemporanea, e penso a Musil, Joyce e Calvino, per poi risalire a Čechov. Con ragione Ford in alcune interviste ha definito i suoi romanzi “politici”, che poi sì, resta un termine generico per definire la propria scrittura, ma se accostato al suo meticoloso realismo esistenziale e sociale prende più corpo: Richard Ford, semplicemente, scrive romanzi non con la speranza di mutare il mondo ma di dover fare - come scrittore - un lavoro onesto e ben fatto per conoscere meglio il mondo, magari per poi tentare di cambiare “lo stato delle cose”. A lui sta molto a cuore il modo in cui gli esseri umani vivono e si comportano, l’aspetto estetico della sua scrittura, pur così importante, si fonde alla sostanza della narrazione, ecco perché in Lo stato delle cose la musica è “discreta”, sì, ma proprio per questo risulta essere, a fine lettura, coinvolgente e persuasiva.




RICHARD FORD
È nato a Jackson nel Mississipi, nel 1944. Di umili origini, a sedici anni gli muore il padre, agente di commercio, per un infarto. È dislessico, questo lo costringe a concentrarsi in modo particolare per non dimenticare quello che legge. Si diploma alla Michigan State University, dove conosce Kristina Hensley, che poi sposa nel 1968. Frequenta la facoltà di Legge, ma si ritira per conseguire un Master in Belle Arti (MFA) di scrittura creativa all’Università della California, che consegue nel 1970.
Inizia a scrivere e pubblicare racconti per "Esquire", "The Paris Review" e "The New Yorker". Nel 1976 pubblica il suo primo romanzo, A Piece of My Heart, la storia di due strani vagabondi le cui strade si incrociano su un’isola nel fiume Mississippi, seguito nel 1981 da The Ultimate Good Luck (L’estrema fortuna).
I suoi racconti e romanzi sono caratterizzati da una particolare capacità descrittiva e da un coinvolgimento emotivo che cresce lentamente, pagina dopo pagina. I protagonisti di queste prime storie sono sempre persone ai margini della società, per lo più soli e affannati, tormentati da vecchie vicende che li rendono incapaci di relazionarsi con il mondo esterno. Una specie di “realismo sporco”, più duro di quello del suo amico Raymond Carver (ci due si conobbero nel 1977 i rimasero grandi amici fino alla morte di Carver, avvenuta nel 1988) e “Dearty realism” è infatti il titolo di uno di questi racconti, poi confluito in Rock Springs (1987). In seguito la scrittura di Ford evolverà verso un realismo psico-sociale più complesso eppure più fluido, che tende a decostruire il personaggio, a smussarlo in ogni aspetto per evidenziarne titubanze e debolezze.
Nel 1986 esce l’autobiografico The Sportswriter, ambientato nel New Jersey, che narra di uno scrittore fallito diventato giornalista sportivo e che attraversa una crisi spirituale dopo la morte del figlio: è il primo romanzo della trilogia che arriva nel 2006 a The Lay of the Land (Lo stato delle cose).
The Sportswriter entra tra i primi cinque libri consigliati dalla rivista "Time" per il 1986 e viene nominato finalista per il “Premio PEN/Faulkner” per la narrativa. Subito dopo, nel 1987, esce Rock Springs, primo libro pubblicato in Italia, una raccolta di racconti che include alcune delle sue storie più popolari e che conferma Ford come uno dei migliori scrittori della sua generazione.
Nel 1990 esce Wildlife (Incendi), la storia di un ragazzo di sedici anni che vive nel Montana, Joe Brinson, e della sua difficile vita familiare, in un contesto sociale senza amici e con problemi di disoccupazione, il romanzo è narrato in prima persona dallo stesso Joe.
Nel 1995, la carriera di Ford raggiunge l’apice con la pubblicazione di Independence Day, il seguito di The Sportswriter, uscito quasi dieci anni prima, che racconta la vita attuale di Frank Bascombe. Per questo libro ottiene il “Premio Pulitzer per la Letteratura” nel 1996 e il “Premio PEN/Faulkner”.
Tra i suoi libri di racconti, si ricordano Donne e uomini e Infiniti peccati. Ha scritto anche sceneggiature teatrali, saggi ed editato antologie sul racconto americano.
Richard Ford, dopo aver vissuto a New Orleans, New York e Parigi, vive attualmente nel Maine, in una casa sull’oceano.


In Italia Feltrinelli ha pubblicato (tra parentesi l'anno dello'edizione originale):

  • 2008, Lo stato delle cose (2006)
  • 2002, Infiniti peccati (racconti, 2002)
  • 2001, Donne e uomini (racconti, 1997)
  • 1996, Il giorno dell’Indipendenza (1995, Premio Pen/Faulkner e Premio Pulitzer)
  • 1993, Il donnaiolo (1992, racconto poi confluito in Donne e uomini))
  • 1992, Sportswriter (1986)
  • 1991, Incendi (1990)
  • 1990, L’estrema fortuna (1981)
  • 1989, Rock Springs (racconti, 1987)

Con altri editori sono stati pubblicati:

  • 2003, Mia madre, un ricordo (Archinto)
  • 1994, Il destino del bosco d’argento (Nord)


RICHARD FORD
da Lo stato delle cose

La mia ultima lacrima, dopo tante, e molte altre non ancora versate, è una lacrima di sollievo. Accettare la vita ti lascia libero di accogliere quel che viene dopo. Anche se chi può dire che non sarebbe andata bene lo stesso, con i miei vecchi rifiuti e le mie negazioni che continuavano ad assolvere il loro vulnerabile compito? Anni fa, sapevo che il lutto poteva essere lungo. Ma così lungo? Facile argomentare che certe cose è meglio lasciarle stare, visto che la permanenza, la permanenza vera, e non le tenui blandizie che mi sono inventato io, può fare una paura bestiale, perché ti libera dal tuo vecchio contesto sicuro. Con chi, per esempio, dovrei “condividere” che ho accettato la morte di Ralph? Che cosa dovrebbe significare? Come verrà recepito e che peso avrà? Sarà difficile sopravvivere? Riuscirò ancora a vendere case? Vorrò ancora farlo? E come sarebbero state diverse le cose se avessi accettato tutto sin dall’inizio, come avrebbe fatto l’amministratore delegato della General Electrics o il generale Schwarzkopf? Abiterei a Tokio adesso? Sarei morto di accettazione? O sarei ancora a Haddam? Solo Dio lo sa. Forse sarebbe stato tutto più o meno lo stesso; magari l’idea di accettazione è sopravvalutata, anche se gli strizzacervelli la pensano diversamente, il che significa solo che non lo sanno. Dopotutto, ognuno di noi si porta dietro un “sacco” di cose insoddisfacenti, “cose” che vorremmo disfare o ignorare in modo che altre “cose” possano migliorare, e che il cuore possa aprirsi di più. Chiedete a Marguerite Purcell. Come ho detto, l’accettazione è una brutta bestia. Mi fa spavento anche qui nel mio letto, nella mia casa vuota, con il temporale passato e il Ringraziamento che aspetta di levarsi insieme al sole da est. Stai attento a cosa accetti, è il mio avvertimento per me stesso. Lo farò, se posso.

Fuori al buio sento lo scoppiettio acuto di una motocicletta lanciata a velocità su Ocean Avenue, ma svanisce in lontananza. Poi mi pare di sentire un’altra macchina, piccola, straniera, con le ruote vicine e la marmitta scassata, che rallenta nel vialetto di casa mia. Per un attimo penso che sia Clarissa, tornata a casa, con Thom nella Healey, oppure da sola con una Daewoo a noleggio, salva. Sentirà la porta di casa aprirsi piano e piano rinchiudersi con uno scatto. Ma non è così. È solo l’“Asbury Press”. Sento la musica della radio del ragazzo che lo consegna mentre lui abbassa il finestrino, e il giornale piegata atterra sulla ghiaia. Poi il finestrino si richiude e la voce di Doris Day svanisce, “Gotta take that sentimental journey, sen-ti-men-tal- your-ur-ney home”. La sento lungo la strada e fin nel sonno. Poi non sento più niente.


Richard Ford, Lo stato delle cose, traduzione di Adelaide Cioni, Feltrinelli, Milano, 2008, pagg. 544, euro 23,00.


alexbrando@libero.it