FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 7 luglio/settembre 2007 Altre terre |
TERRE INSANGUINATE di Alessio Brandolini |
Non sa più nulla, è alto sulle ali Vittorio Sereni
Un esercito in marcia verso il mare, 60.000 uomini, ormai veterani d'una guerra fratricida che alla fine conterà oltre 600.000 morti e milioni di feriti. Americani contro americani, Stati del Nord contro Stati del Sud e, lo si sapeva fin da subito, non era solo una questioni legata allo schiavismo. Di mezzo, come sempre, c'erano grossi interessi economici, e un'idea di stato diversa: accentrata per il Nord, più liberale per il Sud. All'inizio la guerra di secessione o, meglio, la "guerra civile americana" vide gli stati dell'Unione in forte difficoltà, il presidente Abraham Lincoln (eletto nel novembre 1860) si rivolse persino a Garibaldi, ma "l'eroe dei due mondi" rifiutò ogni tipo d'intervento in quella guerra perché non lo convinceva affatto: americani contro americani, uomini venuti dall'Europa che combattevano contro uomini venuti dall'Europa, e italiani emigrati contro italiani emigrati. Com'era possibile? E poi l'America non era la realizzazione del mito della Terra Promessa? The March, del grande scrittore americano E. L. Doctorow (1931, New York) è uscito nel 2005 e ora viene proposto in Italia nell'ottima traduzione di Vincenzo Mantovani, con lo stesso titolo dell'originale: La marcia (Mondadori, 2007). Un romanzo storico e corale che va avanti per più di 360 pagine come un fiume in piena che ogni cosa trascina. Siamo nel dicembre del 1864 e il generale William Sherman marcia deciso verso la città di Savannah che verrà presa e messa a ferro e a fuoco, la stessa città che il generale conosce bene, dove ha persino amato una donna quand'era giovane.
La marcia non racconta tutta la guerra civile né teorizza sulle motivazioni che portarono a quel tragico passo. Si concentra esclusivamente sulla parte finale e descrive l'avanzata di sole 60 miglia di quei 60.000 unionisti, seguiti dagli schiavi negri nel frattempo liberati (che il generale Sherman sente come un ostacolo alle sue rapide mosse guerriere). Un esercito che si sposta dalla Georgia, attraversando le due Caroline, per battere in modo definitivo l'accanita resistenza di quello della Confederazione degli Stati Uniti d'America, ovvero delle "divise grigie" o, come venivano chiamati dagli unionisti, dei "ribelli". A guidare la spedizione è il rozzo e astuto Sherman che si porta dietro un nipote un po' grullo. Un generale che s'innamora delle belle donne e alcune riesce a portarsele a letto, anche nel tentativo di battere la depressione, perché quella che sta facendo è davvero una guerra strana: combatte nelle sue città, contro generali che hanno studiato con lui a West Point, che sono stati suoi amici e che ammira per la tenacia e il coraggio, devasta terre che sono parte del sue paese, mette a morte per rappresaglia giovani e spauriti prigionieri che parlano la sua lingua.
La marcia è un romanzo maestoso e polifonico, ricco di dettagli precisi, meticoloso nella ricostruzione storica. Dall'andamento tradizionale ma che dall'interno, nel suo farsi (nella sua marcia, aggiungerei) si trasforma e si fa romanzo esistenziale. Doctorow, come è nel suo stile, a partire dal romanzo che lo rese celebre, Ragtime (1975), forza gli argini del genere "romanzo storico": narrare di quella guerra è per lui anche porsi (e porre al lettore) la domanda a ogni pagina, a ogni storia che qui s'intreccia ad altre mille storie: "che significa oggi essere americani?", "cos'è rimasto del mito della Terra Promessa, di quegli degli ideali di giustizia e libertà nati con l'indipendenza degli Stati Uniti?". È come se gli sguardi di tutte quelle persone che partecipano alla marcia chiedessero a noi, loro discendenti, non solo se siamo consapevoli delle loro sofferenze e di quelle terre insanguinate, ma se lo siamo della nostra vita e, soprattutto, del nostro tempo.
L'ufficiale medico chirurgo Wrede Sartorius (che già appariva nel romanzo L'acquedotto di New York) nel suo primitivo carro-ambulanza cura e amputa arti a chi capita: non distingue l'appartenenza, la divisa grigia o blu, donna o uomo, negro o bianco. Si fa la fila, si soffre assieme. La scienza prova a porre rimedio alle ferite, ma quasi sempre è impotente, si fanno dei progressi per via dei tanti corpi maciullati a disposizione, ma difficilmente si salvano vite. Allora anche il bravo medico venuto dall'Europa s'ammala, anche lui è un ferito, un depresso come il generale Sherman: si chiude in sé, opera per giorni interi e si sente uno sconfitto, anche quando riesce a salvare qualcuno.
Ecco, il fiume in piena è fatto di tante di queste storie. Piccole eppure significative, umane e dure come il dolore e la violenza e la morte che dietro di sé lascia il vuoto, la solitudine, il dolore profondo e irrimediabile che conduce all'instabilità e, spesso, alla follia, al suicidio.
La marcia, anche a libro finito, segue il suo percorso, non si arresta e si fa metafora della vita, dell'umanità: il fuoco, la guerra, la speranza della pace. Le terre insanguinate sono la nostra storia e si pensa al passato, a quell'America devastata dalla guerra civile. Si medita sulle guerre successive, sugli sconvolgimenti del secolo XX, sulle guerre attuali di cui ogni tanto si parla in tivù, tra uno spot pubblicitario e in quiz televisivo miliardario. Il passato torna a vivere nel presente, in altre terre quotidianamente insanguinate: l'Iraq, la Palestina, l'Afghanistan... E quel sangue è il nostro sangue. Edgar L. Doctorow, La marcia, traduzione di Vincenzo Mantovani, Mondadori - Collana Scrittori italiani e stranieri, Milano 2007, pagg. 365, euro 16,20. |
Da La marcia
Prima di andare lassù, voglio trovare ancora una volta una fresca macchia di pini. Ordine Speciale di Sherman a se stesso: Devi recarti nella foresta e montare la tenda, e accendere il fuoco e cucinarti la cena e andare a dormire sulla nuda terra sotto le stelle e svegliarti all'alba con quegli sciocchini degli uccelli in tempo per sentire la sveglia. Poi potrai anche andare a Washington e assistere alla parata. Anche se questa marcia è finita, e finita bene, adesso, Dio mi aiuti, penso a lei con nostalgia: non per il sangue e la morte di cui è stata causa, ma per il significato che ha elargito alla terra che abbiamo calpestato, per come la marcia ha trasformato ogni campo e palude e fiume e strada in qualcosa che aveva un valore morale, mentre ora, man mano che la marcia si dissolve, così scompare anche il significato, e l'armata si sparpaglia nelle singole intenzioni della vita privata diffusa e su un terreno rimasto vuoto e diffuso esso pure, e ineffabile, ridiventato illuminato e buio, sia arido o fecondo, o burrascoso o calmo, del tutto insensibile e senza alcuno scopo suo proprio. E perché Grant, oggi, davanti alla nostra grande impresa ha quest'aria così solenne, se non perché sa che questo pianeta insensato e inumano avrà bisogno, per avere un significato, della nostra impronta guerriera? E anche perché sa che la nostra guerra civile, questa devastante manifattura della ossa dei nostri figli, non è altro che una guerra dopo una guerra, una guerra prima di una guerra. |
EDGAR LAWRENCE DOCTOROW
È nato a New York, dove tutt'ora vive, nel 1931, e come il romanziere Everett ne La città di Dio ha frequentato la scuola superiore del Bronx. Ebreo di origini russe, come Bellow. Dopo il diploma si è laureato all'università Columbia e ha svolto il servizio militare in Germania. Ha lavorato alla New American Library dal 1959 al 1964 e al Dial Press dal 1964 al 1969. Da allora ha dedicato il suo tempo alla scrittura e all'insegnamento presso la facoltà di lettere di New York, e per dieci anni ha insegnato anche all'università di Yale, a Princeton, al Sarah Lawrence College ed all'università della California. Il successo lo ha raggiungo con la pubblicazione, nel 1975, di Ragtime, romanzo-spettacolo dove personaggi storici e d'invenzione si ritrovano proiettati in una New York di celluloide. |
Opere principali
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