FILI D'AQUILONE rivista d'immagini, idee e Poesia |
Numero 11 luglio/settembre 2008 Generazioni |
PHILIP ROTH, PATRIMONIO di Alessio Brandolini |
Pubblicato negli Usa nel 1991, Patrimonio - Una storia vera, esce soltanto ora in Italia (Einaudi, 2007 - traduzione di Vincenzo Mantovani), a seguito dell’altro libro di Philip Roth, Everyman (Einaudi, 2007), che aveva visto la luce nel 2006. Pubblicazione necessaria se si tiene conto che Patrimonio è l’antecedente di Everyman e che i temi restano gli stessi: la malattia, la morte, il dolore, l’impotenza (sempre davanti al dolore e alla morte).
Il vecchio godeva di ottima salute e, prima della malattia, aveva ancora tanta voglia di vivere e di raccontare a tutti il proprio passato (ovvero quel “patrimonio” del titolo, racchiuso nei suoi ricordi, nella sua memoria, nella sua storia): com’era la città di Newark agli inizi del '900, la sua famiglia, gli emigrati dall’Europa, il mondo ebraico e le sottili discriminazioni nei luoghi di lavoro nei confronti degli ebrei, dei negri o anche dei cattolici da parte dei protestanti bianchi e potenti, le sue tante esperienze di vita, sentimentali, di lavoro.
In Patrimonio, che è un libro-memoir sul confronto tra due generazioni, tra un padre di 86 anni e un figlio di 56, con una dedica che dice “Per la nostra famiglia, i vivi e i morti”, si parla anche e spesso della maniacale abitudine di Philip di scrivere sempre tutto. Abitudine che in questo caso, vista la grave malattia del padre, al figlio sembra quasi impudica. Eppure quel vizio di prendere appunti in continuazione, nei minimi particolari, sulle cose, sui fatti ed emozioni, che si stanno vivendo, senza mai alterarle, aiuta Philip a superare quel tremendo momento, ad accostarsi di più al padre rivelandogli episodi dimenticati della propria infanzia.
Il padre è afflitto più per il proprio decadimento fisico che per la malattia, scontato preludio alla morte. La mancanza d’indipendenza lo deprime eppure non frena la sua voglia di comunicare con il figlio (accetta di firmare il testamento biologico), i nipoti, i vicini di casa. Sebbene a volte lo faccia in modo brusco. La malattia muta l’aspetto fisico e il carattere e ogni giorno si devono compiere minimi “aggiustamenti” nella considerazione di se stessi per riuscire a sopravvivere, e così devono fare gli altri, quelli che hanno a che fare con il malato.
La morte qui si fa universale, pur parlando dello stesso autore, della sua operazione al cuore, della sua invidia nei confronti del fratello maggiore che scoppia di salute, degli impulsi sessuali, ecc.
Se tutti i personaggi di Roth si sentono oppressi dalle memorie familiari, etniche e religiose e quindi lottano tenacemente per staccarsene e fondare una propria identità e una nuova generazione (più libera sebbene “sradicata” e, quindi, proprio per questo, traballante, piena di dubbi, sofferta e spesso ambigua), in Patrimonio il figlio (che si fa madre) vede nel padre morente, con la faccia deformata dalla malattia, la fine e la distruzione di tutte quelle memorie tessute in ottantasei anni di vita e d’istinto è preso dal desiderio di salvarlo o, quantomeno, di aiutarlo a resistere a vivere dignitosamente, e, con il padre, a tenere in vita proprio quelle memorie, il “patrimonio”, appunto, che un tempo si desiderava abbandonare.
Philip Roth, Patrimonio - Una storia vera, Einaudi “Supercoralli”, 2007(edizione originale 1991) - traduzione dall’inglese di Vincenzo Mantovani, pagg. 191, euro 16,50. |
da PATRIMONIO
Cinque o sei settimane dopo, quando fui di nuovo in grado di andarlo a trovare, mi sorprese ancora una volta, ma in questo caso per le scuse quasi infantili che mi fece. Non riuscivo a immaginare cosa lo angustiasse tanto, anche perché ero io stesso sbigottito dai cambiamenti che si erano verificati in lui dall’ultima volta che ero stato là. Avrei detto che era come se fosse passato un anno, se non avessi potuto dire altrettanto facilmente, guardandolo, che era una vita. Colui che aveva organizzato una festa per il novantaquattresimo compleanno di Abe era lui stesso diventato uno di quei vecchi la cui età è praticamente incalcolabile, poco più di una cosa rinsecchita con la faccia schiacciata, una benda nera su un occhio, e là seduto completamente inerte, ormai quasi irriconoscibile, anche per me. Da come se ne stava accovacciato nel suo solito posto in fondo al sofà, sembrava improbabile che fosse capace di muoversi senza che qualcuno lo tirasse su. Il dito del piede che si era dolorosamente fratturato il mese prima – aveva avuto uno svenimento nel bagno ed era caduto di nuovo – stava appena cominciando a guarire. Vidi poi che, anche con l’aiuto del suo deambulatore nuovo di zecca, poteva fare a malapena, da solo, qualche passo. Sulla credenza di fronte al sofà c’era l’ingrandimento dell’istantanea scattata cinquantadue anni prima con una macchina fotografica a cassetta sulla costa del New Jersey che anche noi, mio fratello e io, avevamo incorniciato e messo bene in vista nelle nostre case. Siamo in posa, in costume da bagno, un Roth dietro l’altro, sul prato antistante la pensione di Bradley Beach dove la nostra famiglia affittava una camera da letto con uso cucina ogni estate per un mese. È l’agosto 1937. Abbiamo quattro, nove e trentasei anni. Ci drizziamo verso il cielo formando una V, di cui i miei sandaletti sono la base appuntita e le spalle larghe di mio padre – tra le quali è perfettamente centrata la faccia furba da folletto di Sandy – le due imponenti terminazioni della lettera. Sì, quella che spicca sulla fotografia è la V di Vittoria: di Vittoria, di Vacanza, di retta e distesa Verticalità! Eccola, la linea maschile, intatta e felice, in ascesa dalla nascita alla maturità! |
PHILIP ROTH È nato a Newark, New Jersey, nel 1933, in una famiglia ebrea.
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Vedi anche, sul n. 1
Philip Roth, Il complotto contro l’America
di Alessio Brandolini