FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 11
luglio/settembre 2008

Generazioni

PADRI, FIGLI, TESTIMONI
Sulla memoria dell’olocausto nella narrativa contemporanea

di Fabio Pierangeli



«E lei in che cosa crede signor commissario?».

Non c’è dialogo. Nessuna risposta. E infatti la stanza è immersa in un buio raggelante, memore di tenebre spaventose. Un vecchio commissario malato (allegoria dell’Occidente dopo la Shoà?) è solo. Ha di fronte la morte, che tra poco lo abbraccerà.
Lunghi minuti di silenzio, attesa. Un quadro da cui, invano, il commissario attendeva salvezza, dialogo, guarda impotente la scena. Dürer, Il cavaliere, la morte, il diavolo.
L’esistenza del lucifero biblico è messa in dubbio, mentre Dio è già morto. La ferocia dell’uomo l’ha sostituita. Ecco difatti entrare di nuovo il dialogo, nelle vesti eleganti di un medico di successo, ed aprire il dialogo con una domanda bruciante.

Si chiama Emmenberger, boia nazista, che operava nei lager con sadismo, senza anestesia delle cavie umane, a cui prometteva la libertà se fossero riuscite a sopravvivere ai suoi esperimenti “scientifici” Il vecchio commissario si chiama Barlac. Sono le pagine finali del Sospetto (Dürrenmatt, 1987) dello scrittore svizzero di lingua tedesca Dürrenmatt.
Il vecchio non ha più respiro per pronunciare la sua fede nell’uomo davanti al «verbo» del criminale nazista, il medico che uccide per il puro piacere di sentirsi libero, di realizzarsi. Parole agghiaccianti per la loro realistica consequenzialità hanno preceduto una scommessa: se Bärlach sarà capace di esporre i motivi di una fede diversa dal nichilismo del terribile antagonista sarà salvo.

Silenzio e dolore. Sentimenti che hanno caratterizzato le riflessioni di alcuni intellettuali nel dopo Auschwitz.
Dolore: quello senza voce delle urla assordanti delle vittime del lager riempie la testa del commissario. E silenzio dopo aver ascoltato il boia nazista, Emmenberger, nascosto sotto le vesti di un medico apprezzato e richiesto dai ricchi, sedotti dalla sua filosofia. Ascoltiamo. Mette i brividi nella schiena, scosse di terrore trasmesse attraverso il corpo roso dal cancro del Vecchio commissario, consegnatosi quasi ingenuamente, al suo boia, solo nella sua tana, dopo averlo, per una fortuita casualità, smascherato. È il silenzio attonito dell’Occidente dopo la Shoà, stigmatizzato nell’impossibilità di scriverne?

E lei in che cosa crede signor commissario?

Domanda bruciante che si fa a se stessi di fronte alla vita, ad un certo punto di svolta, o di fronte alla morte, contando il bene e il male fatto, davanti a Dio o alla rassegnazione.
L’incarnazione del diavolo la ripropone alla sua vittima e, non ottenendo risposta, espone la sua, iniziando col riecheggiare la Scrittura, ritornello grottesco in una notte paurosa e sorda: «L’uomo, cos’è un uomo?». I versi del Salmo continuano, proponendo un’altra domanda, richiesta sublime di misericordia:
«Cos’è l’uomo perché te ne curi. Un soffio...»

Qui Dio, è uno dei motivi ricorrenti in Dürrenmatt, dagli apologhi iniziali a questi romanzi della piena maturità, sembra fuggire o perseguitare l’uomo, nel silenzio del commissario, con Emmenberger assiso sul trono del potere e della ricchezza, a stracciare con la sua ferrea logica la fede di millenni cristiani e pronto pronunciare la sua: il «credo» nella materia che autorizza il sadismo del più forte. Dürrenmatt abbandona la secchezza imperturbabile del fatto raccontato per documentare senza risparmio la persuasività di una tenebrosa filosofia, dedotta dalle estreme e plausibili conseguenze del materialismo. Lo seguiamo nei tratti salienti:

Credo nella materia, che è contemporaneamente forza e massa, un tutto non rappresentabile e insieme una sfera che si può delimitare, che si può toccare come la palla con cui giuoca un bambino, la palla su cui viviamo e sulla quale corriamo attraverso il vuoto assurdo dello spazio [...] E credo di essere una parte di questa materia, atomo, forza, massa, molecola, come lei, e che la mia esistenza mi dia il diritto di fare ciò che voglio. Sono una parte, e quindi soltanto un attimo, un caso, così come la vita, in questo mondo inaudito, non è che una delle sue incommensurabili possibilità, caso come me [...] e il senso della mia esistenza sta proprio in questo, nell’essere soltanto istante [...] È insensato credere alla materia e contemporaneamente a un umanismo, si può credere alla materia e all’io. Non esiste una giustizia - come potrebbe essere giusta la materia? -, esiste soltanto una libertà, che nessuno si è meritata - perché allora dovrebbe esistere una giustizia, e chi dovrebbe concedere la giustizia? -, una libertà che ognuno deve prendersi. La libertà è il coraggio del delitto, perché essa stessa è delitto [...] Io ho avuto il coraggio di essere me stesso e nient’altro, mi sono dato a ciò che mi rendeva libero, all’assassinio e alla tortura: perché quando uccido un altro uomo - alle sette tornerò a farlo -, quando mi pongo al di fuori di quell’ordinamento umano che la nostra debolezza ha creato, divento libero, divento un puro istante, ma quale istante! Inaudito per la sua intensità, come la materia, potente come la materia, com’essa imprevedibile: e negli urli e nel dolore che stravolgono quelle bocche spalancate, quegli occhi vitrei sui quali io mi chino, in quella carne tremante, bianca, sfinita sotto le mie lame si celebra il mio trionfo, la mia libertà, nient’altro.

Non servono commenti. Le tenebre avanzano, affascinanti e logiche. Incalzano il commissario: mi mostri la sua fede. Silenzio. Il silenzio di Dio durante e dopo i lager in quel vecchio giusto, ora malato e indifeso, solo. La vittima e il carnefice, anche se il commissario, per sua stessa ammissione, qui e nel Giudice e il suo boia, ha provato le ambiguità della giustizia, il piacere diabolico del «sospetto», arrivando ad augurarsi delitti sinistri e violenti per poter vivere un’altra avventura nel smascherarli.
Un clima che Dürrenmatt respira insieme ad una grande quantità di pensatori e artisti nell’immediato dopoguerra, basti rammentare il celebre librettino di Hans Jonas Il concetto di Dio dopo Auschwitz, e un testo altrettanto celebre, a cui umilmente mi ispiro, per l’affascinante carattere di racconto critico del suo autore, George Steiner, Morte della tragedia, degli anni Sessanta, più vicino alle nostre tematiche, visto che anche Dürrenmatt pone a tema l’impossibilità del tragico nel mondo moderno, riproponendolo, intatto, in questi episodi di memoria degli orrori nazisti.

Le ultime pagine di questa cavalcata di Steiner, esemplare per modalità stilistiche e acume critico, nelle grandi epoche del tragico da Shakespeare al dramma borghese, si concludono con un capitolo brevissimo, veramente memorabile per chi non consideri lo studio della letteratura puro esercizio formale. Dio si è allontanato dall’uomo e piange solitario in una sperduta baracca il suo dolore per la ferocia a cui ha dovuto assistere: in questo contesto di rovina, Steiner indica tre ipotesi per provare ad accennare delle risposte al quesito del titolo: è morta la tragedia?
Nella solitudine e nel silenzio del vecchio perdura un’atmosfera apocalittica con il diavolo che fa proseliti e gli uomini consegnati alla tenebre: quando Cristo tornerà sulla terra troverà ancora la fede?
I ricchi anonimi e storditi si sottopongono all’operazione senza narcosi di Emmenberger, perché quel medico gli offre una morte sontuosa, in cui ancora si possano distinguere dai poveri:

Hanno abbandonato dio e ne hanno trovato un altro. I malati si sottopongono volontariamente alla tortura, entusiasti del loro chirurgo, soltanto per continuare a vivere ancora qualche giorno, qualche minuto, per non doversi separare da ciò che amano più dell’inferno e dal paradiso, più della beatitudine e della dannazione: per non doversi separare dalla potenza e da quel mondo che l’ha concessa

Da dove verrà la salvezza? La difficoltà della risposta rimbalzerà dal vecchio commissario ai suo figli e nipoti, lungo le costole del secolo insanguinato. Qui, nel romanzo, la salvezza arriva non dalla esposizione di una fede. Viene, ma il lieto fine non è consolatorio, rinnova la lotta tra le tenebre e la luce, dove quest’ultima è allo stremo, e si lega ad un piccolo resto, come biblicamente quello di Israele, vagabondo, fuori da ogni regola e istituzione.
Si incarna in un uomo senza identità, morto per la giustizia e la società, che persegue uno scopo, un’idea, anche se, a sua volta, criminale, la vendetta privata, “faccio un mestiere sanguinoso, commissario”: scovare e uccidere i boia nazisti. Recente la pubblicazione di una biografia di Simon Wiesenthal, la cui figura ha assunto alone leggendario grazie a film e romanzi di avventure su cui potrebbe cadere l’ombra del giudizio di Barenghi che si vedrà in seguito - I ragazzi venuti dal Brasile, Dossier Odessa - e la disputa sui motivi, certo spettacolari della caccia al nazista con relativa vendetta, magari costruita su fondamenti personali. Il libro di Alan Levy Il cacciatore di nazisti, pubblicato da Mondadori nel 2006, riporta invece Wiesenthal alla realtà di grande ricercatore d’archivi, di investigatore instancabile che poi però consegnava alla polizia il compito dell’arresto, dell’ultimo atto. Si riteneva il rappresentante di tutti coloro che erano morti, in uno sterminio non riducibile ad un problema tra nazisti ed ebrei, ma da ritenere una grande tragedia umana. Fuori anche dalla legge di Cristo, ricorda, che aveva perdonato i suoi assassini sul Golgota. Si tratta di un ebreo errante, figlio di Mosé, e non di quel cristianesimo in declino, messo in ridicolo dalla filosofia di Emmenberger.

È una risposta all’insistenze del medico su una fede che contrasti la sua, dominante nel quieto vivere del mondo, radicale in lui? Forse, in quell’ uomo d’azione, fuori dal mondo, con il nome di un celebre personaggio, Gulliver, il gigante, sopravvissuto alla operazione senza narcosi di Emmenberger e ad altre cicatrici, salvatore di molti ebrei. Il Bene e il Male sono indistricabili, ha detto la Marlock, infermiera fedele al boia, e il sadico medico è ucciso dall’unico che aveva potuto usufruire del suo dono di speranza.
La salvezza viene dalla favola. Da un resto di innocenza in un involucro mostruoso. Da un incredibile solidarietà, memore di un dolore indescrivibile, in una coppia stramba e deforme. Orrore per l’estetica. Gulliver ritrova il suo lilliput, il nano, costretto a eseguire gli ordini criminali di Emmenberger, fin dai tempi del lager:

Eccoti qui; il mio scimmiottino, il mio animaletto, il mio mostriciattolo infernale [...] quante volte nelle notti insanguinate di Stutthof, ti sei rannicchiato a piangere e a guaire tra le mie braccia e ti sei addormentato, tu, l’unico compagno della mia triste anima d’ebreo.

Quel nano ha ucciso uno scrittore, altra figura memorabile del Sospetto e stava per uccidere l’amico medico di Bärlach, che aveva riconosciuto in Emmenberger il boia di Stutthof dall’unica fotografia esistente, scattata proprio da Gulliver. Che ne faremo, chiede il gigante, davanti alla commissario, dopo aver ritrovato e annientato Emmenberger. Non può esistere «giustizia ufficiale» sullo sfondo dell’immane tragedia. Lo porterà via, camminando nella via insolita e non tracciata dell’innocenza, verso chissà quale mondo, perché quel “piccolo sperma di mostro”, “dai cui occhi scuri emana la miseria di tutte le creature”, “è il solo tra noi ad essere innocente”.
Un resto di innocenza creaturale nella mostruosità: del resto Gulliver si era presentato cantando un ingenuo ritornello, la voce dell’infanzia, lo stampo archetipico delle fiabe, il bimbo che si perde nel bosco. Troverà ancora l’uscita nella tremenda notte del Male? Qualcuno lo guiderà? “Giovannino/ venne solo / dentro il bosco grande e scuro”.


La facile tentazione dell’orrore

Dal passato al presente, attraverso domande tragiche e angoscianti, a cui non dobbiamo smettere di contrapporre gesti umani creaturali, storie ed esempi di salvezza. Dai padri testimoni ai figli che devono raccogliere eredità di parole, Il sospetto, e altri romanzi e testi teatrali del grande drammaturgo svizzero, si basano su una trama avvincente comunicandogli altissime verità, costringendolo, davanti ai fatti, ad un esame di coscienza a partire dal presente.
Evitando tante considerazioni che il racconto offre di carattere etico e storico, affronteremo una tema marginale, sul ruolo della letteratura nel discorso della memoria, riandando al sentimento del tragico in ambito moderno, per non dimenticare, anche nell’esercizio umile di un “mestiere” del resto appassionante.

Proprio a partire dal silenzio del dopo Auschwitz nei primi racconti, come lo straziante Pilato, in una dimensione non dissimile a quello dei filosofi o di personalità di tradizione ebraica, come Gorge Steiner dell’apologo inserito al termine del bellissimo testo Morte della tragedia. Per Mario Barenghi, Dürrenmatt è l’ispiratore di alcuni romanzi italiani, ambientati nei campi di concentramento, tali, però, da legittimare una questione letteraria, certo secondaria rispetto al dovere della memoria nella società civile, ma non del tutto inutile: utilizzata ai fini di un plot ricco di suspense, la memoria della Shoah può risultare contraddittoria o discutibile. O addirittura oggetto di menzogna o millanteria, come nel caso, sintetizzato in un recente articolo di Claudio Magris per il “Corriere delle sera” del 21-1-2007, dello spagnolo Enric Marco, capace di costruirsi una falsa identità di reduce da Flossenburg, con il libro Memorie dall’inferno del 1978, con dentro assolute verità, anche nella ricostruzione dei particolari del lager, in cui però non era mai stato. Dell’articolo di Magris, può essere utile registrare il passaggio in cui si torna sulla difficoltà dei veri reduci a parlare dell’olocausto: «la reticenza dolorosa, la voce strozzata in gola, il disagio degli ex deportati interrogati sulla loro tragedia. Primo Levi ha detto, con tragicità divenuta carne della sua carne, che non è possibile parlare della Gorgone, perché chi è tornato non l’ha vista veramente e chi l’ha vista in faccia non è tornato», su cui ha scritto pagine intense Semprùn, e di cui, evidentemente, lo storico Benito Bermejo si è ricordato per smascherare il troppo loquace bugiardo, a cui non dispiaceva raccontare, tra l’altro, anche le partite a scacchi con le SS.
Si veda anche, nel Congedo al bel libro sempre degli anni Novanta, ma questa volta di un testimone diretto, Aldo Zargani, Per violino solo, Bologna, Il Mulino, 1995, che si fonda proprio sul motivo del passaggio ai giovani, sotto forma di lettera al nipote, anch’essa improntata alla difficoltà di raccontare (del resto Zargani pubblica il suo libro di memoria molto tardi).

Non potendo come ovvio esaurire il discorso su tale questione, scelgo alcuni esempi di romanzi italiani scritti tra il 1992 e il 1998, esemplari di altrettanti punti di vista: mostrando, in modo autobiografico, gli effetti sulle generazioni successive del dramma della Shoà, ricostruendo personaggi storici, magari, nel nostro caso, scrittori sentiti affini, con fascinazione romanzesca, puntando sulla suspense. Operazioni, la seconda e la terza, ben presenti in Dürrenmatt.
Scrive ancora Mario Barenghi, a proposito di un libro accolto con notevole favore da un’ampia fascia di lettori, La variante di Lüneburg, in un giudizio probabilmente troppo radicale: “per esemplificare il rapporto vittima carnefice, non è sfuggito alla facile tentazione di ambientare la vicenda in un lager nazista”. La sapiente capacità strutturale (almeno nei primi due testi, poi via via ripetitiva), di Maurensig acquisisce innegabilmente vigore e ritmo di solennità inoltrandosi nella tragedia, rischiando di cadere in ciò che stigmatizzava Alessandro Piperno in una intervista rilasciatami in occasione del convegno di Varsavia, ovvero un compiacimento per le azioni del Male a fini di caricare di interesse il plot narrativo.
Nel 1992, La variante di Lüneburg esordio con notevole successo di Paolo Maurensig, a cui sono seguiti con meccanismo narrativo identico, Canone inverso e diversi altri titolo di ambientazione varie, di cui L’uomo scarlatto ambientato, rinnova il tema dell’uomo “straniero” senza memoria fino al recentissimo Voklovad, inserito ancora una volta nelle vicende della Seconda Guerra, in terra polacca, ma con apparizioni e episodi improntati al fantastico di cui l’imminente invasione nazista resta sullo sfondo.

Lo scrittore di Gorizia, sostenuto da un tono epico narrativo, sia pur nel culto dell’incalzante brevitas moderna, raccoglie suggestioni dei grandi narratori ottocenteschi e, per la narrazione sul treno, e nei racconti dentro altri racconti, La sonata a Kreutzer di Tolstoj. Il Plot, raccontato da un narratore onnisciente, che lascia la parola (e il gesto conclusivo) al suo figlio adottivo, interrompendo a tratti il corso della storia e la velocità del treno in cui si sta svolgendo il dialogo chiarificatore, riprende a parlare in prima persona per dettare l’epilogo, di cui, a quel punto conosciamo già i protagonisti e i ruoli: Tabori, ebreo, Frish, nazista, entrambi campioni di scacchi, rivali per la pelle (ognuno nella vita ha un avversario irriducibile, da qualche parte, per taluni il destino decide il tragico incontro) che si ritrovano nel campo di concentramento di Bergen Belsen, a continuare la propria partita alla morte. L’ebreo, condannato per una tentata fuga, viene salvato appositamente per essere degno avversario di uno dei capi delle SS, in un crescendo narrativo insieme di orrore e di forte suggestione, in cui si scopre la posta in palio del gioco, dopo che nella prima partita il prigioniero, aveva provato a barare nel far vincere, senza farsi accorgere il rivale. Ogni partita persa, saranno uccisi dei prigionieri, in numero sempre moltiplicato: atrocemente il nazista costringe Tabori a impegnarsi allo spasimo, per evitare quelle morti. Nonostante le vittorie, dovrà vedere uccidere (questa è l’altra condanna, assistere alle esecuzioni) ben ventiquattro persone, prima che gli alleati giungano al campo, nella landa di Lüneburg. L’ossessione per gli scacchi e il ricordo bruciante della variante inventate in quelle tragiche partite, metteranno dopo vent’anni di ricerche Tabori sulle tracce di Frish, sfuggito alla giustizia ma non alla tenacia del rivale, che consegna al figlio adottivo, Hans il gesto di far fuori il rivale, diventato un insospettabile banchiere.

Il romanzo si legge di un fiato, la costruzione è serrata, con poche pause, nei momenti in cui i due narratori, padre e figlio, si passano il testimone. Si tratta certo di una ulteriore testimonianza dell’orrore, che tuttavia passa in secondo piano rispetto all’incalzare della vicenda, a cui le ultime venticinque pagine nel campo di concentramento creano un indubbio sussulto emotivo. Forse proprio nel rapporto tra Tabori e Hans è possibile vedere un monito più diretto affinché quell’orrore non si ripeta: attraverso la metafora degli scacchi e per quei momenti terribili che ha passato, l’ebreo insegna la capitale importanza dell’attenzione in ogni momento del gioco (e quindi della vita). In questo, il testo cerca l’impegno della memoria, o forse, per meglio dire, potrebbe favorire l’inclinazione a ricordare attivamente ad un lettore già in qualche modo predisposto. Difficilmente ne potrà trascinare altri alla solidarietà non superficiale. Una fantomatica macchina appartenuta al piissimo padre di Tabori, infliggeva una scossa elettrica ad ogni errore, ad ogni distrazione.

È proprio di questa attenzione che il libro, fuor di metafora, potrebbe farsi portavoce, d’altra parte il tema della vendetta personale, avvincente nella fiction, rischia di avere, nella ambientazione concentrazionale, il gusto di portare il lettore in un topos utilizzandolo come arma per sedurre il lettore con l’orrore. Non mancano riflessioni più profonde nel racconto di Tabori, proprio nella descrizione, sia pur molto sintetica, della totale perdita di identità nei lager (elemento centrale su cui la memoria deve esercitarsi, nelle mutate condizioni storiche).
Premessa la difficoltà di comporre una cronaca minuziosa di quello che è accaduto, “non riuscirei in ogni caso a esprimere quel depredamento, quel sistematico saccheggio interiore cui fummo sottoposti fin dal primo istante” (Maurensig,1992, pag. 128), Maurensig, per bocca del narratore primario descrive la parallela e contrastante ricerca dell’uomo della propria identità e insieme di negarla agli altri, in due modi opposti e complementari: nel totale isolamento o nell’angustia di una comunità umiliata e perseguita costretta in spazi insufficienti, come nel lager, dove «la personalità regredisce, allora, e si fonde in un’anima comune, istintiva, nella quale esiste solo l’impulso a ritrarsi da un dolore onnipresente». Una totale inebetudine, retta dalla convinzione che solo diventando insensibili ci si poteva salvare:

così, a un certo punto, il dolore smise di crescere, come l’acqua in un invaso che abbia raggiunto l’apertura di sfogo e il cui livello, benché alla fonte essa continui a sgorgare con veemenza, rimanga comunque identico. Anche i sentimenti di cui un tempo andavamo fieri e che credevamo di possedere in sovrabbondanza si erano ridotti a ben poca cosa. Ciò che a volte mi stupiva era che l’odio stesso si fosse esaurito, e che al suo posto prendesse lentamente forma una sorta di assurda gratitudine per quell’ombra di considerazione che la tua persona riusciva a suscitare ancora in loro, e che in premio ti dava lo scampato pericolo giornaliero.

(Maurensig,1992, pag.129)

Queste e altre non meno agghiaccianti considerazioni sullo stravolto rapporto tra vittime e carnefici, matura una conclusiva riflessione, di carattere religioso.

Quand’ero bambino, il peggior dubbio che poteva assalirmi sulla Divinità era che dietro quella maschera di severità e di saggezza che sembrava mostrarci potesse celarsi il volto di un folle, e che fosse questo il vero volto del Padre che ci aveva fatto a sua immagine e somiglianza e al quale avevamo giurato devozione eterna

(Maurensig,1992, pag.130)

Da bambino si salvava da questa terrificante immagine del Dio punitore e folle, aggrappandosi alle cose care e conosciuto, in quel mondo alieno dove era stato sovvertito ogni principio divino tutto diventata astrazione, così come l’unica cosa, allucinazione, a cui poteva aggrapparsi: “una scacchiera su cui ombre e luci si alternavano rapide ed evanescenti”.


È forse un uomo?

Non corre il rischio di sedurre tramite la rappresentazione del Male assoluto, il libro di Ugo Riccarelli, Un uomo che forse si chiamava Schulz, imperniato sulla ricostruzione della breve vita di Bruno Schulz, pittore e autore di due raccolte di racconti (raccolti in Italia da Einaudi in un unico libro, Le botteghe color cannella) e di un romanzo sul Messia andato perduto, prima della morte violenta, per mano di un capitano delle SS, Günther.
Riccarelli, scegliendo di far raccontare la vita e la propria morte da protagonista, mostra di avviarsi immediatamente sulla pista della dolente condizione ebraica nella storia passata, ponendo in esergo una frase del suo narratore: “Per tutte le persone ferite, per chi perdendo sangue attira la fama feroce dei predatori”.
L’ebreo appartiene quasi per atavico diritto di anagrafe a questa stirpe, nella sua artistica genialità, disprezzata dai potenti del mondo, ma con una potente forma di risarcimento, la capacità onirica, che accompagna Bruno fino alle soglie della morte.

Questo libro è il tentativo di ricavare le vicende di una famiglia, di una casa in provincia, non dai loro elementi reali, dagli avvenimenti, dai caratteri o dagli autentici destini, bensì ricercando, al di sopra di essi, il loro mitico contenuto, il senso definitivo di quella storia. L’autore crede che non vi sia modo di risalire alla base più profonda della biografia, alla forma definitiva del destino né per mezzo della descrizione della biografia esteriore, né per il tramite dell’analisi psicologiche, finanche giungesse al massimo in profondità. (Bruno Schulz, 2001, pag. 31)
L’unica possibilità di indagine è quella che della storia familiare ricrea un mito. Sono parole di spiegazione dello stesso autore. Non per nulla, nel bel libro di Riccarelli (specialmente nelle ultime pagine, quelle brutali della occupazione nazista dell’allora Polonia) si crea una intensa solidarietà tra zingari, nella figura dell’artista ambulante Emram, e gli ebrei, sotto la stella dell’arte, della fantasia del nomadismo, in un dialogo che percorre tutta la vita di Bruno, dalla scoperta del talento artistico e poi della scrittura fino all’epilogo,dove è costretto a vedere la barbara crocefissione dell’amico, con quel sinistro cartello che decretava la fine degli zingari, dei falsi profeti e dei deformi, resi puri dalla giustizia del bastone del Reich.
Proprio da questa famiglia di diversi, può arrivare la speranza della salvezza, può essere mantenuta la fede in quel Messia più volte evocato nel libro, con grida di forti dubbi quando cominciano ad avanzare le truppe nemiche, in una terra da sempre martoriata dalle invasione, come ad esempio quelle dei russi, all’indomani del patto di potere tra nazisti e comunisti per cui la Polonia fu invasa da questi ultimi, prima di conoscere la follia del Reich “Ecco la mia vita, il susseguirsi dei fatti distesi e legati da un filo beffardo, tanto logico da togliermi anche la disperazione” (Ugo Riccarelli, 1998, pag.99).

La prima parte del libro esplora, semplificando di molto il magma onirico e pittorico dei racconti di Schulz ambientati nella mitica bottega, (così che la figura del padre viene ritratta attraverso schegge e momenti emblematici, incapaci di darne un ritratto sia pur lontanamente in grado di richiamare i contorni della potente figura originale, sospesa tra diverse analogie: demiurgo pagano, condottiero biblico, cabalista, rabbino devoto), la possibilità di una vocazione artistica nelle brutture della storia, legata al luogo di nascita, percepito come un cordone ombelicale da cui resta difficile staccarsi, creando anche difficoltà di rapporti con chi, la fidanzata, di quell’ambiente è estraneo. È la culla dei sogni, l’ultimo baluardo alla invasiva violenza crudele.
Scrive Francesco Cataluccio nella post-fazione alla raccolta italiana dei racconti di Schulz (Schulz, 2001, pag. 392):

La fonte della fantasia visionaria di Schulz è l’affollata e disordinata bottega di stoffe del padre: un vecchietto demiurgo che sconvolge in modo imprevedibile tutte le regole della fisica e della ragione […] Metamorfosi, travestimenti, viaggi nello spazio e nel tempo (basta ad esempio, un vecchi album di francobolli), si accavallano con l’ausilio di una lingua poetica scoppiettante di metafore.

Una sorta di mitica infanzia edenica in quel giardino, quasi profezia della caduta, del baratro dell’Olocausto. Con la Seconda Guerra Mondiale il mondo reale dello scrittore viene infatti spazzato via. Anche nel caso di Riccarelli, poche pagine sono dedicate al massacro degli ebrei e all’occupazione del ghetto, ma sono ancora una volta le più autentiche, intonate ad una solennità estrema, capace di congiungersi al silenzio necessario per far parlare, nella memoria, la coscienza di ognuno.
Se Riccarelli non può raggiungere la complessità del linguaggio edenico e immaginifico del suo modello, gli rende omaggio descrivendo con commossa solennità quello che per ogni uomo rimane indicibile: la descrizione della propria morte, qui avvenuta nel modo tragico e violento di un martire di tutto il popolo e, credo, della diversità dell’arte in genere rispetto alle questioni, in genere violente, del potere.
Gli ostacoli alla divulgazione delle opere pittoriche e poi del libro di Bruno Schulz, risuonano ancora nell’emblema del diverso, stigmatizzate da Enram, facile profeta degli orrori, che di lì a poco avrebbero invaso la loro terra:

Non possono sopportare chi canta la vita, chi ha gobbe, teste deformi e ragioni incerte, chi non ha la stessa razza dei predatori, quelli che ballano e quelli che pregano il sole. Sono attirati dall’odore del sangue, quindi guai ad essere feriti, guai a ballargli accanto senza il passo deciso delle loro stesse danze.

Si avverte, nel romanzo, da questo punto in poi una luce ad illuminare in primo piano il volto delle vittime (i feriti di Enram), votati al macello, in una sorta di corale dramma sacro, dove però, come in Maurensig, in condizioni di prigionia, il ghetto praticamente chiuso, si rimette in discussione la fede religiosa: Riccarelli riporta il pensiero opposto, a cui probabilmente e per varie testimonianze, si legava il romanzo perduto di Schulz: se le persecuzioni sono così violente, il Messia è vicino, a detta dei Rabbini più fedeli e pii del ghetto ebraico di Drohobycz.
Riccarelli immagina che, come scrittore, come angelo destinato al macello, sia proprio Schulz ad “andare a vedere” se veramente il Messia (nelle vesti di alcuni uomini che preparavano la resistenza a pochi chilometri dal paese) si sia fatto carne nella lotta di quei disperati, circondati ormai dalle forze del male.
Come nella realtà storica, Schulz era al servizio del fanatico falegname austriaco Felix Landau e dunque era l’unico a poter andare a vedere senza destare sospetti.
In questa attesa millenaria dentro il momento singolo della tragedia, si svolge il suo destino di agnello sacrificale, martire, capro espiatorio nello stesso momento. Tra i dubbi di essere lui il prescelto, di avere ancora fede, se la fede ha un senso, il protagonista di Riccarelli si incammina e nella lunga via Crucis è costretto a vedere crocifisso il suo amico e solidale nell’arte Emran, come già si diceva. La sua missione è compiuta, lì fuori il Messia attende è il messaggio che porta ai compagni al suo ritorno. Ma la legge dell’uomo è implacabile, somiglia a quella del boia Emmenberger: sottratto alla morte certa per la conoscenza del tedesco e per i buoni uffici di Landau al posto di un altro ebreo, Gunter si vendica, nel rispetto della terribile matematica della merce di scambio:

Ecco il capitano Gunther che urla di fronte a me. La sua faccia è rossa di rabbia sotto il cappello nero dove Dio è con lui.
“Tu sei il giudeo di Landau”. Sì, sono io, sono un giudeo che ha perduto anche il suo nome. Un uomo che forse si chiamava Schulz. Eccomi, sono quello che Landau scambiò in un gesto con la vita di David Wlotarski che era cosa di Gunther, proprietà sua come il cane e il fucile.
“Lui ha ucciso il mio ebreo e io uccido il suo”. Ecco la giustizia davanti alla quale mi inginocchio, tornando alla fine a quattro zampe, sul mio pavimento di allora. La mia testa è pesante e gli occhi guardano gli stivali lustri. Vi scorgo graffi, linee, fregi, e poggiano su questa strada dove ci sono tutte le cose del mondo. Tutto è qui attorno, qui è l’infinita possibilità che ci è data per capire ciò che è sotto i nostri occhi. Che sforzo portare una testa così grossa, sostenere il suo peso che mi costringe a tenere lo sguardo per terra.
Ora mi drizzo, sollevo leggermente il capo fino a sentire la canna della pistola che Gunther mi appoggia alla tempia.
Ecco, questa è la mia vita.

(Riccarelli, 1998 pag. 152-153)


Pellegrinaggi

Sempre negli anni Novanta, 1997, usciva Campo del sangue, una testimonianza completamente diversa di un autore non ebreo, Eraldo Affinati, che porterà direttamente la sua testimonianza al convegno e che è ritornato recentemente, con Secoli di gioventù, su identiche tematiche, come si affacciano al presente e all’attualità, per esempio nel mondo giovanile.
Di Campo del sangue, in modo eccellente, ha discusso a Varsavia, in un convegno su Letteratura e shoà, Luciano Curreri, rimandando dunque agli Atti di quel convegno, mi limito a dire, introducendo il secondo esempio che la forma pellegrinaggio, insieme ad un coro ideale di scrittori, compagni segreti, e a volte di scolari, verso i campi di concentramento rappresenta di nuovo, dopo Campo del sangue, la forma di memoria più suggestiva e ed efficace proposta da uno scrittore indicato nel panorama italiano contemporaneo, tra gli altri, dall’autorevolezza di Giulio Ferroni (Ferroni, 2003) tra le sicure certezze di una scrittura dal carattere etico capace di sintetizzare, a mio modo di vedere, il desiderio della testimonianza (dove non secondario è il ricordo personale della fucilazione del nonno e la salvezza acciuffata dalla madre riuscita a fuggire pochi istanti prima che il treno partisse per Auschwitz), di salvaguardia della memoria in funzione dell’attualità storica, l’intento di portare un messaggio forte alle giovanissime generazioni.
Spogliandosi sia della retorica che delle scorie di odio, invidia, desiderio di facile successo, il pellegrino imbocca la strada del dialogo, attraverso la letteratura, sui grandi temi storici ed esistenziali, veicolando, con l’esempio pedagogico, raccontato con commossa partecipazione in Secoli di gioventù, esperienze di pace e solidarietà tra i popoli dalle diverse identità e religioni.

Auschwitz come luogo della sterminio dell’identità e della ricerca di questa nelle generazioni successive, torna in Lezione di tenebra, Mondadori, romanzo di esordio, nel 1997, di Helena Janeczek, che trova il suo culmine in una visita al campo di concentramento.
I genitori della protagonista erano due ebrei polacchi prossimi all’assimilazione (sintomatica l’imperfetta conoscenza della lingua yiddish), unici scampati allo sterminio delle due rispettive famiglie d’origine. Dopo la guerra la famiglia si stabilisce a Monaco, e acquista la cittadinanza tedesca, ma in particolare la madre, titolare di un negozio di moda italiano, tende a precisare di non essere tedesca, ma appunto italiana (con la convincente illustrazione del lessico familiare in uso tra la madre e la figlia, fatto di un tedesco curiosamente selettivo, di frasi e locuzioni polacche, di sparsi residui yiddish).
Il ballo tragico delle identità, prosegue con la figlia, attratta dall’Italia, dove vi giunge senza il permesso di soggiorno (da interpretare forse, oltre l’avversione burocratica, ad una ormai consolidata inclinazione alla dissimulazione, come il correlativo oggettivo dell’afasia dell’identità. Così come nel padre il cognome Janeczek era inventato, per passare indenne nelle persecuzione (come nel caso del goj pirandelliano, anche se qui in un contesto di tragedia). Non era riuscito comunque ad evitare le persecuzioni, eppure aveva continuato a festeggiare un compleanno inventato.

E non stupisce che l’acme narrativo di Lezioni di tenebra sia un pellegrinaggio nell’avita Polonia, coronata da una drammatica visita ad Auschwitz. Nella coscienza contemporanea, Auschwitz rappresenta il luogo dove l’identità - personale, nazionale, umana - viene negata: in senso letterale per alcuni, simbolicamente per tutti.

(Barenghi, 2000, pag.71)

Romanzo tutto interiorizzato nella scomposizione del tempo in grumi di autoanalisi nel rapporto difficilissimo con la madre, le cui tare, silenziosamente, diventano lezioni di tenebra dell’incomunicabilità per la figlia, che prova a capire quanto le proprie paure derivino da quella tragica esperienza materna, direttamente o indirettamente. I correlativi oggettivi di questa fatica di Sisifo sono molteplici, a partire dal correlativo burocratico dell’identità: la storia del passaporto e dei permessi di soggiorno di Helena, che vengono letti attraverso il tentativo fallito della madre di sottrarsi alla deportazione con documenti falsi. La fame patita, con la tenace volontà di non essere sopraffatta, si ripercuote nella ossessione di lei il pane, e soprattutto le fragilità della figlia sono come perennemente messe sotto accusa proprio da quella volontà di resistere senza la quale la stessa Helena non sarebbe nata, in una domanda implicita, realmente posta da altri sopravvissuti ai figli: e io sarei in vita per assistere alle vostre debolezze, alla mancanza di rispetto?
Nonostante la profondità di questi interrogativi, il meccanismo narrativo e tortuoso, spesso pesante in questa analisi, incapace, a mio avviso, di spingersi oltre sensazioni troppo personali. I brani dei ricordi della madre, evidenziati dal corsivo, destano immediata sensazioni di tragedia, limpida, senza il bisogno, come è ovvio, di tanti ragionamenti. Il ritorno ad Auschwitz, in compagnia della figlia, con pagine lente, efficaci e realistiche, risulta senz’altro, come si diceva il momento più riuscito del romanzo.

Credo che sia, allora, anche il racconto, difficile di come sia possibile esprimere e ricordare l’Olocausto, farne memoria da tramandare ai figli, in modo che, tuttavia, non ne vengano sopraffatti. C’è difatti il bisogno del pianto di Helena al campo quando deve pronunciare la preghiera per i morti e nemmeno sa i nomi degli zii morti, per quel senso tra paura, pudore e indifferenza che l’aveva sempre bloccata davanti ai silenzi dei genitori.
Dopo il viaggio, per poche altre pagine, dopo che il pozzo della memoria ricostruisce il muro di incomunicabilità, il romanzo torna a correre su e giù nel tempo con sua andamento analitico dell’interiorità, rivelando che Helena è stata cresciuta al 90% da una nutrice. Proprio per seguitare, o vendicare, la distanza freudiana dalla madre, le ultime pagine sono il racconto d’amore con la tata Cilly, dentro il rimorso di averla abbandonata senza più farsi sentire. In definitiva, la scrittrice, compiuto il liberante viaggio ad Auschwitz, non riuscirà, nella vita di sempre ad allontanare l’insicurezza indirettamente determinata dall’esperienza della madre, ma sarà cosciente di poterla chiamare per nome, anche con nome di persone vicine in quel massacro scomparse.

Resta a futura memoria quel pianto della generazione che non ha vissuto direttamente l’Olocausto ed è chiamata a fare memoria verso i propri figli, non come una imposizione, ma come monito morale in grado, nel silenzio, di opporre alla nefanda violenza l’integralità dell’esperienza umana di pace e solidarietà.


BIBLIOGRAFIA
(in ordine di apparizione nel testo)

  • Friedrich Dürrenmatt, Il sospetto (Milano, Feltrinelli, 1987 - traduzione italiana di Enrico Filippini);
  • Mario Barenghi, in AAVV, Tirature ’94 ,Milano, Il Saggiatore, 1994;
  • Mario Barenghi, Ricordi e sogni. Romanzo memoriale: le ambiguità dell’autobiografismo, in AAVV, Tirature 2000, Milano, Il Saggiatore, 2000;
  • Paolo Maurensig, La variante di Lüneburg, Milano, Mondadori, 1992;
  • Bruno Schulz, Le botteghe color cannella, Torino, Einaudi, 2001 - traduzione italiana di Andrzej Zieli?ski;
  • Ugo Riccarelli, Un uomo che forse si chiamava Schulz, Milano, Piemme, 1998;
  • Eraldo Affinati, Campo del sangue, Milano, Mondadori, 1997;
  • Giulio Ferroni, Scenari di fine secolo. Quindici anni di narrativa, in Storia della letteratura italiana, Cecchi, Sapegno, Milano, Garzanti, 2003;
  • Helena Janeczek, Lezione di tenebra, Milano, Mondadori, 1997.


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