FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 9
gennaio/marzo 2008

Luoghi narrati

I LUOGHI DI RAFAEL COURTOISIE

di Silvia Faoro



Rafael Courtoisie è nato a Montevideo nel 1958 ed è uno degli scrittori uruguaiani più conosciuti a livello internazionale. È professore di narrativa e sceneggiatura all'Università Cattolica dell'Uruguay e insegna Letteratura Ispanoamericana presso il Centro di formazione per professori dell'Uruguay. Instancabile narratore e poeta, esempio di scrittore versatile, poliedrico, che sa spaziare con assoluta disinvoltura e maestria attraverso diversi generi letterari, arrivando a proporre opere per così dire multiple, spesso impossibili da classificare all'interno della sfera della poesia o della narrativa. Courtoisie si esprime con un linguaggio ricercato, che non vuol dire difficile, contorto o impenetrabile ma, al contrario, limpido, con immagini trasparenti e immediate e per questo acute e pungenti.

Parte del suo lavoro è stato tradotto in inglese, francese, rumeno e altre lingue. In Italia troviamo pubblicati Vite di Cani (Oedipus, 2000), a metà tra libro di racconti e romanzo frammentario, Sfregi (Avagliano, 2004), romanzo breve che nella pubblicazione italiana è seguito da undici racconti giovanili pubblicati in diverse raccolte, tra il 1990 e il 1995, e, da ultimo, Facce sconosciute, (Le Lettere, 2005, a cura di Martha Canfield) che ricostruisce con un ritmo incalzante quasi da sceneggiatura cinematografica, di brevi e secchi paragrafi, uno degli episodi più tragici della storia recente dell'Uruguay: l'attacco e la presa della piccola città di Salvo (nella realtà Pando) da parte dei Tapurì (i guerriglieri Tupamaros), e il propagarsi della violenza alla vicina capitale Montenegro (nella realtà Montevideo).
Su Facce sconosciute si rimanda alla recensione apparsa sul numero 3 di Fili d'aquilone.

Il racconto qui proposto - dopo L'elefante di Ambato apparso sempre sul numero 3 di Fili d'aquilone - Sapori del paese, è tratto dalla raccolta omonima (Sabores del país, Buenos Aires, Planeta, 2006), ed è un esplicito richiamo al romanzo Facce sconosciute. Vi ritroviamo, infatti, Montenegro/Montevideo e Salvo/Pando, città narrate in un momento drammatico e cruciale della loro storia, attraverso i ricordi nostalgici e amari di un bambino.
Con una narrazione dallo stile asciutto, riviviamo i tempi d'oro e il successivo declino di una città. Rivediamo la Montevideo degli uffici, la stessa città raccontata da Mario Benedetti in La tregua, sommersa nella burocrazia e soffocata dalla routine, ma che ancora, forse per colpa della memoria, si lascia guardare con nostalgia.


Montevideo

Diceva García Márquez in L'amore ai tempi del colera, "La memoria del cuore elimina i cattivi ricordi ed esalta quelli buoni"; ma certe cose non si possono dimenticare: è vivissimo il ricordo dell'agnello sgozzato a Salvo scelto, non a caso, poiché simbolo di innocenza e purezza, per ricordarci che nessuno ha scampo. Vivissimo è anche il ricordo di quei corpi straziati dalle bombe; chiara e netta l'immagine degli animali scappati dallo zoo, a causa di un errore umano, feriti a morte da una tigre che vaga libera per la città. Ancor più nitida è la fotografia del Che, fatto a pezzi come una preda da un feroce animale, qual è l'uomo. E l'omelette surprise, da scoprire come gli interni del Museo di Storia Naturale, si sgretola nel piatto nel momento in cui l'innocente sicurezza dell'infanzia inizia a vacillare.


Rafael Courtoisie
Sapori del paese


Il postmoderno è già diventato preantico.

JOSÉ EMILIO PACHECO

Voglio solo interrogarmi sulla mia condizione umana,
e rispondere con alcune scoperte che,
contenendo ancora una potenziale carica di vita,
rivelano un particolare legame con il mondo.

ALFREDO BRYCE ECHENIQUE

L'omelette surprise ha una base di gelato, sopra c'è del pandispagna e in cima meringa, ovvero chiara d'uovo montata a neve e cotta al forno. Sembra una cordigliera in miniatura, piena di sapore. Il forno dev'essere regolato a una temperatura sufficientemente alta da dorare e indurire la meringa, ma non abbastanza da sciogliere completamente il gelato.

La servono al ristorante Dell'Aquila, posto sul lato destro del vecchio edificio del teatro Solís (ormai non esiste più).

Sull'altro lato, nell'ala dello stesso edificio, simmetrica alla maestosa entrata del teatro, si trova il Museo di Storia Naturale. Oltre al noto coccodrillo essiccato di sei metri, lì si conserva una mummia egizia, autentica: si tratta di un giovane sui vent'anni, se si tolgono i tremila dopo la morte. È un familiare del faraone, forse un guerriero. La mummia ha la dentatura completa. I funzionari del museo, tolsero le bende del viso e lasciarono in esposizione le mandibole, che si vedono intatte.

La targhetta informativa al lato del sarcofago spiega il metodo della tassidermia e alcune delle principali credenze religiose dell'antico Egitto. Ho visto la mummia mille volte. Sorrideva sempre.

Il coccodrillo del Museo di Storia Naturale aveva i denti cariati. A pochi metri dalla mummia giaceva la corazza del famoso armadillo detto "carretta", ormai sdentato, enorme, di due metri e mezzo di diametro.

Era un antico abitante del paese preistorico.

Mio padre era avvocato, pertanto doveva frequentare la Città Vecchia1, i tribunali, i dintorni del teatro Solís. A quel tempo, avevamo l'abitudine di pranzare al Dell'Aquila. L'omelette surprise era il mio piatto preferito. La contraddizione pura: usciva dal forno bollente e aveva il cuore gelato.

Di crema e cioccolato.

Papà aveva lo studio in via 25 de Mayo. La mamma, anche lei avvocato, lo aiutava.

Arrivai a detestare la Città Vecchia, le banche, i tribunali, la Porta della Cittadella, perennemente aperta.

Arrivai a detestare, per noia, tutti, e ogni singola formalità. Le pratiche che mio padre o i suoi collaboratori dovevano svolgere in quella piccola città, soffocata dalle carte assurde della burocrazia giuridica. La città impiegatizia, convulsa e stretta, piena di corte viuzze che finiscono nel mare. Ora è tutto peggiorato.

Mi piaceva andare a pranzare in quel ristorante.

Mi piaceva vedere la montagna calda e gelata nel vassoio. L'omelette surprise, la dolce cordigliera con le sue scure cime di meringa tostata, altissime, gotiche. Sembrava una cattedrale di Gaudí. Mi piaceva sentire i miei genitori parlare di una causa, di una pratica, del modo in cui andava affrontato un certo caso. Di diritto e giurisprudenza.

Di tanto in tanto un cliente dello studio di mio padre ci accompagnava a pranzo.

Papà prendeva carne arrosto, legumi o pesce, a seconda di quello che gli consigliava il maître. La mamma prendeva consommé. Io non sapevo mai decidermi. Mi perdevo a leggere un menu tanto lungo. Mi piaceva soprattutto scorrere i piatti col nome francese: La gratinée aigle, La marinière de moules à la crème, Les escargots de Bourgogne, Le filet de boeuf grillé béarnaise; ovvero: zuppa gratinata, cozze, lumache e carne alla brace.

Capivo che in quel posto si potevano ordinare piatti molto elaborati, squisiti, particolari. Mi piaceva vedere che con uno sguardo al menu si poteva girare il mondo, dalle cose più semplici alle più complicate, ma alla fine, quasi sempre, mi fermavo al solito. La prassi prevedeva che dopo aver domandato al cameriere come veniva preparato e presentato Le saumon norvégien fumé au bois de hêtre, finissi per escludere le specialità della cucina internazionale e ordinare sempre carne al sangue, quasi cruda, e patate fritte.

Il cameriere si avvicinava con una bottiglia di vino. La stappava a lato del tavolo. Ne versava un poco nel bicchiere di papà. Papà valutava il colore attraverso il cristallo del calice, guardava aderire la trasparenza o scivolare lentamente, come se il vino fosse vivo, quella che lui chiamava lacrima. Annusava, con la punta del naso. Assaggiava. Assentiva o no, a seconda del vino. Se diceva di sì, il cameriere ce ne serviva a tutti. Se diceva di no, il cameriere prendeva il calice usato e tornava con una bottiglia nuova.

Papà quasi sempre diceva di sì, poiché il vino era buono. A volte, reggeva il tappo di sughero tra due dita, lo avvicinava al viso con molta dolcezza e ne sentiva l'aroma. Poi faceva lo stesso col calice. Per assaggiare, si bagnava appena le labbra. Dopo di che bevevamo tutti.

Le preferenze di papà in quanto a vini, si dirigevano verso la gamma dei rossi. Andava dal Cabernet Sauvignon (con l'uccellagione) al Tannat del paese per le carni rosse.

Qualche volta provavamo un Chenin. Il Chenin, come dicevano i miei genitori, si abbinava perfettamente alla torta di frutti di mare dell'Aigle.

Al ristorante Dell'Aquila facevano una torta di frutti di mare favolosa, con un sapore insieme delicato e intenso. Sembrava che tutto l'oceano fosse contenuto in quel piatto, tra due strati di pasta sfoglia. Il sapore del mare. Mio padre parlava con il maître e la chiedeva solo quando gliela consigliava.

La mamma ordinava il consommé.

La mummia del museo accanto al ristorante era morta. L'ovvietà, però, richiedeva una controprova. Un giorno alzai il coperchio di vetro e pizzicai le bende. Era carne secca. Dura come la pietra.

Il guardiano del museo mi disse che aveva diecimila anni, ma io avevo letto sulla targhetta che ne aveva tremila. La differenza dipendeva senz'altro da un errore rimediabile. La guardia mi disse che la mummia era Tutankamon, ma io avevo letto a lato della teca che si trattava di Amenofis Settimo, un parente indiretto del faraone, di rango e gerarchia molto inferiori.

In quel periodo, più o meno nel 1969, la città era scossa dalla guerriglia urbana. Su un muro a fianco del teatro Solís, avevano scritto:

IL CHE VIVE

In seguito, in una rivista, Life, vidi la stessa iscrizione dipinta sulla facciata di una piccola piramide, a Città del Messico. Pensai alla mummia del Museo di Storia Naturale. La mummia morta, dopo tremila anni, aveva i denti intatti. Sorrideva. La fessura formata dalle labbra gli aveva dato quell'espressione. La mummia poteva essere un avventuriero o un militare dell'antico Egitto, sepolto nella piramide vicino al suo re. Le foto di Life mostravano l'uomo morto due anni prima. Barbuto, disteso sopra una piccola lettiga da campo, legato alla parte inferiore di un elicottero. La mummia del Museo di Storia Naturale era minuta, rimpicciolita dalla secchezza dei secoli. L'uomo barbuto, disteso, nella foto sulla rivista sembrava corpulento, addormentato. La mummia, imberbe, aveva gli occhi chiusi.

Chiesi a papà chi era il Che. Papà non rispose. Chiesi alla mamma chi era il Che. Le lettere scritte col catrame sul muro a fianco del teatro Solís, erano di tratto considerevole e grandezza sufficiente perché mi azzardassi a ripetere la domanda. La mamma mi disse che il Che era un uomo sbagliato, un idealista che era morto.

In quel periodo della mia infanzia, il Che era su tutti i muri. Ovvero, tutti i muri sfoggiavano la scritta «Che». Grandi lettere di catrame. Lettere enormi.

Si vendevano magliette con il volto di quel signore che era stato medico.

La mamma mi parlò di Batlle.2

Io già lo conoscevo dai libri di storia. Batlle portava un cappotto pesante, pensavo. Batlle aveva costruito il paese.

Un giorno lessi qualcosa che mi lasciò sconcertato. Anche Batlle era stato un idealista. La mia mamma mi disse che una cosa era Batlle e un'altra cosa era il Che.

Non vendevano magliette col volto di Batlle. Mio zio, fratello di mia madre, possedeva un grande ritratto del vecchio capo di stato, del vecchio presidente del paese, di don Pepe. Era talmente grande che sembrava un monumento, racchiudeva dentro di sé la grandezza.

Un giorno, lo zio mi portò a vedere la tomba di uno dei Batlle al Cimitero Centrale, a sud della città, di fronte al mare. Era un grande manto di marmo nero, cupo e liscio. Qualcuno aveva deposto un unico garofano rosso che, naufrago, galleggiava al centro del marmo.

Mio zio mi mostrò il Pantheon Nazionale che si erge nel centro dell'antico cimitero. Bisogna scendere una piccola gradinata per vedere le urne con i resti dei Padri della Patria. Una grande inferriata chiusa ci impedì il passaggio. Mio zio mi spiegò che l'urna con i resti di Artigas3, i militari, se l'erano portata in una caserma, perché i guerriglieri non la rubassero. Era l'urna che avevano portato dal Paraguay.

Uscendo, su uno dei corridoi laterali del cimitero, lo zio si fermò.

- Ti faccio vedere una cosa, disse.

Si avvicinò ad una tomba bianca, screpolata. Lì, c'era un busto di pietra.

- È Leandro Gómez, mi disse. - Lo fucilarono dopo l'Assedio di Paysandú. L'uomo resistette fino all'ultimo, era uno coraggioso. Un avversario, ma coraggioso.

Molti anni dopo, senza il plotone di esecuzione, i militari aprirono la tomba e trasportarono l'urna con i resti, sopra una campagnola verde, fino a Paysandú (Pablo Neruda nomina un commerciante di Paysandú nella sua raccolta La Rosa Separada, ma non ha niente a che fare con Leandro Gómez).

La mummia del Museo di Storia Naturale si trovava a ventimila chilometri di distanza dal suo luogo di origine. Ad alcune migliaia di miglia da Il Cairo. Ma sorrideva.

Montenegro, la capitale del mio paese, è molto distante da Il Cairo.

La rivista Life, diceva che gli avevano amputato le mani e parte degli avambracci al cadavere del Che. Il resto l'avevano seppellito in una fossa introvabile, in Bolivia.

L'hanno scoperta da poco.

Batlle aveva governato due volte il paese. L'ho saputo da un libro di storia. La mamma ammirava Batlle. Batlle appariva in quello che restava del quotidiano El Día durante la dittatura («dittatura» con «d» minuscola; solamente Dio sta bene con la maiuscola).

Batlle appariva sul quotidiano a figura intera, abbigliato come per un inverno di mille anni. La mamma mi spiegò qualcosa su Batlle.

Un gruppo guerrigliero aveva tentato di occupare una città vicino a Montenegro, chiamata Salvo.

Mia nonna materna era di Salvo. Mia madre era nata a Salvo.

Salvo era una città piccola, a trenta chilometri dalla capitale. Una piccola città industriale circondata da splendide fattorie. La nonna, mia madre, e i suoi fratelli conoscevano molto bene quella zona agricola. In una di quelle fattorie, quando avevo quattro anni, vidi per la prima volta sgozzare un agnello. Gli legarono le zampe posteriori e lo appesero a un albero. Una volta sollevato e ben fissato, gli aprirono la gola con un coltello nero con una lama di venti centimetri. Schizzò un fiotto di sangue. Dopo di che lo scuoiarono, e l'animale si muoveva, forse per un riflesso incondizionato, per tutto il tempo che durò la procedura. Si percepiva che c'era qualcosa di vivo in lui, un tremore che continuò fino a quando non gli tolsero completamente la pelle e le interiora. Le interiora erano una sacca fumante e verdognola. La estrassero intera dalla pancia aperta dell'animale, senza romperla né aprirla e la gettarono ai cani.

Dall'espressione della mamma seppi che i membri del gruppo guerrigliero, chiunque essi fossero, avevano sbagliato.

Era una stupidaggine o un errore occupare Salvo.

Un altro giorno, la televisione e il giornale mostrarono vari corpi. La mamma pianse. Papà disse che era una follia. Vicino casa collocarono una bomba.

Mamma parlò al telefono con un'amica, funzionario del governo, perché le raccontasse della situazione. Papà brontolò.

I militari erano usciti dalle caserme.

Camminavano avanti e indietro per le vie, nervosi.

Un altro giorno i quotidiani ritraevano tutti i morti. Foto di corpi di guerriglieri fatti a pezzi. Feci delle domande alla mamma. Lei non disse niente. Papà non c'era. La mamma accese la radio. Nel giornale radio dissero che per un disguido, mentre i guardiani del parco zoologico guardavano per televisione le immagini di Salvo, le porte di alcune gabbie erano rimaste aperte. Tutti gli uccelli erano fuggiti. Nei dintorni dello zoo, in cima agli alberi, il canto era assordante. Due o tre esemplari rari, uccelli multicolore, erano stati ritrovati sul sentiero del parco ridotti ad un ammasso di carne e piume, fatti a pezzi. Le giraffe erano scappate. Uno scimpanzé gravemente ferito, con la testa quasi strappata da un artiglio, agonizzava a pochi isolati dallo zoo.

Una tigre vagava libera per la città.

Quello stesso giorno il maître si avvicinò al nostro tavolo per consigliarci la carne, il tenero filetto al sangue. Dopo, l'omelette surprise si sgretolò, crollò all'improvviso, senza far rumore, solo, sulla propria debole base, sciolta dal calore dell'aria.

Non toccai cibo durante il pranzo. Il mio piatto rimase pulito.

A lato, sopra la tavola, l'immenso vassoio pieno di sangue.


1Così viene chiamato il centro storico della città fondata dagli spagnoli all'inizio del Settecento.

2Il presidente José Batlle y Ordóñez (1903-1907, 1911-1915), uno dei più prestigiosi rappresentanti del radicalismo latinoamericano, realizzò una vera trasformazione dell'Uruguay in senso moderno, portando avanti una legislazione sociale, la separazione della chiesa dallo stato, l'istruzione elementare obbligatoria, pubblica e gratuita, la legge del divorzio, ecc.

3José G. Artigas è stato il primo capo rivoluzionario uruguaiano, considerato padre della patria. Nel 1811, seguito da migliaia di contadini, insorse contro le forze realiste asserragliate a Montevideo, originando un movimento autonomista che, dopo drammatiche sconfitte, portò infine alla dichiarazione di indipendenza della nuova repubblica (1830).


Traduzione dallo spagnolo di Silvia Faoro.

Un sincero grazie a Martha Canfield per l'aiuto nella traduzione e i riferimenti storici.

 

silvia78faoro@gmail.com