Il romanzo Le morte è uscito in Messico nel 1977 (Las muertas) e pubblicato in Italia nel 1979 da La Rosa Editore, poi - con il titolo Il caso delle donne morte - da Einaudi nel 1989 e, infine, dalla casa editrice palermitana Sellerio nel 2004, nell'impeccabile cura e traduzione di Angelo Morino.
Jorge Ibargüengoitia è nato a Guanajuato (capitale della regione di Guanajuato), in Messico il 28 gennaio 1928 (non 1922 come sta scritto nel risvolto di copertina nell'edizione Sellerio) e deceduto il 27 novembre 1983 in un incidente aereo avvenuto nei pressi di Madrid, in un volo diretto in Colombia, lo stesso dove morirono il critico uruguayano Ángel Rama (1926-1983) e lo scrittore peruviano Manuel Scorza (1928-1983).
Autore molto noto nell'America latina per i testi teatrali (L'attentato, 1963), gli articoli giornalistici (poi raccolti in Viaggi nell'America ignota, 1972, Istruzioni per vivere in Messico, 1990) e i romanzi a sfondo giallo e parodico, ma sempre di critica sociale: parlano di fatti reali pur inventando personaggi e situazioni, e per questo tanto interesse avevano suscitato in un lettore acuto come Leonardo Sciascia: I lampi di agosto (1965, sua prima opera narrativa che ottenne, come inedito, il Premio "Casa de las Américas" nel 1964, con Italo Calvino tra i giurati - Vallecchi, 1966 - Sellerio, 2002), Ammazzate il leone (1969, che narra le vicende di un attentato contro un tiranno di un'isola immaginaria dei Caraibi - Sellerio, 2005), Queste rovine che vedi (1975), Due delitti (1979, Sellerio, 1999), I passi di López (1982) e il libro di racconti La legge di Erode e altri racconti (1967).
Ne Le morte tutto ha inizio da un fatto di cronaca nera realmente accaduto negli anni '50: la morte di alcune donne che lavoravano in un bordello. La vicenda è narrata in uno stile spoglio, impersonale e oggettivo, e quando non si è sicuri di un fatto viene usato il condizionale. Nel tentativo di riportare le voci, le testimonianze, le congetture sui fatti accaduti nel modo più preciso possibile. Anche se poi l'autore in una nota che fa de epigrafe al libro dichiara: "Alcuni fatti qui narrati sono reali. Tutti i personaggi sono immaginari". Quindi: né sentimento, né giudizio da parte del narratore che più del giornalista sembra assumere il ruolo del notaio, del cancelliere pignolo e preciso, e contrapporsi alla prosa visionaria e suggestiva del suo connazionale Juan Rulfo (1918-1986) e al suo capolavoro Pedro Páramo (1955), una delle opere esemplari del cosiddetto "realismo magico", di cui Rulfo fu uno dei maggiori esponenti.
Arcángela è la tenutaria, con la sorella Serafina, di un prosperoso e famoso bordello che a un certo punto, e in modo del tutto inaspettato, scivola di colpo nella miseria per via d'una legge che la obbliga a chiudere quella fiorente attività. E la miseria velocemente conduce all'indifferenza della crudeltà: il bordello si trasforma in un carcere, in un tetro luogo di torture.
Eppure, nonostante tutto, le due sorelle Baladro seguitano a non sembrare delle aguzzine: conservano una loro eleganza, uno stile riflessivo e attento ai particolari, a una apparente imparzialità. Quando fanno del male non ne godono, ma lo fanno e basta, senza rimorsi, come se quella fosse l'unica scelta possibile. Rispondono al loro istinto di padrone che ci tengono a mantenere lo status sociale (o quel pochissimo che ormai resta) così faticosamente raggiunto, e poi perduto alla chiusura obbligata del bordello.
Talvolta tutto sembra una recita, tragicamente comica in quell'aggrapparsi a un tenore di vita ormai lontano, sorpassato. C'e qualcosa di grottesco, di così violento che vengono in mente i quadri di Botero sulla violenza, quelli donati dall'autore colombiano al Museo Nazionale di Bogotà, e lì tuttora esposte.
Quelle donne, le ex prostitute recluse nella grande casa, un tempo locale di lusso, erano state la fonte di ricchezza delle sorelle Baladro e ora non possono più lavorare, produrre denaro. Eppure le proprietarie del bordello si ostinano a tenerle segregate, a trattarle come schiave, con la speranza di un cambio di scena, di un aiuto imprevisto, magari di un loro affezionato cliente o corrompendo qualche politico.
È la miseria a spingerle alla crudeltà, anche la rozzezza culturale e la voglia di sentirsi diverse, un gradino al di sopra delle altre donne. Un po' come capita al Bedoya, amante di Serafina, che agisce da macho, da soldato che non deve mai arretrate. Né di fronte al rischio, né di fronte alla crudeltà, all'efferato delitto. Folgorante l'incipit:
È possibile immaginarli: tutti e quattro portano occhiali scuri, l'Escalera guida curvo sul volante, accanto a lui c'è il Prode Nicolás che legge un giornaletto, sul sedile posteriore, la donna guarda dal finestrino e il capitano Bedoya dormicchia ciondolando il capo.
L'auto blu cobalto sale stracca su per il dosso del Perro. E' una soleggiata mattina di gennaio. Non si vede una nuvola. Il fumo delle case galleggia sulla pianura. La strada è lunga, all'inizio dritta, ma passato il dosso serpeggia per la sierra di Güemes, tra i fichi d'India.
Sembrerà paradossale ma Le morte è un romanzo molto vivo: pieno di odori e di suoni che provengono dal Messico e personaggi netti, unici e autentici. Una storia di sangue e crudeltà, asciutta eppure estesa, dettagliata e alla fine ci si domanda se l'impulso primordiale dell'uomo sia il male o il bene, la morte o la vita.
Un romanzo che può apparire freddo per la mancanza di ogni giudizio ma è proprio questa la sua forza e la sua originalità: Jorge Ibargüengoitia riesce a descrivere alla perfezione un pezzo di società messicana marginale, un ambiente povero e duro ed è come assistere al disfacimento di un mondo, sociale e culturale, che però resiste e lotta con tenacia (che può trasformarsi in crudeltà) solo perché fortemente radicato alla sua terra.
Jorge Ibargüengoitia, Le morte (Sellerio editore, La memoria 610, Palermo 2004, traduzione dallo spagnolo di Angelo Morino, pp. 210, euro 10,00)
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