FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 5
gennaio/marzo 2007

Alterazioni climatiche

CONFESSIONI DI UN POETA: LÊDO IVO

di Vera Lúcia de Oliveira


Alla soglia dei suoi vivaci ottantatre anni, quando ha da poco pubblicato la monumentale Poesia Completa 1940-2004 (Topbooks, Rio de Janeiro, 2004) che traccia un percorso di più di sessanta anni di letteratura che lo colloca fra i nomi più alti della poesia brasiliana, Lêdo Ivo ci regala questo inatteso Requiem (2006), un compatto libro di poesia (ancora inedito in Brasile) che si legge tutto d'un fiato, con lo stupore, la luminosità e il dolore che porta con sé la grande lirica.

Ci troviamo di fronte a una sorta di sunto poetico e filosofico, un condensato forte e compatto di tutta la sua opera, un toccare quel filo imperscrutabile dell'universo per il quale passa una densa e segreta linfa e che solo pochi riescono a sfiorare.
Ripercorrendo la sua storia, nel libro Confissões de um poeta, pubblicato per la prima volta nel 1976, Lêdo Ivo, riferendosi alla sua Maceió e allo stato di Alagoas, afferma:

Chi nasce qui respira dall'infanzia un aroma di zucchero, vento, pesce e mare, sente che l'oceano vicino incolla in tutti gli esseri e cose un trasparente francobollo azzurro. (...) Sull'alto della collina, il bianco faro della mia terra illuminerà la notte, quando questa verrà a nascondere i ragni e i millepiedi, e i sogni e i segreti degli uomini. Luce bianca. Eclisse. Luce incarnata. I fasci del faro rischiarano i tetti anneriti dalle piogge, le strade in salita, i palmizi che cantano e danzano nella notte lunga, i mangues1 dove acqua e terra si dissolvono, gli acagiù in fiore. Nell'universo rotondo, fra i goiamuns2 nascosti nel fango nero delle lagune e le costellazioni, fra i fuochi di Santelmo e i canti dei galli, il faro di Maceió guida le navi e gli uomini.3

Tutto questo universo, in cui mare e terra si mescolano e si dissolvono come all'inizio della creazione, luogo legato alle sue origini, alla sua infanzia, alla storia della propria famiglia, ritorna in questo breve poema del regresso, del riflusso, delle domande senza risposta che il poeta ha riproposto lungo tutta vita, delle risposte che non chiariscono e non soddisfano l'attesa dolorosa degli uomini. Di fronte all'arsenale marcito e alle navi lasciate a languire nel porto, il poeta si ritrova a fissare l'oceano sconfinato, a dialogare con la notte e con il giorno, a piangere il dolore di essere creatura mortale con il desiderio struggente di eternità, con il bisogno di strappare alla morte gli esseri e i luoghi cari, con l'impotenza e la fragilità che inesorabilmente ci segnano.

Non si può leggere questo libro senza commozione e dolore e, paradossalmente, senza la sensazione di gioia e bellezza che dona sempre la grande poesia, anche quando parla di sofferenza e di morte.
Se le domande metafisiche e cosmiche che pone Lêdo Ivo al mare, al vento e alla notte non hanno risposte, esse sono necessarie e trovano giustificazione in se stesse e nel fatto che l'uomo è un essere pensante, una coscienza viva e vigile anche quando cammina verso il nulla. Il poeta afferma, infatti, che "A eternidade passa como o vento. / Só o tempo é eterno" ["L'eternità passa come il vento. / Solo il tempo è eterno"], rovesciando l'assioma legato ai nostri concetti di tempo e di eternità per evidenziare che l'eternità non attraversa il nostro corpo, non la conosciamo, la coscienza non la contiene. Conteniamo il tempo e il tempo vissuto e assorbito verticalmente è l'unica cosa che di eterno abbiamo.

Il magma incandescente di questo lirismo plasma la sua forma torrenziale, talvolta ossessiva nelle immagini ricorrenti, nei versi lunghi che rischiano di togliere il fiato al lettore che volesse seguirne l'ampiezza. Il linguaggio, incantatorio ed elegiaco, ricco di pathos drammatico, mantiene il tono colloquiale, come nella migliore tradizione poetica brasiliana. La musica è di un'armonia increspata come le onde del mare, scandita dalle tante domande: "Onde estão os loucos de minha infância, / os loucos que cantavam e dançavam no hospício devastado pelo sol? / Onde estão os meus navios e a luz do farol?" ["Dove sono i pazzi della mia infanzia, / i pazzi che cantavano e danzavano nel manicomio devastato dal sole? / Dove sono le mie navi e la luce del faro?"].

La vita è vista come un cammino, un percorso breve e intenso, alla fine del quale egli si ritrova con meno certezze di quando lo aveva iniziato. E se il mare e la notte sembrano assorbire le nostre singole voci, la poesia rimane come lampo di coscienza diffuso, testimonianza di amore, profezia della notte che, anziché piegarci, svela alla fine che la vita va vissuta.
Questa è poesia elegiaca, ma, allo stesso tempo, limpida e luminosa, poesia dell'amore dichiarato all'amata perduta, saluto al tempo condiviso con i cari, recupero della memoria, bilancio dei passi e dei luoghi visitati, abbraccio passionale all'esistenza e alle parole che la rendono vera, congedo dal'nfanzia, pianto sommesso e preghiera. Il compianto per la morte dell'amata si sposa qui alla rievocazione dell'amore umano intenso e struggente, come è proprio dell'elegia. In effetti, nel rielaborare un lutto, Lêdo Ivo celebra anche, ostinatamente, la vita condivisa con pienezza, riafferma sempre e comunque la dolcezza e il miracolo degli affetti, 'ntensità del sentimento di unione che stabilisce con gli esseri e le cose, anche le più piccole e apparentemente insignificanti.

Il requiem di Lêdo Ivo somiglia stranamente alle beatitudini evangeliche, vi riecheggia il "Discorso della montagna" (Matteo, 5, 3-11; Luca, 6, 20-22), nella struttura e nel senso più profondo di discorso rivoluzionario che rovescia massime consolidate:

    Felizes os que partem.
    Não os que chegam aos portos apodrecidos.
    Felizes os que partem e não regressam jamais.
    (...)
    Felizes os que moram nas ilhas periféricas
    e são rodeados ao cair da noite por uma nuvem de tanajuras.
    Felizes os sedentários que um dia foram embora.

    Felici quelli che partono.
    Non quelli che arrivano ai porti marciti.
    Felici quelli che partono e non ritornano più.
    (...)
    Felici quelli che abitano nelle isole periferiche
    e sono circondati al calar del sole da una nuvola di formiche alate.
    Felici i sedentari che un giorno se ne andarono.

Afferma il poeta e critico Ivan Junqueira che, "al contrario dei molti poeti la cui produzione decade nella vecchiaia, quella di Lêdo Ivo cresce ancora di più"4, aggiungendo che se la paragonassimo al vino migliore, che quanto più invecchia tanto più diventa pregiato, il concetto che ne ricaveremmo è quello della "maturità del maturo, e cioè del sapore concentrato di un'uva passita che ancora conserva la freschezza dell'uva. Un frutto cristallizzato. Quasi un diamante."5 Nel leggere e nel fare con il poeta questo viscerale percorso nelle parole e nella vita, ci sentiamo anche noi felizes, annoverati cioè nelle sue stravaganti e poetiche beatitudini, noi a cui è stato dato, come una prodigiosa offerta, questo suo maturo e denso frutto di poesia.



1Litorali bassi e fangosi in cui crescono grandi alberi, chiamati anch'essi mangues.
2Varietà di granchio brasiliano di colore azzurro.
3Lêdo Ivo, Confissões de um poeta, Sergasa, Maceió, 1995, 3ª ed., p. 25. Trad. mia.
4Ivan Junqueira, "Quem tem medo de Lêdo Ivo", in Lêdo Ivo, Poesia Completa 1940-2004, Topbooks, Rio de Janeiro, 2004, pp. 25-43 (41).
5Ivi.




DUE POESIE DI LÊDO IVO

Le poesie che seguono sono inedite e fanno parte del libro Requiem, che uscirà in Brasile nel 2007. Vengono pubblicate in anteprima su "Fili d'aquilone" per gentile concessione dell'autore.


    ***
Sempre amei o dia que nasce. A proa do navio,
a claridade que avança entre as sombras esparsas,
o longo murmúrio da vida nas estações ferroviárias.

Uma fogueira de palavras irrompe na praça.
Um negro trem lacustre atravessa a cidade.
O dia derrama as sílabas do mundo nas calçadas.

Sempre amei o trovão que dilacera a tarde,
a ferrugem e a chuva, os amores que acabam
e a fumaça que sobre dos pneus esfolados.

Os dias idiotas passam como as pontes.
As estátuas voam como pássaros.
As portas mais fechadas se abrem como lábios.

Sempre amei o que passa: os táxis lotados,
os apitos dos trens, as nuvens desgarradas
e as folhas arrastadas pelo vento.

O granizo fustiga as pirâmides da morte.
A porta do bordel estala no mormaço.
Um poente amarelo rodeia o estaleiro.

Sempre amei a sucata, a forma destruída
pelo tempo tornado maresia.
Sempre amei o gorgulho escondido no silo.

O rumor da torrente faz a noite mais clara
e desfralda entre as pedras os belos estandartes
de um sonho que acompanha um sol desmantelado.

E sempre amei o amor, que é como as alcachofras,
algo que se desfolha, algo que esconde
um verde coração indesfolhável.

No estaleiro de São Miguel dos Campos
o mar devolve ao mar o espólio reclamado
das vértebras perdidas dos navios.

Sempre amei o trovão que desperta os que dormem,
a porta de minha casa aberta à trovoada,
o dia que perde as escamas como um peixe.

Sempre amei o nevoeiro que esconde as paisagens,
manequins, espantalhos, espelhos quebrados.
Sempre amei a ferrugem, a erosão e a sucata.

Os contêineres são depositados no porão dos navios como cestos de flores.
A linha que separa a terra do mar fulgura como um raio.
No imenso balcão do mundo há dissídio e comércio.

Sempre amei os pilares que sustentam as pontes,
os navios que partem, os faróis e os guindastes.
Sempre amei o Oceano e os sinais semafóricos.

Onde vivem os mortos viverei algum dia,
nesse lugar nenhum que os deuses temporários
reservaram a cinzas que são nada e ninguém.

E sempre amei a neve que cai entre os plátanos
que bordejam o Sena, enquanto os barcos
passam lentos e brancos sob as pontes.

O claro formigueiro de águas claras
rebenta na manhã sob o preclaro
céu azul sustentado pelos pássaros.

Sempre amei os espelhos das barbearias,
as barracas de flores, as bancas de jornais,
os legumes nas gôndolas dos supermercados.

O dia é uma moeda oxidada pelas quimeras.
E as pontes estremecem à passagem dos ônibus empoeirados
que efetuam as migrações da miséria e da morte.

Sempre amei escutar os rumores do mundo:
o zumbido dourado da abelha no esterco,
o dia estrepitoso e o vento vagabundo.

Os navios apitam. É hora de partir.
Toda porta fechada é um porto a ser aberto
pelo vento triunfante que dilacera o oceano.

Sempre amei a luz do sol estropiado
que se aninha nos mangues, a luz fluvial do dia
sobre as dunas que à noite caminham no horizonte.

Quem tem a chave dos sonhos abre qualquer porta.
Quem navega dormindo chega a qualquer píer
e nos navios vê a abolição da morte.

E sempre ouvi a voz que me chama no escuro,
a voz do outro lado, vinda dos outros mundos
que se desfazem no ar, lambidos pela bruma.

Sempre amei esta voz que é uma voz nenhuma,
um sussurro do nada, a cinza estremecida,
uma areia que range na praia infindável.

A folhagem da noite me cobre quando durmo,
mortalha de um sol puro que sempre busca a treva,
murmúrio de uma fonte, pedra branca de um muro.

E sempre amei o tempo e a intempérie,
o cupim que prolifera na nudez da matéria,
nas pálidas colônias da noite depredada.

Quis a fortuna que, no perdimento,
eu sempre me encontrasse, mesmo estando
no naufrágio que é sempre obra do vento.

Sempre amei o que vive na água negra dos mangues.
Sempre amei o que nasce. Sempre amei o que morre
quando a noite desaba sobre as casas dos homens.


il chiarore che avanza fra le ombre sparse,
il lungo mormorio della vita nelle stazioni ferroviarie.

Un falò di parole irrompe nella piazza.
Un nero treno lacustre attraversa la città.
Il giorno rovescia le sillabe del mondo sui marciapiedi.

Ho sempre amato il tuono che squarcia il pomeriggio,
la ruggine e la pioggia, gli amori che finiscono
e il fumo che sale dalle gomme consumate.

I giorni idioti passano come i ponti.
Le statue volano come uccelli.
Le porte più chiuse si aprono come labbra.

Ho sempre amato quel che passa: i taxi affollati,
i fischi dei treni, le nuvole smarrite
e le foglie trascinate dal vento.

La grandine fustiga le piramidi della morte.
La porta del bordello stride nella canicola.
Un crepuscolo giallo circonda l'arsenale.

Ho sempre amato il rottame, la forma distrutta
dal tempo divenuto brezza marina.
Ho sempre amato il curculione nascosto nel silo.

Il rumore del torrente rende più chiara la notte
e dispiega fra le pietre i bei stendardi
di un sogno che accompagna un sole smantellato.

E ho sempre amato l'amore, che è come i carciofi,
qualcosa che si sfoglia, qualcosa che nasconde
un verde cuore impenetrabile.

Nell'arsenale di São Miguel dos Campos
il mare restituisce al mare il bottino reclamato
dalle vertebre perdute delle navi.

Ho sempre amato il tuono che risveglia coloro che dormono,
la porta della mia casa aperta al temporale,
il giorno che perde le squame come un pesce.

Ho sempre amato la nebbia fitta che nasconde i paesaggi,
i manichini, gli spaventapasseri, gli specchi infranti.
Ho sempre amato la ruggine, l'erosione e la scoria.

I container sono depositati nella stiva delle navi come cesti di fiori
La linea che separa la terra dal mare sfavilla come un lampo.
Nel'mmenso bancone del mondo c'è dissidio e commercio.

Ho sempre amato i pilastri che sorreggono i ponti,
le navi che partono, i fari e gli argani.
Ho sempre amato l'Oceano e i segnali luminosi.

Dove vivono i morti anch'io vivrò un giorno,
in questo nessun luogo che gli dei passeggeri
serbano alle ceneri che sono niente e nessuno.

Ho sempre amato la neve che cade sui platani
che orlano la Senna, mentre le barche
passano lente e bianche sotto i ponti.

Il chiaro formicaio di acque limpide
scoppia nel mattino sotto il preclaro
cielo azzurro sostenuto dagli uccelli.

Ho sempre amato gli specchi delle barberie,
i chioschi di fiori, le edicole di giornali,
i legumi sugli scaffali dei supermercati.

Il giorno è una moneta ossidata dalle chimere.
E i ponti tremano al passaggio delle corriere polverose
che effettuano le migrazioni della miseria e della morte.

Ho sempre amato ascoltare i rumori del mondo:
il ronzio dorato dell'ape sullo sterco,
il giorno strepitoso e il vento vagabondo.

Le navi fischiano. È ora di partire.
Ogni porta chiusa è un porto da aprire
dal vento trionfante che squarcia l'oceano.

Ho sempre amato la luce del sole storpio
che si annida nelle mangrovie, la luce fluviale del giorno
sulle dune che di notte camminano all'orizzonte.

Chi ha la chiave dei sogni apre qualunque porta.
Chi naviga dormendo arriva in qualunque molo
e nelle navi vede l'abolizione della morte.

E ho sempre udito la voce che mi chiama nel buio,
la voce dall'altro lato, giunta da altri mondi
che si disfanno nell'aria, lambiti dalla bruma.

Ho sempre amato questa voce che nemmeno è voce,
un sussurro del nulla, la cenere commossa,
una sabbia che stride nella spiaggia sconfinata.

Il fogliame nella notte mi copre quando dormo,
lenzuolo funebre di un sole puro che cerca sempre la tenebra,
mormorio di una fonte, pietra bianca di un muro.

E ho sempre amato il tempo e le intemperie,
la termite che prolifera nella nudità della materia,
nelle pallide colonie della notte depredata.

La fortuna ha voluto che, nel perdermi,
sempre mi ritrovassi, anche stando
nel naufragio che è sempre opera del vento.

Ho sempre amato ciò che vive nell'acqua nera delle mangrovie.
Ho sempre amato ciò che nasce. Ho sempre amato ciò che muore
quando la notte crolla sopra le case degli uomini.

    ***
As luzes do aeroporto correm como arlequins.
Nas passagens de nível, silvam os trens de carga
levando os manequins que abastecem os sonhos.

E eu sou o que parte. E fica. E voa. E permanece.
Uma luz de farol divide o universo.
Minha mão busca no escuro um corpo nupcial.

Lambo o sal sigiloso das conchas entreabertas,
o silêncio detido entre raízes e lianas
abre uma trilha solar num aqueduto.

O mormaço sustenta a claridade.
O dia é um relâmpago espatifado.
Um cone de sombra me esconde de mim mesmo.

E o dia passa como uma formiga. Os dias passam
como a brisa entre velas desfraldadas.
Os dias passam e trazem sempre a morte.

Digo adeus a mim mesmo na véspera da treva.
E agora a noite desce. Traz a causa perdida.
A minha mão não toca mais o corpo bem-amado.

Um sol negro ilumina a noite de minha alma
mas eu quero o outro sol, a grande claridade
do dia material que se abre como uma porta.

Só me sinto completo com a minha sombra
e a máscara de tudo o que deixei de ser.
Meu sol inabitável nasce em qualquer horizonte.

Só ao vento que sopra confio o meu espanto.
Preciso ser exato e impenetrável
para ser entendido pelo dia que passa.

Um vôo de gavião acompanha os meus passos
em direção à vida, em direção à morte,
sob a indiferença de um céu imperecível.

Vejo a morte escondida num raio de sol:
a sobra do arrebol, ninho de nenhum pássaro
e a abolição do vôo sobre qualquer páramo.


Le luci dell'aeroporto corrono come arlecchini.
Nei passaggi a livello, fischiano i treni merci
portando i manichini che riforniscono i sogni.

E io sono colui che parte. E resta. E vola. E rimane.
Una luce di faro divide l'universo.
La mia mano cerca nel buio un corpo nuziale.

Lecco il sale segreto delle conchiglie socchiuse,
il silenzio racchiuso fra radici e liane
apre un sentiero solare in un acquedotto.

La canicola sorregge il chiarore.
Il giorno è un lampo frantumato.
Un cono d'ombra mi nasconde da me stesso.

E il giorno passa come una formica. I giorni passano
come la brezza fra le vele spiegate.
I giorni passano e portano sempre la morte.

Dico addio a me stesso alla vigilia della tenebra.
E ora la notte scende. Porta la causa persa.
La mia mano non tocca più il corpo diletto.

Un sole nero illumina la notte della mia anima
ma io voglio l'altro sole, il grande chiarore
del giorno materiale che si apre come una porta.

Solo con la mia ombra mi sento completo
e la maschera di tutto ciò che ho smesso di essere.
Il mio sole inabitabile nasce in qualunque orizzonte.

Solo al vento che soffia confido il mio stupore.
Ho bisogno di essere esatto e impenetrabile
per essere compreso dal giorno che passa.

Un volo di sparviero accompagna i miei passi
in direzione della vita, in direzione della morte,
sotto 'ndifferenza di un cielo imperituro.

Vedo la morte nascosta in un raggio di sole:
i resti dell'aurora, nido di nessun uccello
l'abolizione del volo su ogni pianura deserta.

 

Traduzione di Vera Lúcia de Oliveira




Lêdo Ivo LÊDO IVO

È nato a Maceió, Alagoas, nel 1924. Ha avuto la sua prima formazione letteraria a Recife e dal 1943 vive a Rio de Janeiro. Il suo esordio letterario è del 1944, con As imaginações (Le immaginazioni), libro di poesie al quale seguirono altre ventidue raccolte. Oltre alla poesia, Lêdo Ivo si dedica anche alla prosa. Il suo primo romanzo, As alianças (Le alleanze), del 1947, conquista un importante premio nazionale. Pubblica altri quattro romanzi, una raccolta di racconti, Use a passagem subterrânea (Utilizzare il sottopassaggio), e due testi per l'infanzia, O menino da noite (Il bambino della notte) e O canário azul (Il canarino azzurro). Tra i saggi figurano Ladrão de flor (Ladro di fiori), O universo poético de Raul Pompéia (L'universo poetico di Raul Pompéia), Poesia observada (Poesia osservata), Teoria e celebração (Teoria e celebrazione), A ética da aventura (L'etica dell'avventura) e A república de desilusão (La repubblica della delusione). Come memorialista, ha pubblicato Confissões de um poeta (Confessioni di un poeta) e O aluno relapso (L'alunno svogliato). Lêdo Ivo ha ricevuto numerosi e importanti premi. Nel 1990 è stato eletto Intellettuale dell'anno in Brasile. Le sue opere di poesia e prosa sono state tradotte e pubblicate in vari paesi, fra i quali Inghilterra, Danimarca, Stati Uniti, Messico, Perù, Spagna, Olanda e Venezuela.
Di Lêdo Ivo è stata pubblicata in Italia l'antologia Illuminazioni, a cura di Vera Lúcia de Oliveira (Multimedia Edizioni, Salerno, 2001).

 

velucia@tin.it



Vedi anche:
Breve antologia poetica di Lêdo Ivo
a cura di Vera Lúcia de Oliveira
(numero 2, apr/giu 2006)