FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 4
ottobre/dicembre 2006

Sacro e profano

RITRATTI TRA TENEBRA E LUCE
Tracce di religiosità nella poesia contemporanea, giovane e meno giovane.
Con qualche escluso che è bene riabilitare

di Marco Testi


I. Religiosità in poesia - e, attento, lettore! - non poesia religiosa: bella scommessa, se si tiene conto che chi scrive è convinto della inestricabilità delle parti liriche, perché quello poetico è da intendere come nucleo abissalmente caldo, tale da fondere intimamente ogni elemento. E poi il carico da novanta: la poesia d'oggi, in un momento in cui perfino i tuttologi hanno rinunciato a dare definizioni a base di suffissi e prefissi. Ma forse è per questo. Perché di fronte alla gran confusione dopo l'assopimento, che non vuol dire fine, delle politiche pensate in grande, si riaprono gli spazi privati della ricerca di senso, e della strada verso l'Altro.
In effetti, gli anni post-bellici avevano segnato la messa in mora da parte accademica e critica militante di elementi a alto profilo spirituale, come Luigi Fallacara, Girolamo Comi, Carlo Betocchi, Umberto Marvardi, Giorgio Vigolo. Anzi, a questi, alcuni dei quali erano stati non lontanissimi da alcune suggestioni ermetizzanti, era stato opposto proprio l'ermetismo come unica possibilità di parlare una lingua non immediatamente politica strictu sensu, in virtù dei nomi archetipi (Ungaretti), di quelli che si erano impegnati anche nel politico universalmente riconosciuti come poeti sic et simpliciter. Ma anche quelli non immediatamente in linea con lo spiritualismo cristiano, e fuori dalle congreghe culturali, come Arturo Onofri, non hanno avuto vita facile.
Con la caduta dei muri sono caduti anche gli anatemi e le divisioni tribali? È ancora presto per dirlo, ma l'incarico di monitorare presenze spiritualistiche deve essere condotto cum grano salis: che non si vada a vedere se ci sono preghiere, confessioni di fede, riferimenti diretti, insomma che non ci sia materiale esplicitato, troppo, che non ha a che fare direttamente con la poesia. Lo abbiamo detto in apertura: non si può estrapolare la religiosità come se fosse oro in mezzo alla sabbia dei fiumi, è un lavoro che va bene per i cercatori del prezioso metallo, perché la fede (o il dubbio, non sono mai nettamente contrapposti) fa parte genetica del corpo poetico e non è una aggiunta posticcia.
Oltre tutto si rischierebbe di scambiare la voce della scrittura poetica, che parla nei versi, per la razionale ideologia personale dell'autore, ed è errore fatale. Un conto è la poesia, ciò che d'inconsapevole e di trance precipita nel testo, un conto è il pensiero lucido, "diurno", direbbe Gilbert Durand, dell'autore empirico, quello in carne ed ossa, che sta dall'altra parte del foglio. Tra i due c'è un oceano di complicità, non detto, lapsus, rimosso, ritrosia, coraggio che non è possibile razionalizzare, ma sappiamo solo che il momento programmatico non coincide mai con quello finale. Di mezzo c'è la poesia, appunto.

II. Così, se guardiamo ai nostri giorni, scopriamo che c'è finalmente la libertà di familiarizzare con poeti che hanno pian piano inclinato verso una visione latu sensu religiosa del cosmo, come Marino Piazzolla, e constatiamo che grandi nomi come quello di Maria Luisa Spaziani in alcune prove, soprattutto quella del recentissimo La luna è già alta, ampliano la ricerca del sacro senza corteggiamenti o compiacimenti.
Prendiamo il caso del primo, pugliese di origine ma cosmopolita per cultura e vicende personali, scomparso nel 1985: su di lui hanno scritto fior d'autori: Macrì, De Libero, Betocchi, Petrucciani, Barberi Squarotti, Bellezza, Caproni, e molti, molti altri, e le sue sorti si sono un po' risollevate grazie all'attività di un centro culturale a lui ispirato e alla riedizione da parte di Fermenti di Con gli occhi e per sempre, raccolta poetica uscita per la prima volta nel 1979. Si ha la sensazione, a leggerlo oggi, che in questa poesia le forze telluriche e celesti, la cultura occidentale e orientale siano entrati in rotta di incontro e superamento in un canto incessante che parla la lingua della creazione intera anche nell'anima di chi non ha ancora la pace promessa un tempo:

    Solo come il vuoto
    in una notte oscura ove a tastoni
    l'anima si cerca e si racconta
    in cerca di un nuovo abisso.

Eppure, al di fuori delle attività di nicchia di cui si diceva, pochi hanno parlato di lui. Ma intanto ecco un primo elemento di confronto con la nostra tesi iniziale: questa di Piazzolla è una poesia religiosa senza proclami, intimamente coesa nel verso, tutt'uno con esso, senza bisogno di riferimenti confessionali diretti e insieme visionaria e profetica:

    Io vedrò l'anima partire in uno squillo
    Che il gallo prima che la notte esploda
    Coi raggi della luna
    inciderà sui veli dell'aurora
    Verranno i morti a compormi le braccia
    (...)
    A darmi l'acqua che non cola
    Per la mia sera eterna.

Anche quando la poesia è programmaticamente religiosa, tutta interna ad un discorso cristiano e cattolico, come nel caso di Umberto Marvardi, essa non è mai manifesto o esibizione, ma sofferenza, tensione spasmodica verso un altrove agognato ma di cui talvolta si dispera per lontananza e il senso inesorabile di inanità umana. Marvardi ha rappresentato l'esplicito cristiano nel momento in cui dalle esperienze di "Frontespizio" e di "Campo di Marte" si passava al confronto con un mondo radicalmente cambiato dopo rivelazioni che coinvolgevano tutti i fronti e tutte le speranze palingenetiche del secolo appena trascorso. Ma c'è da intendersi su questo esplicito: non vuol dire aggiunta o canto pieno e trionfante, ma anzi macerazione, ricerca della luce attraverso il buio di un'esistenza sentita come esilio. Come in Ungaretti, di cui era amico e sodale, la vita è fiumana contorta, cammino intralciato, verso la grande foce. Più volte nella poesia del poeta di Senigallia ritornano i tòpoi dell'acqua, del fiume, dell'isola, del lago in una parola irta, contorta, dura, a prova della disperante difficoltà della via. L'assunzione della fede non elude perciò la presenza della densità terrena: "La morte nella carne che s'aggruma/ melma livida e nuda,/ nubi grigiastre ed esodi d'uccelli", richiama a mo' di summa l'intera stagione ermetica, ma con l'accentuazione costante della luce dopo la tempesta:

    Dopo la morte c'è un attimo ancora
    di vita,
    appena un respiro
    dalla smarrita
    alba all'aurora,
    un soffio già fermo,
    un ansito eterno.

III. Il compianto Giovanni Raboni non ha mai dimenticato la dimensione umana, popolare, pre-urbana affissata nella memoria una volta per tutte. Il realismo non è stato dimenticato da questo poeta, e questo gli impedisce di concepire un verso spostato sul versante teologico e confessionale, bensì teso all'ascolto delle voci all'interno dell'anomia, dell'apparente non senso dell'esistenza, dell'ingombrante peso della materia: "Svegliami, ti prego, succede ancora/ d'implorare in un sogno a questa tenera/ età, aiutami, fa che non sia vera/ l'oscena materia del buio". Raboni ha rappresentato con una certa precisione che cosa si intendeva per religiosità poetica all'inizio del nostro discorso: il divino e la sua ricerca sono dentro le cose, non apposti come un di più o come un teorema teologico. Già fin dai tempi degli inediti di Gesta romanorum (1951-54) la strada era avviata, tutta ben dentro il mondo, come d'altra parte andava facendo il pur diversissimo Pier Paolo Pasolini, come se il mondo fosse una domanda mai davvero pronunziata, una ferita mai guarita, una condanna, a volte, un'offerta di sé, altre. I personaggi di quella lontana raccolta erano già fin dal nome figure della storia cristiana: Nello stupendo "Rimorso di san Giovanni Battista" è confessata la colpa di aver contribuito ad un sacrificio umano, con l'annunzio del Cristo. Ecco l'umano, il dolore, la disperazione che gli uomini dell'evangelo hanno attraversato, prima di divenire personaggi troppo citati per essere ancora vivi nella loro carne. La capacità icastica di Raboni è evidente in un titolo tra i più affascinanti del nostro panorama poetico, "Personaggio di sfondo di una crocifissione", sempre nella raccolta citata, fulminante impressione di perifericità esistenziale, di lateralità "borghese", di impossibilità eroica. Raboni tornerà alle figure cristiane quando, in anni recenti, rifarà la strada a ritroso, ritrovandosi nelle medesime scene di morte e destino con Rappresentazione della croce, andato in scena nel 2000. Versi, certamente, ma attirati dalla fortissima energia del Cristo, che abbandonano il loro carattere individuale e privato (ecco il tentativo di uscire dalla dimensione sociologica e psicologica del "borghese" che esprime i suoi bisogni e i suoi tic in un universo reificato) per sfociare finalmente nel grande mare dell'essere, qui rappresentato dalle scritture e dai personaggi della Passione. Viene da pensare, ma con grandi distinguo, al Rebora che settant'anni prima aveva scelto la poesia dei piccoli atti cultuali con l'ingresso in convento. Nessun legame nel vissuto né nello specifico poetico, si intenda bene, ma ecco che, come accade a pochi altri, oltre ai nomi citati, a Manzoni, Ungaretti, Marvardi per fare qualche ulteriore nome, vi è un ritorno alla scena archetipa del cristianesimo, quella in cui il dolore e i dubbi del momento si fondono con la speranza nella Vita.
Un discorso a parte merita padre David Maria Turoldo: troppo facile riportare in questa temperie un religioso, si dirà. In realtà la poesia del compianto frate servita è quanto di più lontano ci sia da una tranquilla accettazione della esistenza di un dio, ma macerazione e richiesta di avere un barlume di speranza e soprattutto di capacità d'amare, il che mi sembra in linea con un discorso che non è sulla poesia religiosa, ma sulla religiosità in poesia: "Chiedo che tu mi salvi/ che non mi lasci per sempre/ soggiacere a questa/ quotidiana morte". Fortissima in lui anche la capacità di guardare alla divinità, sulle orme di Francesco e Iacopone, come ad una folle scommessa contro il perbenismo dei falsi credenti:

    Così ti penso: un Dio
    sempre esposto a follie,
    ad accontentarsi di come siamo,
    a perdere sempre
    (Ultime poesie, 1999)

IV. Una formidabile energia religiosa, immersa nei grumi popolari e contadini è presente in Albino Pierro, che riesce a fondere nel dialetto lucano i due poli dell'amore umano e divino in poche parole di assoluta pregnanza (purtroppo, come tutte le altre liriche dialettali riportate in questo lavoro dobbiamo riportare la traduzione in italiano per esigenze di spazio): "Ma ancora non lo sapevo/ che tu mi avresti parlato/ di Dio" o, "Solo la Madonna lo sa come te/ se il bene che ci volevamo/ era grande" (I 'nnammurète, 1963).
Ma come dimenticare il Biagio Marin che, in una dimensione temporale incorrotta "Di là dal sole è sempre notte/ piena di stelle silenziose" vede navigare "Dio su quelle rotte/creando senza pace nuove vite" (El vento de l'eterno se fa teso, 1973) dove si nota quel "senza pace" da attribuire sia alla creazione incessante di un dio sia alla vita tribolata della gente.
La capacità di risolvere il segreto della molteplicità in ondate di canto sommesso, affidandosi per di più ad una lingua emarginata come il dialetto è riconosciuta anche a Raffaello Baldini, in grado di pronunciare fede e danza, dolore e accettazione, paesanità e sguardo sull'oltre attraverso un pedale incredibilmente armonioso nella sua semplicità e scorrevolezza, come in questo "A n'è so" ("Non lo so") dalla raccolta Ad nòta uscita nel 1995: "Invece io è un po' che prego, di notte,/(...) prego, e mi pare di sentire dentro, non lo so,/ come se non fossi solo, non so, come se,/ sono cose che è difficile, dico così,/ ma non so nemmeno se ci credo o non ci credo". Come si vede il colloquiale è in simbiosi felice con la misura del verso, come in quell'impressionante:

    Non dico il paradiso, che sarebbe troppo,
    muori e vai dritto in paradiso, dài, su
    non si può, è una pretesa,
    il purgatorio, ecco,
    a me mi andrebbe da signore

summa di affabile e sorridente, direi gestuale monologo tutto interno alla voce popolare, divenuto parte di essa pur conservando la ferita originaria della diversità culturale.
E poiché di lingua legata ai luoghi si parla ora, non è possibile tacere del dialetto siciliano di Santo Calì che ripropone la vera testimonianza del dolore nella vita di ogni giorno e la ricerca dell'autenticità del mito in quanto incarnato nel presente: "E tu/ mi presentasti al tempio di notte,/ chè di giorno il sole era malato" (da Lamentu cubbu, 1991), o dell'abbandono al messaggio cristiano nel dialetto romagnolo di Glauco Cosmi, che in traduzione suona "Poi ha detto piangendo a Gesù Cristo:/ Se sei stato tu ti ringrazio, hai ragione,/ meglio con i debiti che andare in galera" da A voi ragnè se mand, 1995.
Sempre romagnolo l'apporto linguistico di un altro poeta, Gianni Fucci, che confessa d'aver "capito da dove vengono i segni" che lo spingono a credere che la vita "non sia soltanto un brivido che si perde" (Elbar dla memoria, 1989). Da non dimenticare anche gli apporti veneti, uno veronese di Gio Ferri, in "L'uomo che prega", un uomo "Rivolto al suo Dio che pare che sia in quella stanza e/ pare anche che lo ascolti invisibile, senza alcuna possanza" (Inventa lengua, 1999) e l'altro veneziano di Eugenio Tomiolo che si fa portavoce di un cristianesimo arcaico, con accenti francescani: "Fammi passare Signor la tua passerella/ Fammi Signore portare leggero/ leggero Signore il sacco mio" (Oseo gemo, 1984).

V. Da un poeta come Davide Rondoni, classe 1964, attivo nella cultura cristiana, c'è da attendersi la prova dell'autenticità del paradosso poetico che abbiamo istituito, vale a dire la lontananza dalla disposizione fideistica e teologica e l'adesione sofferta alla contraddizione del mondo. E si capisce che anche i giovani accettano la sfida e il rischio, e che semmai la fede della domenica di pasqua non può essere realizzata senza la morte del venerdì, e che la croce non è più solo un segno d'adorazione di una religione, ma il tessuto sanguigno, "le croci nel sangue", la respirazione di chi ha detto un sì mai scontato all'altro: "Richiama con mille nomi/ quei persi,/ non lasciarli andare...". Ecco uno dei punti essenziali ma non esclusivi dell'appartenenza al messaggio cristiano in Rondoni, vale a dire la ricerca oltre sé, che pone in qualsiasi piccola e apparentemente inutile traccia di presenze umane la pietra angolare del discorso e del fare. Fino a diventare segno quotidiano, flash domestico improvviso, senza falsi ritegni, perché alla fine discorso e Parola coincidono proprio nelle cose ultime della quotidianità, come l'attenzione verso il figlio: "Tienilo, tienilo sempre/ nelle prime cinque sei volte che chiama/ non fargli incrinare la voce/ non si senta mai perso, tra dieci/ o mille anni,/ solo/ nell'universo". Dimenticare sé attraverso il frutto di quel sé.
Altra poesia in grado di giungere alle profondità in cui fede, esistenza terrena, materia e anima divengono accettazione danzante di un tutto donato in Mariangela Gualtieri, che anche se con un "cuore eremita", fa i conti con questo mondo, in cui ancora si può "cantare/ a gola stesa l'ultimo del paradiso" e "seminare parole beate" e in cui la notte è ancora dimensione di riflessione e di preghiera non indotta dalla paura ma dalla pace del silenzio: "Adesso fa notte - fa preghiera./ Apre le serrature del silenzio". Resta fortissimo il nodo inestricabile della fede in quella vita, denunciata in "Venerdì santo" (che come le altre citazioni è nell'ultimo volume Senza polvere senza peso, 2006) come abbandono ad Uno che "scassinerà la morte, quella/ fortezza buia" e che "sposterà il pietrone ridendo", in grado di cucire "le ferite senza ago solo andando/ in un punto del respiro". Nella Gualtieri la tensione verso il sacrificio del dio e dell'uomo resta incardinata in un verso cantato, circolare, abbandonato, che mi pare uno dei più probanti esempi di quella naturale omogeneità (ma attraversata dai segni del dolore e della tristezza) tra religiosità e poesia.
Anche la lirica di un altro scrittore che fa dell'impegno cristiano un motivo di vita, Andrea Giuseppe Graziano, è fatta di religiosità immersa nelle lacerazioni, che non sono solo quelle simboliche, ma quelle patite in corpore vili, come la perdita di un figlio. Mai la religiosità diviene in Graziano squillo d'araldo, lezione di vita dall'alto, ma ri-scoperta dell'umano autentico dentro il mare di merci in cui la storia si va immergendo. Anche dove, come nell'ultima raccolta, Stanze critiche (2005) un'intera sezione - L'estasi - è basata sulla ricerca dell'Altro, è lontano il rischio della assunzione di salvezza, della franchigia tranquillizzante che mette le cose al sicuro, perché la croce è il termine di confronto ("rare diffrazioni/ di luce/ che ogni croce/ formata alla Tua impronta/ indora", da "Le orme") di ogni esperienza umana, alla ricerca del fratello perduto, non per un porgersi dall'alto, ma per divenire ultimo egli stesso: "essere l'ultima panca/ che scricchiola e teme/ d'esser gettata al fondo/ d'un magazzino" ("Sospensione"). Con la memoria lontana che il tutto alla fine è danza (per alcuni il Cristo è The lord of the dance), perchè se "s'aprono le danze delle cose" anche i fratelli in cammino danzano "in cerchio il canto ebraico della Pasqua" ("Irradiazione").
Poesia naturaliter religiosa e cristiana è quella di Achille Abramo Saporiti, che intende la vita come passaggio, e questa non è una novità; solo che il passaggio è qui non solo e non tanto ineludibile, ma colmo di meraviglie (e Vaso di nuove meraviglie, 2004, è il titolo della sua ultima silloge) e di fascino, che dovranno però condurre al termine-inizio, vero dies natalis per il credente: "I giorni si fondono come voci/ nel madrigale della vita./ Lo sguardo s'impiglia nella corolla/ del fiordaliso e nella spiga/ che insieme conosceranno la falce". Non vi è nessun de contemptu mundi, semmai tutta la terrena, pagana, direi (l'altra faccia del sé cristiano) attaccamento alle sirene inesorabili e ammalianti del mondo: "e pure per amore rifarei/ tutti i commessi errori". Resta il destino d'ogni creatura che va verso l'inevitabile foce, tanto colma da non poter essere detta, ma solo sentita in interiore homine: "Più oltre non potrà la lingua./ Cede e si affloscia la parola;/ a quel fulgore non resiste".
Da un domenicano ci si aspetta il canto pieno e davvero l'insegnamento ex cathedra, ed invece ecco che padre Alfredo Scarciglia ci mette di fronte ad uno dei pochissimi esempi di mistica unitiva rimasti nella poesia contemporanea, dove risuona certamente l'eco di san Giovanni della Croce e di santa Caterina da Siena, ma anche tutta la tradizione dei gimnosofisti, dei sufi, della partecipazione totale, anima e corpo, all'incontro con il numinoso. Solo nel deserto si può ascoltare il ruggito del leone, come ricordava James Hillman, ed ecco che in consonanza con le profondità del pensiero spirituale e non materialistico d'occidente, anche Scarciglia sa di dover tentare il vuoto: "Nella Tebaide del tempo/ ricerco l'assoluto. (...) Ora/ fiorisce il deserto,/ mi parla di Te" ("Ascetikon" in Come da un giardino, 2004). Anche qui non vi è autosufficiente presa di coscienza del proprio angolo sereno, ma tensione verso l'altro, per diventare pianta salvifica: "E alla mia unica ombra,/ trovino ristoro i viandanti./ Possano fermare i loro passi/ le diverse identità/ e convivere fraternamente/ tra le mie tolleranti radici" ("L'albero della croce"). La ripresa della mistica sponsale in Scarciglia dimostra come sia variegata, e perciò viva, la tensione religiosa, quando diretta, ma anche - come abbiamo visto - indiretta, nella poesia italiana dei nostri giorni.
Una pronunzia tesa all'inseguimento delle tracce d'assoluto nella storia, e quindi nell'ineluttabilità della sofferenza, è presente nella lirica di Roberto Mussapi, dove emerge la ricerca oggettuale, attraverso la quale emerga il senso della vita, come in alcuni maestri del Novecento, Eliot in primis. "Gli dèi sono puro suono", eccolo il rischio e insieme la bellezza dell'universo, nel quale è incarnata la verità di quanti grandi poeti hanno colto: non vi è soluzione di continuità tra realtà e sogno. Ed ecco allora, anche quando l'impegno storico e civile è preminente, come in "Il cimitero dei partigiani" (in Gita meridiana, 1990), la visione torna a nobilitare la casualità nel mondo come la benda sugli occhi del principe di Homburg in von Kleist: "Non vergognarti dei sogni e nemmeno/ di questo viaggio tra sogno e veglia", dice l'apparizione di Beppe Fenoglio, ed è giusta summa di un percorso poetico in cui sembra essere cantato l'intero dubbio dell'esistente.
Il viaggio interiore alla ricerca del relitto del mito attraverso le tappe del quotidiano, reso deiezione calcinante emerge nelle liriche di Fernando Bandini, che esprime una ansia di luce che nell'eternità non potrà essere dimenticata: "Non ce lo ruba/ la notte o l'ora della nostra morte" (Meridiano di Greenwich, 1998).
Dubbio dell'altro e nell'altro proiettato ("M'hai detto: <Dio non c'è>"), freddo ragionamento ("Non vuoi consolazione ma superba / certezza"), richiesta di senso nell'intrico delle cose quotidiane perché manifestino la rivelazione o la certezza cui abbandonarsi ("L'ombra esisteva per negare il corpo" in Le scarpe del papa, 1980) sono elementi che hanno fatto la peculiarità della poesia apertamente religiosa - ma non per questo priva di drammatica tensione - del compianto Renzo Barsacchi.

VI. È nel chiedere senso all'esistenza attraverso la ricerca della sofferenza altrui che ritengo intrisa di una religiosità aspecifica anche la poesia di Elio Pagliarani, quando in La ragazza Carla scrive che "(...) Non basta comprendere per dare/ empito al volto a farsene diritto:/ non c'è risoluzione nel conflitto/ storia esistenza fuori dell'amare/ altri, anche se amore importi amare/ lacrime (...)". Non è certo una scelta fideistica né tantomeno confessionale, ma è pur sempre tesa al riconoscere nell'altro la verità e il senso della vita, che mi sembra elemento certamente sociale ma permeato di ricchezza oblativa.
Movimento centripeto, che va verso il basso della condizione di vuoto dell'uomo, presente anche nei versi di Amelia Rosselli, anche in quelli scritti in inglese, che tradotti suonano "Che coronato di spine esso stesso aveva osato/ essere la punta rotonda del centro, della speranza" (da Sleep, 1992) e dove comunque il religioso è una pietra di paragone talvolta al negativo:

    Nessuna fede ha mosso mai le montagne
    tu muovi le montagne in me, tu che sei
    compagno di un momento e senza amore
    (in Documento 1966-1973, 1976)

in una esistenza in cui è possibile avvertire angeli che "pestano i piedi,/ sul fondo del tuo cuore" (da Variazioni belliche, 1964).
Non si può non tener conto, in un lavoro come questo, del contributo di Maria Luisa Spaziani, che nel recentissimo La luna è già alta porta a compimento un discorso iniziato da diverso tempo (si pensi ad un momento essenziale in questa direzione come Giovanna D'Arco, del 1990), enucleandolo dagli altri più datati e sbalzandolo in primo piano: il rapporto con la creazione. Tutto è animato da uno spirito vitale, anche gli oggetti:

    Non sono inerti gli oggetti, le cose.
    Hanno nervi sensibili, sottratti
    alle leggi del tempo e dello spazio.
    E se amiamo prolungano i nostri.

È molto forte in questa ultima opera la tensione verso l'altro visto non solo come essere diverso da sé ma anche come creatura, come elemento sacro di una creazione mai finita. Nella fine c'è l'inizio, e in questa circolarità cosmica entra in gioco una visione serena dell'Altrove, inteso come possibilità perturbante, anche se talvolta sentita come troppo lontana dalle abitudini della propria esistenza: "mi rapisce/ una clausura che non mi appartiene/ (...) m'inginocchio/ davanti a un Dio semiconosciuto/ che mi chiama e mi abbraccia". Ecco di nuovo la manifestazione dell'ossimoro permanente nella cultura occidentale, il deus absconditus che attrae e respinge, affascina e riempie di timore l'io troppo abituato alla ragione e alla scepsi. L'elemento comunque più interessante della recente raccolta è la visione delle sirene del vissuto, che un tempo hanno imprigionato dolorosamente, disincantata e distanziata, con la consapevolezza che l'essere così amato era non una esistenza in sé, ma una creazione del proprio desiderio; si arriva così al pensiero fatale, simile a quello immaginato da Hermann Broch nella Morte di Virgilio e dalla Spaziani ricondotto al cantore di Laura: "Già Petrarca/ supplicò di bruciare il Canzoniere". È la tentazione di distruggere tutto il prima e di abbandonarsi all'amore archetipo che finalmente traspare nella semplicità di ogni cosa creata.
La pena del paradosso pagato sulla propria esperienza, come in Pasolini, emerge anche in Giovanni Giudici, quando accenna all'amaro "scrivere versi cristiani in cui si mostri/ che mi distrusse ragazzo l'educazione dei preti" o quando è portato ad avere comunque il riferimento sacro di fronte, nel caso di "Ode a una misteriosa dama di nome Maria" dove immagine mariana e quella di una carnale donna del popolo si fondono in un presente contaminato e dubbioso.
Alessandro Ceni esercita anch'egli il dono della visione attraverso l'opacità delle cose, quando è possibile scendere alla fine elementare della realtà, e coglierne insieme la consistenza eterna e il divino accadere. Dio e materia si fondono e confondono nell'oceano dell'esistente: "La testa di dio è bendata/ è deposta sul fondo,/ leggere le bende si muovono/ quelle che imprigionano il suo sguardo./ Dio è disteso sul fondo/ con il piombo del mare addosso/ (...) dio è disteso sotto le acque e non respira". Qualcuno ha richiamato per questa poetica Lucrezio e la sua concezione materialistica del cosmo, anche se qui emerge qualcosa di più sfuggente, che va oltre un determinismo puro e semplice, in una sospensione di giudizio che richiama alcuni esisti leopardiani e montaliani.
E, per rimanere nel contesto delle acque e del mistero del dolore, non può passare inosservata una pagina tragicamente tesa alla domanda diffusa e insieme abissale come quella di "Tsunami" scritta da Luciano Erba: "Sgambettano i bambini davanti all'onda/ loro troppo piccoli e leggeri/ appena usciti dal paradiso terrestre./ il mistero sta nel libero arbitrio/ di quest'onda assoluta e totale"; materia, fato, caso si mescolano in una lancinante eppure ferma e lucida richiesta di giustificazione lanciata come quasi stanca sfida alla necessità.
Sull'esistenza del male e di Dio si interroga anche la poesia di Antonella Anedda, dove "nel breve spazio che ci hanno assegnato" (Residenze invernali, 1992) si scruta una storia che "medita quando - così di rado/ per questo raramente sacra - salva un bambino dal suo Nilo" (Notti di pace occidentale, 1999).
Su un altro versante non meno drammaticamente risentito si pone la poetica di Umberto Piersanti in cui si manifesta la drammatica lacerazione tra il messaggio cristiano e la carnale adesione al mondo; una lacerazione attraverso la quale emerge il magma incandescente della parola mitica: "Solo lo spazio del mito/ fu/ quello dato/ tra steli di lumache/ (...) il Catria potente dall'altra parte/ nei conventi nei boschi di castagno/ le chiese del duecento per le valli/ ma tu non eri cristiana/ una fanciulla pagana diciassettenne/ dalle carni brunite e odorose" ("La battitura" 1979, in Nascere nel '40). Piersanti è sicuramente uno dei poeti più interessanti tra quanti hanno scritto dagli anni Sessanta in poi, in virtù di quella capacità di assorbire all'interno di una versificazione lenta, narrativa, quasi referenziale, tesa al racconto trasognato eppure preciso nei particolari, il dolore del vissuto.
Il rapporto con la realtà è il centro nevralgico di gran parte dei poeti contemporanei cui non è possibile, pena la divisione e la separazione radicale, l'astenersi dai conti con il mondo. Il peso del contingente è tuttavia incapace di soffocare completamente la voce interiore che dalla prigionia del corpo chiede urlando perché, come nella prigioniera creata da Maurizio Cucchi, rivolta all'apparizione di Giovanna D'Arco in La luce del distacco, (testo per il teatro, 1990) che non sa ridurre al silenzio quella voce di abbandono totale: "Anch'io vorrei dire: andrò,/ dovessi consumarmi piedi e gambe fino alle ginocchia!".
L' urlo disperato dagli abissi di un disordine senza senso si coglie anche in Milo De Angelis, il cui verso talvolta echeggia di suoni profetici, non tanto per la pregnanza citazionale, ma per il recupero del momento di crisi e di deiezione esistenziale in cui i profeti si trovano ad agire: "Quando si unisce in noi il soprassalto/ di ogni cosa, quando attraversiamo/ i gas di Rho e all'improvviso una voce/ rimasta sola ci invoca, noi l'udiamo: oh deus absconditus, custodisci/ la gemella, l'assente, (...) il semprevivo di ogni niente" ("L'oceano intorno a Milano" da Biografia sommaria, 1999); questo senso di catabasi del sacro che si è immerso nella materia fino a nascondersi nell'incredulità, è presente un po' dovunque in De Angelis, ma nella splendida "L'ago del ritorno", sempre nella raccolta citata, emerge con lucida consapevolezza: "riposa nell'unica durata, nel battito/ delle tangenziali e della mente/ nel centro del buio, un'antica rima/ mescolata alla vita, un calice sparso/ sul catrame e, ancora prima, il sacro/ rottame di ogni cosa".
Una simile disposizione a scorgere improvvisamente l'epifania del sacro negli oggetti più usuali è viva in Francesco Osti, classe 1976: "ma non v'erano che episodici lamenti di motori, singulti strozzati; una bicicletta nera lambiva la zona sacra" ("Mantova, 15 agosto su Piazzale Gramsci", in Tutta la forza della poesia, 2003). Si guardi al titolo della poesia, e alla pressione semantica posta sulla datazione temporale: il giorno del ferragosto, quando "nella tenaglia del tempo" solo il demone meridiano sembra reale accadimento in uno scenario che esclude altre presenze, pur nel rumore di fondo di umane parole.
Silenzio che è fermato da un altro giovane (ha ventotto anni), Alberto Pellegatta, sulle soglie del bosco, luogo un tempo del luminoso, e che diviene urlo nello scontro tra possibilità e inesorabile presenza della materia: "Mentre un urlo sale dal profondo/ scuotendo la terra cava, canaglia/ come diavolo o divorzio. È l'anima".
La visione di un mondo ridotto dal mercato selvaggio ad una distesa di rifiuti è presente anche nel ventiseienne Matteo Zattoni: pur non essendo direttamente assimilabile ad un discorso fideistico è comunque carico di quel sacro horror di fronte alla reificazione del mondo, cui sta dando una cospicua mano una cultura completamente sradicata dalle sue radici religiose in senso etimologico di legame forte con la comunità: "(...) invece la cultura continua a produrre perfetti/ Sistemi anticoncezionali, costretti/ i bambini ad impararli perdono i prati/ quasi dalla nascita come dai parti separati/ dalla madre, imparano tutto/ tranne come si nasce" ("Sistemi anticoncezionali"). Se ce ne fosse ancora bisogno, ecco la prova di come la sacralità della vita è spesso accompagnata da un bisogno edenico non in senso unicamente biblico ma come identità tra natura e uomo, creato e creatura, che mi sembra segno di profonda ricerca religiosa.
La disperazione del dolore che fa alzare naturalmente il lamento alla divinità è quella contenuta in Requiem (1991) di Patrizia Valduga:

    Dio, ti scongiuro, prendigli la mente,
    non torturare un cuore torturato
    (...)
    finisci pietosamente
    l'opera che da tanto hai cominciato.

L'ordine algebrico dell'universo che in alcuni momenti sembra acquisito una volta per tutte, in altri diviene il montaliano anello che non tiene, la perplessità dell'Eliot in Prufrock and other observations, come nel giovane (è nato nel 1972) Gabriel Del Sarto: "Oh angeli storditi/ dal verde odore di morte dell'erba, e rinascita,/ - e gli angeli sono la più algebrica ed esatta/ formula della nostra paura (...)" ("L'amore", in I viali, 2002); qui regna la mescidazione radicale e perciò inestricabile tra profano, oggettuale, fatale e sacro, in una soluzione poetica di grande suggestione, ancor più in quanto tenderebbe al freno sentimentale, al non abbandono, alla lucida constatazione delle schegge d'esistenza: "Considera la saliva/ la bava del vecchio Giobbe, l'Ostinato che già ci predisse,/ e considera i suoi gridi verso Dio: consegnandoci/ cosa se non la più grande speranza?/ Usate, uomini, con fiducia e parsimonia, usate/ il diritto, quest'impensabile diritto, a disperare". ("A 3 km., Gabriel", in I viali). Qui i termini si incrociano e si scambiano le possibilità semantiche, cedendosi reciprocamente le potenzialità sacrali e quotidiane, l'attesa dell'evento salvifico si sconta tra "panni da stendere" e angeli che non attendono più la resurrezione.
La contaminazione tra sacro e profano avviene anche nei versi di un'altra giovane poetessa, nativa di Durazzo ma ormai da anni in Italia, Anila Hanxhari: versi in cui espressionismo, rincorrersi delle analogie e una radicale metaforizzazione della frase poetica creano sistemi di assonanze e di disequilibri tra universi di senso diversi, dove "Dio è una lirica selvaggia" e potrebbe saziare "a morsi" e rimboccare "il dolore fino al brivido/ perenne" ("Distanza che umilia il lutto").
La navigazione tra un sospetto che l'arte sia gioco fine a se stesso -"l'illusione è arte" -, che nasconda qualcosa di non nominabile fino in fondo e lo sguardo sulla circolarità dell'esperienza cosmica è motivo assai forse in un'altra nuova leva, Francesca Moccia: "Tutto è diverso o simile se uno si siede/ di fianco all'altro, nelle mani di uno la/ valigia in quelle dell'altro una creatura./ Tutto è eterno niente esiste". Nella sua poesia vi è come una tendenza alla rilevazione della resistenza dell'uomo all'abbandono e alla pienezza, non come peccato d'origine, ma come sua essenziale natura fatta di durezza e meraviglia: "La pace era con noi, ma un senso di/ malessere ci brandiva e ci lasciava indifferenti".
Riferimenti al Dio che agonizza, colto nel suo aspetto terreno, forse troppo umano, sono nella poesia dai toni visionari di Giovanni Ramella Bagneri ("Parliamo (...) della tristissima agonia di Dio", da Il teatrino del mondo, 1984); non mancano i motivi legati alla concezione di un Dio che divenga casa e insieme figura dell'accoglienza definitiva: "Io amo la mia casa perché è bella/ e silenziosa e forte. Sembra d'aver/ qui nella casa un'altra casa, d'ombra,/ e nella vita un'altra vita, eterna" (Cuore, 1988), che ora è fin troppo facile vedere come profetica prefigurazione nella spezzata vita di Beppe Salvia.

VII. A conclusione di tanta sciatta e frettolosa manìa catalogativa, porrei non un giovane, ma un sigillo che è a metà chiuso e per metà spezzato, a simbolo del tema che ora va verso la sua conclusione. È un sigillo non troppo antico, tanto che non è ancora possibile coglierlo in tutte le sue complesse sfumature: Carlo Betocchi. "Il mio cuore è debole stasera" è un verso capace di dire la lunga notte oscura che la sua anima ha attraversato alla fine, anche se probabilmente era consapevole, in fondo, che è quella notte a portare alla rivelazione del deus absconditus. Fede come fuga e insieme impegno, dubbio, accusa ad una Chiesa che "stana" chi cerca, ma insieme fascino di un "Vangelo (che) ci insegue/ come il veltro la preda agognata" ("A mani giunte", in Poesie del sabato, 1980). L'ultimo Betocchi guarda al mistero dell'universo come creazione che è in tutto e in tutti, non solo nell'uomo, e che darà forma "a quella/ che, faticosamente, sarà l'anima di tutti:/ uomini e sassi, ed animali e piante", anche se rimanendo da questa parte, da quella della materia, l'essere sarà sempre immerso nel retaggio del dubbio, dell'hybris, dell'abbandono disperato al qui e all'ora. Che, mi sembra, la cifra, parziale, sintetica, povera, e causa di esclusioni ingiuste che ci proponiamo di riparare in un più ampio studio, ma in grado di far riflettere, emersa da quella infinitesimale parte di universo poetico che abbiamo visitato insieme.


    Nota

Premessa di metodo a chiarimento della divisione in paragrafetti: dopo una prima sezione introduttiva, nella seconda sono stati compresi i poeti ritenuti ingiustamente dimenticati nella loro inesausta ricerca di verità non solo nel qui e nell'ora, anche se nel qui e nell'ora vi è tutto il peso della necessità; nel terzo paragrafo ho isolato due esempi di poesia dichiaratamente cristiana ma in linea con il programmatico spirito di religiosità dal quale siamo partiti; nel quarto alcuni momenti di lingua locale dai quali emerge con forza l'elemento religioso; nel quinto ho cercato di elencare gli apporti più vicini all'argomento nei contenuti, soprattutto ma non unicamente tra i giovani poeti, mentre nel sesto ho affrontato autori "laici" nei quali mi sembra emergere a tratti una ricerca di umanità e una richiesta di ragioni esistenziali che talvolta sfiora o tocca latu sensu l'afflato religioso; l'emblematica parabola di Carlo Betocchi ha concluso con un piccolo capitolo, a paradigma della mai esausta, e talvolta dubbiosa e perduta, strada sulla quale talvolta cammina una rilevante parte della nostra poesia.

 

testi.marco@libero.it


Vedi anche, in questo numero:

Meno che nulla son io. Il senso religioso nella poesia di Carlo Betocchi
di Sergio Sozi

La cosmologia poetica di Arturo Onofri
di Magda Vigilante