FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia
Numero 4
ottobre/dicembre 2006

Sacro e profano

MENO CHE NULLA SON IO
Il senso religioso nella poesia di Carlo Betocchi

Modesta trattazione biografico-critica, seguíta da alcune scelte poesie brevemente commentate

di Sergio Sozi


Carlo Betocchi nacque a Torino il 23 maggio 1899, da padre ferrarese e madre toscana, e scomparve a Bordighera (IM) il 25 maggio 1986. Traferitosi a Firenze da bambino, visse poi a Trieste, Roma, Bologna, Venezia, ma può esser considerato poeta toscano (anche se Caproni aggiunse: "...Piú che toscano, italiano all'antico modo romanico"); be': poeta toscano dicevamo, anche perché lí, al di là della mera anagrafe, egli iniziò la sua attività letteraria, costantemente riferita al - o almeno sottintendente il - Dio cattolico.

Carlo Betocchi, il poeta dell'allegria per sua stessa definizione, prese - come Ungaretti - a scrivere poesie non da giovanissimo (il suo esordio è del 1932, con la notissima raccolta Realtà vince il sogno: aveva 33 anni. Ungaretti, ricordiamo, pubblicò sulla rivista ''Lacerba'' i suoi primi versi all'età di 27).
Comunque, se ben poco ha in comune il Nostro con l'autore dell'Allegria di naufragi (eccetto forse che entrambi andarono volontari in guerra - Betocchi in Libia e Ungaretti sul Carso - e che entrambi avevano qualcosa a che fare con la Toscana: Ungaretti era figlio di lucchesi), molto egli invece condivise con l'ambiente letterario, toscano e non solo: a partire dall'amicizia con Piero Bargellini e Nicola Lisi (con i quali collaborò, prima alla rivista strapaesana ''Il calendario dei pensieri e delle pratiche solari'', poi alla fiorentina ''Il Frontespizio''), continuando con la frequentazione dei poeti Diego Valeri, Mario Luzi, Giovanni Raboni (che venne scoperto proprio dal Betocchi) e del critico Carlo Bo.

Le altre figure passate attraverso ''Il Frontespizio'', inoltre, le conosciamo: portano i nomi di Gatto, Sinisgalli, Sereni, Vigorelli, Parronchi, Macrí, Traverso... una bella fetta della poesia italiana nata durante il Ventennio e proseguita nel Secondo Dopoguerra. In principio la culla, quella preziosa rivista nata nel '29 e chiusasi nel '40, di due scuole di letterati d'ispirazione cristiana: quella diremmo radicale di Papini e altri - legati alla Scolastica e a san Tommaso - e l'altra agostiniana e pascaliana di Parronchi, Bo ed altri fra i quali il Nostro.
Parlarono e parlano di lui i numi tutelari della critica e della poesia italiana: Pasolini, Caproni, Zanzotto, Baldacci, Anceschi, Cecchi e Sapegno, Albisani, De Robertis e numerosi altri. Fra le collaborazioni, vogliamo ricordare quelle con le riviste ''L'Orto'', ''Il Selvaggio'', ''Primato'', ''Campo di Marte'', ''Letteratura'', ''La Chimera'' (di cui fu fondatore), ''La Fiera Letteraria'' e ''L'Approdo Letterario''.
Parlando della poesia religiosa italiana contemporanea, nella loro illustre Storia della Letteratura Italiana, Cecchi e Sapegno lo subordinano per grandezza soltanto a Clemente Rebora.

Ma non ho tirato in mezzo Ungaretti, l'ermetico per eccellenza, a caso: il critico Titta Rosa, negli anni '50, scrisse del Nostro che "L'ermetismo pur vivendo a Firenze tra il '28 e il '38, lo sfiorò appena, senza turbare la sua schietta e umana vena che s'incanta a un richiamo immediato della natura come a voci segrete che gli giungono da un'assorta contemplazione interiore." Poi, Mario Luzi - il piú noto rappresentante dell'ermetismo d'impronta cristiana - gli dedicò dei versi proprio polemicamente incentrati sulla religione: "Abiura io? chi può dirlo / qual è il giusto compimento / di una fede - e poi che fede era? / era solo il mio allegro / quotidiano innamoramento - quale / allora illegittimo suggello / perderla sostengo, negarsi il privilegio / d'averla, non lei forse, / la sua sufficienza, la sua teologale ultra superbia (...)". Va precisato che Betocchi stava ormai alla fine del suo percorso vitale: "Anni di dubbi, di sofferenza e di solitudine, egli arrivò a temere di averla persa, la fede, quella sua gioiosa e spavalda comunione teologale con tutte le creature" (Leandro Piantini). Dunque i versi dell'amico Luzi tentarono, mi sembrerebbe, di giustificare i dubbi religiosi che verosimilmente colsero il Nostro sugli ultimi gradini prima dell'arrivo, il sospirato arrivo celeste. Luzi appunto dice chiaramente che se di perdita di fede si trattava, era solo che Betocchi stava perdendo la sua fiducia nella Chiesa fatta dagli uomini, ben dotata di "teologale ultra superbia".

D'altronde, il rapporto di Betocchi con la fede non è sempre troppo distante dalle ansie ermetiche, ossia dalla contorta e spesso irrisolta maniera novecentesca di problematizzare la relazione fra la carnale presenza umana e le entità metafisiche (o che dir si voglia: supreme, astrali), come dimostrerà il paragone fra l'ombra di una albatrella (che è una pianta e non un uccello) antropomorficamente semidormiente in campagna e le ingannevoli ombre umane. La poesia s'intitola Dell'ombra e ben chiarisce la meditazione di fondo dell'autore: gli uomini vivono esistenze umbratili, cariche d'ansia e di false irrequietudini; l'albatrella, invece, porta il messaggio di un'ombra pacificata con Dio e con lo scorrere dei giorni che Dio ha fatto e fa ad uso dell'uomo.

    DELL'OMBRA

    Un giorno di primavera
    vidi l'ombra di un'albatrella
    addormentata sulla brughiera
    come una timida agnella.

    Era lontano il suo cuore
    e stava sospeso nel cielo;
    nel mezzo del raggiante sole
    bruno, dentro un bruno velo.

    Ella si godeva il vento;
    solitaria si rimuoveva
    per far quell'albero contento
    di fiammelle, qua e là, ardeva.

    Non aveva fretta o pena;
    altro che di sentir mattino,
    poi il suo meriggio, poi la sera
    con il suo fioco camino.

    Fra tante ombre che vanno
    continuamente, all'ombra eterna,
    e copron la terra d'inganno
    adoravo quest'ombra ferma.

    Cosí, talvolta, tra noi
    scende questa mite apparenza,
    che giace, e sembra che si annoi
    nell'erba e nella pazienza.

Echi ermetici insieme a dinamiche pascoliane, invece (anche il De Robertis parlò di Pascoli a proposito di Betocchi), son presenti nella prossima lettura, estratta da Altre poesie del 1939: Il dormente. Questa magnifica lirica, direi di gusto elegiaco, mette in contemporaneità temporale la memoria personale di un sonno vissuto lungo un fiumiciattolo con la medesima esperienza vista dall'alto, da altri ignoti occhi. Dunque non sappiamo se egli fosse al momento sveglio o vegliante. Il poeta, insomma, vede se stesso addormentato dall'esterno, attorniato anzi avvolto dalla vita cosmica, nella quale infine si sciolgon le sue forme corporee. E anche qui, notiamo, è costante la presenza simbolica delle tenebre come pace eterna e logica conclusione - sentita con soave naturalezza. L'ombra in Betocchi non si disgiunge mai dalla sua istintiva radiosità.

    IL DORMENTE

    Io mi destai con un profondo
    ricordo del mio sonno.
    Dalla mia veglia guardavo
    il mio corpo dormiente,
    era giorno, era un chiaro
    giorno silente.

    Quando le sere d'estate
    esalan profumate
    tenebre sul fiume, un uomo
    giace sopra la riva
    addormentato dal suono
    dell'onda viva.

    Passano sopra il suo viso
    l'ombre del paradiso
    lunare, tra i flessuosi
    salici e il lieve vento;
    celano gridi amorosi
    l'erbe d'argento.

    Vento e prati fluttuando
    muoiono con un blando
    fiotto e là, presso il suo corpo,
    come a un'isola viva
    da un mare languido e smorto
    il flutto arriva.

    Presso il suo corpo si rompe
    quell'ineffabil fonte;
    e il suo respiro leggero
    di creatura che dorme
    scioglie nell'etereo cielo
    azzurre forme.

Parlavamo di radiosità ma ancor meglio, per definire in toto la poetica betocchiana, sarebbe adottare l'opinione del De Robertis: "È un idillio scontento con solo le apparenze della felicità". Se ciò in generale calza alla sua produzione, questo non toglie, però, la sonorità impressionistica dei seguenti versi, aventi una forma metrica particolare: sono quattro cinquine di settenari con rime ABCBC, DEFEF, eccetera. Una vera dimostrazione di buone capacità tecniche, grazie alla quale ci sentiamo liberati in un sol colpo da tutte le contorsioni intellettualistiche moderne. Qualche precisazione lessicale per coglierne meglio il senso: la ''pruína'' è toscanismo per ''brina''; ''crócei'' vuol dire ''color del croco'', ovvero giallini; ''dolca'' sta per ''morbida''. La poesia s'intitola Pastorale.

    PASTORALE

    Al vento alla pruina
    l'acqua rovina al bosco,
    la bestia s'inacerba,
    e s'arrovella al fosco
    giorno, e s'indura, l'erba:

    col cuor dove già inalba
    come scialba lanterna
    l'inverno, il pecoraro
    col flauto amaro sverna
    mandrie dal passo avaro.

    Ed ora andranno i prati
    di belati e di rosei
    musi fiutanti incolmi,
    e neri gli olmi ai crocei
    albori, e bianchi i sommi

    crinali: e dove inconca
    la neve dolca al vento,
    diran d'avere udita
    della smarrita al tempo
    d'estate ancor, la squilla.

Si diceva poc'anzi che l'ombra, la luce (come speranza ed anelito all'Assoluto) e la forte adesione del poeta al vigore della vita - una vita fatta di sacrificio e sofferenza: il fiume della vita, diremmo, rubando al Verga una sua famosa definizione - erano le caratteristiche di base della poetica betocchiana. Ma lo sono certamente anche gli uccelli, i tetti delle case a mo' di simbolo riassuntivo dell'operosità umana vista come derivazione divina (vedansi la famosa Dai tetti e Fraterno tetto), e lo sono pure la Luna, quasi onnipresente in quanto propaggine divina, come ancora le stagioni, sentite con animo arcaico. Bene: nel prossimo componimento, Un dolce pomeriggio d'inverno, potremo osservare un ulteriore elemento molto caro al poeta: le farfalle... o meglio la metamorfosi dei pensieri in impalpabili esserini policromi, avviluppati dalla luce di un sogno d'eternità.

    UN DOLCE POMERIGGIO D'INVERNO

    Un dolce pomeriggio d'inverno, dolce
    perché la luce non era piú che una cosa
    immutabile, non alba né tramonto,
    i miei pensieri svanirono come molte
    farfalle, nei giardini pieni di rose
    che vivono di là, fuori del mondo.

    Come povere farfalle, come quelle
    semplici di primavera che sugli orti
    volano innumerevoli gialle e bianche,
    ecco se ne andavan via leggiere e belle,
    ecco inseguivano i miei occhi assorti,
    sempre piú in alto volavano mai stanche.

    Tutte le forme diventavan farfalle
    intanto, non c'era piú una cosa ferma
    intorno a me, una tremolante luce
    d'un altro mondo invadeva quella valle
    dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
    cantava l'angelo che a Te mi conduce.

Le rondini andrebbe analizzata ed approfondita con l'ausilio di troppo tempo (anche perché proprio del tempo essa tratta) ma di tempo - ovvero di spazio - qui non ne vogliamo occupare materialmente troppo, per evitare di tediarvi. Essa costituisce, noteremo tuttavia, un esempio del Betocchi ermetico (cioè del Betocchi filosofo tra virgolette). Cosí, semplificando di molto le cose, suggeriremo che le rondini sono dei cerchi di vita inconsumata e dunque perfetta - il cerchio rappresentava per molte delle società mediterranee antiche la completezza, la perfezione della linea ininterrotta coniugante divinità, morte e vita -; le rondini sono, quindi, degli animali sacri o addirittura delle anime in senso cattolico, poiché godono del tempo assoluto, quello trascendente estraneo all'immanenza cronologica. Questi cerchi-anime, dunque, in quanto riassuntivi della vita e della ultravita, calano, guidati dal suono di campane divino, sui nostri cieli terreni e, assorbite le esperienze della vita materiale umana, tornano all'onda antica (cioè all'eternità).

    LE RONDINI

    Le rondini, bei cerchi della vita,
    intatti e non vissuti,
    senza che il tempo azzurro li soverchi,
    son tempi in cui non vige una misura
    sommersi dentro un suono di campane
    che li innalza e li abbassa,
    che forano e trapassano,
    per ritornare fertili di vita
    e privi di ricordi, a l'onda antica.

Ancora la luce riflessa della luna si appropria della visione urbana del poeta, che sente i propri pensieri sulle attese e gli eventi come diventar di vento. È un paesaggio dell'anima, questa Ora ad altre speranze, robusta e un tantino stonata pennellata ermetica dai nodi sintattici quanto meno difficili da intendere, se non propriamente irrisolvibili eccetto che intuitivamente. Comunque, per me che sono umbro (e al di là dei difetti del componimento), è troppo forte la tentazione di vedere, tramite gli occhi del poeta, gli antichi tetti delle nostre case, tanto simili a quelli toscani.

    ORA AD ALTRE SPERANZE

    Ora ad altre speranze ecco si leva
    non veduta la luna
    e il cieco sguardo mio di cruna in cruna
    delle finestre mena

    come a spente farfalle,
    ed alle assurde mura
    trasumanate come aperta valle
    da un riflesso di luna.

    E le attese e gli eventi
    nell'alzato mio volto errano un poco
    sostando e dubitando eguali al fioco
    sospirare dei venti,

    e in me è tutt'uno
    l'animo e questo moto, incerto e bruno.

Il verbo ''giocondare'' (''giocare con giocondità'') potrebbe esprimere già di per sé la bambina sensibilità di questo poeta, che perfino Pier Paolo Pasolini definí come il possessore di una "Gioia tutta profana" coincidente con quella sacra. Questo verbo entra ad illuminare una deliziosa descrizione, in Piazza dei fanciulli la sera. Qui il labbro di pietra è l'orlo di una fontana di paese ricoperto di alghe, e il labbro dell'acqua è la superficie dello specchio acqueo della medesima. Solo che il cielo sceglie l'acqua per trasferirsi, aggiuntiva gioia, alla piazzetta festante, mentre l'ambigua luna può attendere senza turbare la serenità dei fanciulli.

    PIAZZA DEI FANCIULLI LA SERA

    Io arrivai in una piazza
    colma di una cosa sovrana,
    una bellissima fontana
    e intorno un'allegria pazza.

    Stava tra verdi aiole:
    per viali di ghiaie fini
    giocondavano bei bambini
    e donne sedute al sole.

    Verde il labbro di pietra
    e il ridente labbro dell'acqua
    fermo sulla riviera stracca,
    in puro cielo s'invetra.

    Tutto il resto è una bruna
    ombra, sotto le logge invase
    dal cielo rosso, l'alte case
    sui tetti attendon la luna.

    Ivi sembrava l'uomo
    come una cosa troppo oscura,
    di cui i bambini hanno paura,
    belli gli chiedon perdono.

Incredulo davanti alla guerra? Forse piú: la rondine, solitamente latrice di speranze celesti, passa nel vuoto lasciato da alcune case frantumate e questa volta porta all'uomo soltanto rassegnazione davanti alla sua stoltezza. Una rondine nel vuoto della disperazione: Rovine, del 1947.

    ROVINE

    Non è vero che hanno distrutto
    le case, non è vero:
    solo è vero in quel muro diruto
    l'avanzarsi del cielo

    a piene mani, a pieno petto,
    dove ignoti sognarono,
    o vivendo sognare credettero,
    quelli che son spariti...

    Ora spetta all'ombra spezzata
    il gioco d'altri tempi,
    sopra i muri, nell'alba assolata,
    imitarne gli incerti...

    e nel vuoto alla rondine che passa.

Tutta la suggestione e la forza dei suoni sta nella prossima lirica, scritta nel 1932: L'ultimo carro. Per quanto riguarda il lessico, si tenga presente che l'aggettivo ''chiotto'' significa ''prudente'' e che il ''cavallo manritto'' è quello che sta alla destra della pariglia trascinante il carro.

    L'ULTIMO CARRO

    Prima che l'alba sfarfalli,
    dentro un suono di sonagliere
    l'ultimo carro a cavalli
    passa, al grido del carrettiere.

    Terribilmente giocondo
    è questo suon di sonagliere
    squillante nel buio mondo
    al grido aiuh! del carrettiere.

    Sveglia chi deve svegliare,
    il can del giardino di rose,
    il gallo che sa cantare,
    le lavandaie, belle spose.

    Entrando nella farina
    sveglia il pane, fin dentro il forno,
    squillasse in campi di brina,
    di pane riempirebbe il mondo.

    Passando a una casa gialla
    che l'uomo dice inabitata
    turba un'occulta farfalla
    dentro un solaio addormentata.

    Va il suo cavallo mancino
    con una zampa chiotta chiotta:
    sovra il lastrico, argentino
    il cavallo manritto schiocca.

    L'ultimo carro a cavalli
    passa al grido del carrettiere,
    con strepitosi sonagli,
    avanti l'alba, in strade nere.

Della solitudine a mio avviso è il manifesto, o meglio la sintesi, dell'identità versificatrice ed esistenziale di Carlo Betocchi. La lascio come ultimo esempio e, prendendo a prestito la verace definizione della critica Laura Cioni, ve la presento come un tesoretto costruito di Parole limpide.

    DELLA SOLITUDINE

    Io non ho bisogno
    che di te, solitudine;
    alta, solenne, immortale,
    dove piú nulla è sogno.

    In questo deserto
    attendo l'implacabile
    venuta d'un'acqua viva
    perché mi faccia a me certo.

    Se trionfa il sole
    o la luna impassibile
    il loro lume fluisce
    come vuole nel mio cuore.

    E godo la terra
    bruna, e l'indistruttibile
    certezza delle sue cose
    già nel mio cuore si serra:

    e intendo che vita
    è questa, e profondissima
    luce irraggio sotto i cieli
    colmi di pietà infinita.



BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
  • Realtà vince il sogno, Edizioni del ''Frontespizio'', Firenze 1932; poi Vallecchi, Firenze 1943
  • Altre poesie, Vallecchi, Firenze 1939
  • Notizie di prosa e di poesia, Vallecchi, Firenze 1947
  • Poesie (1930 - 1954), Vallecchi, Firenze 1955
  • L'estate di San Martino, Mondadori, Milano 1961
  • Un passo, un altro passo, Mondadori, Milano 1967
  • Poesie scelte, a cura di Carlo Bo, Mondadori, Milano 1978
  • Tutte le poesie, a cura di Luigina Stefani, Prefazione di Govanni Raboni, Garzanti, Milano, 1996
  • Dal definitivo istante, a cura di G. Tavanelli, Rizzoli, Milano 1999
 

veronika.simoniti@guest.arnes.si


Vedi anche, in questo numero:
Ritratti tra tenebra e luce
di Marco Testi