FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 69
marzo 2025

Identikit

 

IDENTI-TIC

di Turi Totore



Ognuno di noi ha un sogno nel cassetto; anche chi non ha mai posseduto una cassettiera. Coloro che pensano il contrario scontano un problema di memoria, che gli ha fatto dimenticare di quando sognavano di vivere una vita senza sogni nel cassetto. Era quello il loro sogno nel cassetto, con o senza cassettiera.

Il mio sogno era diventare uno scrittore così celebre da veder pubblicata una tesi di laurea su di me stesso mentre ero ancora in vita.

Qualche anno fa intravidi, oltre il filo sfibrato dell’orizzonte, un’albeggiante tramonto che preannunciava la fine del sogno incompiuto per consunzione del sognatore. Il tempo stringe – mi dissi, e se il tempo stringe anche lo spazio entra in sofferenza. Dovevo darmi una mossa o muovermi con più senso del dovere.

Non avevo idee, ma me le feci venire. Una soltanto, quella giusta.

Deliberai di frequentare una di quelle università telematiche dove era possibile tele-laurearsi, senza acquisire inutili conoscenze che sarebbero finite nel tele-dimenticatoio a tre canti di gallo dopo la proclamazione. La tele-idea consisteva nell’iscrivermi a lettere moderne; comprare i tele-esami un tanto al bit-coin; realizzare il mio sogno fanciullesco stendendo una tele-tesi su me stesso.

C’era solo un piccolo ostacolo da sormontare: in vita mia avevo sempre fatto l’ingegnere senza pubblicare alcunché: un me stesso scrittore non era mai esistito e bisognava trovare il modo perché prendesse corpo e anima, non necessariamente in questo ordine. L’unica possibilità per aggirare il problema consisteva nell’assoldare un attore disponibile a interpretare un altro me che fosse un autore di successo.

Perfetto. Ma quale attore avrebbe messo la propria professionalità al servizio di un progetto affatto assurdo, se non venendo pagato lautamente?

Ero ancora in attività, percepivo una retribuzione di tutto rispetto: tuttavia insufficiente per garantire la bella vita ad altri oltre che a me.

Secondo colpo di genio: optai per il reclutamento del sottoscritto come attore disposto a interpretare il me stesso scrittore e devolvere a costui il mio stipendio.

(Come si dice in questi casi? Prendere tre piccioni con una fava?)

È il momento di cedere la parola all’ingegnere-attore. È importante conoscere il suo punto di svista e quello dei suoi discendenti partenogenetici.

Mi chiamo Ute Ritorto, nella vita faccio l’ingegnere; ma per resistere al fare che fagocita l’essere, mi sono affidato all’essere che tracima nel fare e nel tempo libero sono un attore un po’ malconcio e dalle vocalizzazioni talora inconsulte: Orio Turett. C’è da dire che il tempo libero – dove per tempo libero s’intende quello svincolato dal sé stesso produttivo – è merce ormai sempre più rara, sicché nella mia veste di attore post-lavorista interpreto un unico e solo personaggio: quello di uno scrittore.

Tocca a me?

Di nome faccio Totò, di cognome Turèri. Sono uno scriba in potenza a cui Ute Ritorto conferisce rapsodicamente attualità.

La circostanza di essere interpretato da un attore come Orio Turett, che non interpreta altri ruoli, corrobora la mia doppia unicità elevandomi al rango di primo elemento nella tabella periodica delle identità: una sorta di atomo anagrafico prima scisso e poi centrifugato da cui schiuma un intero campionario di esseri (se ci fossero anche non-esseri, quello sì che sarebbe un bel problema).

Non per questo mi alletto sugli allori: l’allure non è garantito dall’allora: ci vuole allenamento, soprattutto se si è allogeni a sé stessi. Qualsiasi personaggio che si ospiti, a maggior ragione io che ne sono l’archetipo monodimensionale compresso in un doppio specchio (alle spalle un’infinita serie di primi attori e al mio cospetto un’interminata sfilza di comparse); qualsiasi personaggio deve avere uno spessore: la qual cosa presuppone l’esistenza, fosse pure fantasmatica, di una vita ulteriore al di fuori della scena. Per dirla in altro modo: è indispensabile che io ci sia prima ancora d’esserci, e possa prendere coscienza del mio passato ipotetico (ma non per questo ipotonico) nel momento esatto in cui impegno il centro della scena. Mi serve una vita purchessia a cui abbarbicarmi; mi serve soprattutto un passato senza il quale avrei ben poco da dire, e ancora meno da ridire.

La soluzione esiste e presuppone che io ripaghi i miei progenitori con il medesimo conio: se essi hanno scaricato su di me le loro ambizioni deluse in campo artistico, chi mi impedisce di impossessarmi dei loro risultati in ambiti più prosaici?

Mi serve una vita d’occasione? M’impossesserò della loro. E nella vita congetturata che precede ogni mia apparizione e da cui procedo, ipotizzerò d’esercitare la professione di ingegnere.

(I piccioni adesso sono cinque, la fava resta una.)

C’è da dire che la professione di scrittore – l’ho imparato sulla pelle di chi vi pare e piace – non ammette mezze misure e merita di definirsi tale solo chi la eserciti a tempo piano; dove per tempo piano s’intende la distesa dei minuti e delle ore in cui si scrive, e quelle in cui ci si arrovella su come riscrivere ciò che s’è già scritto. Ne discende, poiché nella vita presunta faccio l’ingegnere a tempo pieno e non lo scrittore a tempo piano, che il mio caso sia da noverare piuttosto nel catalogo dei cosiddetti scrittori intenzionali: coloro che covano l’ambizione di scrivere senza farla schiudere compiutamente.

Si tratta di una condizione gravida di insidie, poiché equivale a comminare a sé stessi una condanna alla perenne frustrazione, che ha come unico lenitivo il fallimento esistenziale degli scrittori veri (quelli con la B maiuscola, e non chiedetemi perché). Sennonché ho avuto la trovata di foggiare e brevettare una nuova figura artistica: quella dello scrittore interposto: un portatore sano del virus della composizione parassitaria.

L’idea si fonda su un assunto molto semplice: esiste una moltitudine di individui d’ambo i sessi i quali, in maniera più intensa di me (ma non meno saltuaria) coltivano il sogno di diventare scrittori e sacrificano a questo obiettivo i pochi scampoli di vita extra-lavorativa di cui dispongono nell’illusione che un giorno la scrittura li risarcirà. Purtroppo per loro, e ancor più per i congiunti che pagano salato l’esser tali, finiscono per impelagarsi in un progetto esistenziale differito che li defrauda dell’unica esistenza plausibile. Se fossero più lucidi o più onesti, ammetterebbero che non gli interessa affatto essere scrittori – perché se così fosse li sazierebbe il piacere dello scrivere – ma essere riconosciuti in quanto tali, meglio ancora se scrittori di successo. Li chiameremo scrittori spudorati.

Su questa debolezza ho costruito la mia carriera di scrittore interposto grazie a un semplice stratagemma: presentarmi sul mercato editoriale nei panni di un falso agente letterario. Ascoltiamolo.

(Continua la disfida: Piccioni 7 – Fave 1.)

Sapete cosa distingue il sottoscritto Turi Totòre da tutti gli altri agenti letterari?

Sono l’unico nel panorama nazionale a non chiedere tasse di lettura, pretendere contributi per l’editing, esporre spese di rappresentanza, reclamare percentuali sulle vendite.

Per questa ragione sono sommerso dai manoscritti, che seleziono con estrema cura da un paio di decenni in base alle qualità della scrittura, individuando ogni anno la cinquina di autori che mi pare più promettente. Ognuno di essi è sottoposto a una batteria di test, volta ad accertare il possesso – e in quale misura – di due requisiti: essere ingegnere – e quindi dotato di una materia cerebrale che il mestiere ha plasmato nel tempo rendendola affine alla mia; soffrire di disturbo quadripolare – una sottoclasse della canonica sindrome maniaco-depressiva, che consente di instaurare tra due soggetti che ne siano entrambi affetti una sintonizzazione a distanza, con l’opportunità – più insussistente che unica (versione maggiormente restrittiva dell’espressione “più unica che rara”) – che i cicli entrino in risonanza e la sommazione (termine della neurofisiologia da intendersi riferito alla platea sinaptica) di creste e ventri dei sistemi oscillanti renda ancora più festevole ed efferato l’avvicendarsi degli stati d’animo.

Il mio obiettivo – in qualità di agente letterario – è fungere da stazione emittente e indurre nella ricevente che ho trascelto dalla cinquina una sovrapposizione di stati mentali armonici suscettibili di entrare in risonanza quando la comunicazione verbale avvenga attraverso strutture sintattiche ondulatorie. Niente di nuovo all’apparenza, visto che l’oralità è utilizzata a scopi manipolatori fin dalla notte dei tempi; sennonché in questa circostanza la stratificazione dei piani di comunicazione, che vanno dal livello elettromagnetico debole alla superficie verbale, precipita il soggetto passivo in una condizione in cui le parole altrui coincidono all’istante con i presunti propri pensieri.

La prassi è la seguente: dapprima esalto la qualità della sua scrittura; decanto il talento che promana da ogni singola proposizione; osanno l’immaginario sconfinato; magnifico lo stile; incenso il lessico; mi adopero insomma con ogni mezzo per indurre una fuga nell’autoesaltazione in cui l’autore si faccia persuaso, attingendo alle sue proprie riserve maniacali, d’essere a un passo dal trionfo: poi, non appena mi rendo conto che questa certezza infondata lo ha pervaso fino a saturarne i meati intercellulari, del tutto inopinatamente inizio a criticare l’impianto della storia; disapprovo gli episodici tracolli di tono; biasimo l’inadeguatezza di taluni personaggi; deploro l’ingenuità endemica dei dialoghi, ratificando che il testo non rende onore al suo assiomatico talento letterario. L’aspirante scrittore di successo boccheggia, massimizza la traspirazione cutanea nel tentativo di migliorare l’ossigenazione dei tessuti, infine sprofonda in rapida successione dalla perdita di entusiasmo all’apatia, dalla tristezza alla malinconia, dalla depressione maggiore all’ideazione suicidaria. È il momento propizio per sfruttare lo stato di prostrazione ventilandogli la possibilità che una storia d’altro taglio possa innescare dentro di lui una reazione ossido-resurressiva, infondendo luce e vita nel corpo delle parole che scrive, santificandone lo stile.

(A dividersi la fava sono ormai in otto.)

Occorre procedere con prudenza nella manipolazione, ma con assiduità: bisogna alterare con garbo l’immaginario dello scrittore spudorato succube dello scrittore interposto; dirottarne l’ispirazione senza che se ne avveda; travisarne l’estro alla chetichella; finché il suo istinto di narratore – che a quel punto coincide con il mio – non gli suggerisca che sia giunto il momento per dedicarsi anima e corpo alla scrittura di qualcosa d’irrinunciabile che gli è stato infuso dal sottoscritto.

Seguono due mesi di alacre attività scrittoria sotto la mia stretta vigilanza, al termine dei quali mi ritroverò tra le mani il testo che avrei voluto scrivere senza averne il tempo. Comincia una nuova fase: inizia la caccia all’editore.

(Qualcuno si ritrova con una fava in sovrappiù?)

A dispetto della qualità del testo è arduo trovarne uno così ardito da essere disposto a investire dei danari in qualcosa che oltrepassi la soglia d’attenzione ormai circoscritta ai 140 caratteri di un tweet. Tanto vale editarsi da sé.

Mi chiamo Irto Tutore – giacché in me coesistono spigolosità e dedizione – e vanto una ultradecennale esperienza in campo mono-editoriale. Pubblico un libro ogni dodici mesi e allo scoccare del trecento sessantacinquesimo giorno lo ritiro dal mercato, invio le copie al macero e licenzio il successivo.

La mia strategia consiste in questo: compro i diritti di uno dei testi che mi auto-propino in qualità di agente letterario e lo mando in stampa usando l’accortezza che la copertina, la quarta, il dorso, le alette anteriore e posteriore, il risguardo, l’occhiello e il frontespizio, siano di colore nero, come le scritte stampate su di essi. Opposta la scelta tipografica per l’interno del volume, scritto a caratteri cubitali bianchi su pagine del medesimo colore. A quel punto parte la distribuzione, che vede coinvolto un sotto-sottoscritto, questa volta nei panni di un rappresentante di commercio connotato da una determinazione congenita inconcepibile per altre combinazioni razziali: il nippo-teutonico Iroto Rutte.

(Me ne dia due chili. Come di cosa? Di fave, no!)

Sarà egli stesso a illustrare la propria tattica di vendita.

È presto detto: ritiro dalla tipografia un discreto numero di copie della nuova pubblicazione e comincio a battere le librerie della grande città in cui esercito la più antica delle professioni (in principio fu il verbo non la meretrice; quella arriva a pagina 2). A differenza di quanto mettono in atto i miei concorrenti, non piatisco favori dai titolari del negozio, né cerco di corrompere i commessi affinché il libro sia esposto in vetrina o in prossimità della cassa o nella pila delle novità; mi limito ad aggirarmi con simulato interesse tra le scaffalature e attendere il momento propizio per infilare il tomo in mezzo ad altri testi e sgattaiolare via.

Nei giorni seguenti, nei panni di Uto Erotir (… faccia due chili e mezzo) – celebre critico letterario e divulgatore compulsivo che pubblica su una cinquantina di riviste culturali digitali autoprodotte – recensisco quella che proclamo la novità letteraria dell’anno, pubblicando l’intero testo a stralci sparsi un po’ dovunque. L’opera resterà avvolta da un alone di mistero – avendo omesso artatamente di divulgarne il titolo e l’autore – poiché né i compratori che si recheranno nelle librerie per accaparrarsela, né i librai che dovrebbero già essersela accaparrata, riusciranno a individuarla compulsando i cataloghi fino allo sfinimento.

Sennonché (sarà il caso, signor ortolano, che mi dia l’intera cassetta), un pomeriggio, in qualità di stagionato tele-studente a caccia di un’idea originale per la propria tesi, non mi presento alla cassa di una di quelle librerie reggendo il libro nero con le pagine intonse, che pretendo di acquistare al prezzo di copertina con un assegno scoperto.

Una volta a casa trascrivo di mio pugno gli stralci del testo pubblicati da Uto Erotir ricostruendone la forma originaria. Il risultato mi appassiona, come le due dozzine precedenti, ed entusiasma anche il mio tele-relatore, il quale acconsente a farmi discutere una tele-tesi su tutti coloro che so essere me.

(Mi ci metta anche un rava, meglio ancora se in omaggio.)


turi.totore@gmail.com