Un racconto di formazione, mirabilmente concentrato in poche pagine, questo Il vecchio scapolo di Adalbert Stifter (1805-1868), nella sua prima versione: l’autore ne elaborò una seconda stesura che apparve nei volumi degli Studi dello scrittore boemo, morto tragicamente, tra la malattia e una vita che non aveva incarnato il suo ideale d’amore e comunione. Margerita Carbonaro ci ripresenta quindi il primo racconto, che, per la sua icasticità e talvolta linearità semplice ma non banale, sente più vicino alla sua sensibilità, come spiega nella prefazione.
E in realtà il racconto va letto più volte, perché la sua trama potrebbe togliere terreno ad altri elementi che affiorano nel dopo: una natura animata, oggetti apparentemente banali che mandano bagliori d’altro, sentimenti nascosti da un comportamento che sembrerebbe ostile. E una componente religiosa che attraversa profondamente questa sorta di racconto di formazione tipicamente germanico e che però sconfina in un panismo magico che farà il suo ingresso nella letteratura – se si esclude il Goethe del Faust – molto più avanti nel tempo.
Non solo religiosità pànica, però, di derivazione spinoziana, come accadeva per Goethe, ma qualcosa di più complesso: Dio non è confuso con una eufemistica divinità avvolta da riti e modalità cultuali, ma è una realtà imperscrutabile e che però emana bagliori di senso, e di abbandono fiducioso, nonostante le crepe e le ferite, un po' come in quegli anni andava narrando il Manzoni del Fermo e Lucia: lo scrittore italiano conosceva bene il male, quello contrassegnato da un libertinismo fine a se stesso e che faceva della conquista l’oggetto assoluto del proprio essere, perché vi era entrato in contatto negli anni precedenti alla conversione e al matrimonio con Enrichetta Blondel. Un male incarnato dallo “scommettiamo” che Lucia coglie nel dialogo tra don Rodrigo e il cugino don Attilio: il che va molto più in profondità rispetto alla vulgata di un nobile invaghitosi della popolana.
“Non peccare contro Dio che ci ha sottoposto a questa prova” è la lectio che la madre adottiva ripete al figliastro, Victor, che sta per andare a trovare un misterioso zio che vive in cima all’isola circondata da un lago. Che è il vecchio scapolo del racconto, gran divoratore di cibo e apparentemente odioso single pieno di prosopopea e aristocratico distacco. In realtà incarna, chissà quanto coscientemente, una prova nel cammino verso la maturità del nipote: l’affetto non può essere esibito, ma conquistato dal giovane attraverso la dimostrazione di una maturità che consiste nell’accettazione dei limiti e dei legami familiari e affettivi.
Il mito pre-romantico della libertà sopra ogni cosa, che si era lentamente affermato nello Sturm und Drang, si avvia verso il compimento apparentemente “borghese” del matrimonio da accettare entro una certa età anche se tra dubbi e reticenze. Pena l’abbandono e l’isolamento. Teniamo conto che siamo in un momento storico in cui la scelta di non legarsi nel matrimonio era vista come una dimostrazione di debolezza, disagio mentale, a meno che non ci fossero altre scelte all’orizzonte, come quella monastica o comunque religiosa. O, al contrario, la negazione del legame familiare come ostacolo per l’acquisizione della libertà più autentica e anti-borghese, unico modo per congiungersi con il divino tutto della natura e della volontà. Ciò che è incarnato, anche nelle soluzioni più radicali, da alcuni esponenti dell’intellighenzia germanica nel passaggio tra classicismo e pre-romanticismo.
Quello che colpisce di questa storia e la modalità narrativa, tenendo conto che questa prima stesura è stata iniziata nel 1843: come si accennava, le cose della natura e delle abitazioni sembrano assumere una loro vita, in una circolarità cosmica che anticipa alcune soluzioni dell’école du regard, o di Bontempelli e di Virginia Woolf. Il lago è “uno specchio piatto, morbido, immobile, che pareva spingere in lontananza tutte le vette così che l’occhio guadagnasse spazio (…)”, ma anche sguardo sulla silente vita degli oggetti della nostra quotidianità: “solo i libri stavano come sempre sugli scaffali e attendevano che si disponesse di loro”.
Ciò che rende questa edizione del Vecchio scapolo un unicum e una anticipazione di ciò che la narrativa porterà con sé soprattutto nel Novecento è l’instabile – e per questo ancora più prezioso – equilibrio tra visione del mondo religiosa e forza nascosta nelle cose, la capacità di vedere oltre l’apparenza degli uomini svelando le secche della solitudine e degli insuccessi, piegate provvidenzialmente all’aiuto verso gli altri, in modo che gli antichi fallimenti possano divenire riparo e accompagnamento nel cammino dell’altro.
Adalbert Stifter, Il vecchio scapolo, Carbonio Editore, 2024, 136 pagine, 14,50 euro.
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Adalbert Stifter (Oberplan, Boemia, 1805-Linz, 1868) è considerato uno dei massimi scrittori austriaci, ammirato da autori come Mann, Nietzsche, Rilke e von Hofmannsthal.
Fu anche pedagogo e pittore. Affetto da una grave malattia epatica, morì suicida.
Tra le sue opere ricordiamo i romanzi: L’estate di San Martino (1857) e Witiko (1865-67) e le novelle riunite nelle raccolte Studi (1844-50), di cui fa parte Il vecchio scapolo, e Pietre colorate (1853), che contiene anche il celebre racconto Cristallo di rocca.
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