FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 68
novembre 2024

Scogli

 

DANIEL SAMOILOVICH, BERISSO 1928

di Francesco Tarquini



Berisso, dal nome dell’immigrato italiano cui è legata la sua fondazione, è una piccola città a 70 chilometri a sud di Buenos Aires, sulla cui storia nel secolo scorso si impresse come un marchio l’incombente presenza di due stabilimenti industriali di lavorazione della carne bovina conosciuti come frigoríficos. Impiantati nel 1907 da due compagnie nordamericane, Swift e Armour, realizzavano un completo processo produttivo assimilabile a una catena di montaggio, comprendente ogni fase dalla macellazione alla lavorazione e infine all’esportazione dal vicino porto di La Plata negli Stati Uniti e in Europa di carne congelata e prodotti in scatola.

Moltissimi immigrati provenienti dai più diversi luoghi del pianeta vennero attratti a Berisso da una prospettiva di lavoro che, a causa dell’inflessibile politica di sfruttamento condotta da Swift e Armour secondo le regole organizzative degli stabilimenti del grande distretto della carne di Chicago, si rivelò di particolare durezza. La linea di produzione, mentre costituiva la sola fonte di un modesto salario, fu un angosciante strumento di tortura per i lavoratori, sottomessi a vessazioni e persecuzioni anche di natura politica che dettero origine a pesanti conflitti repressi in modo sanguinoso.

Una materia sulla quale Daniel Samoilovich impianta questo suo Berisso 1928 - La vida futura, di cui si pubblicano qui tradotti alcuni significativi passaggi. Evocazione del congiunto sacrificio di uomini e animali sull’altare del capitale, recentemente pubblicato a Buenos Aires da Bajo la luna, Berisso 1928 è un testo succinto ma intensissimo nella sua forma di poema, in continuità con una antica tradizione ispanoamericana prolungantesi nel ventesimo secolo in opere grandiose come il Canto general di Pablo Neruda e Altazor di Vicente Huidobro. È del resto proprio nella forma-poema, strutturata attorno a un unico nucleo narrativo, che meglio si esprime la poetica di Samoilovich: Berisso 1928 si allinea così ai libri dell’autore da questo punto di vista più ambiziosi, El carrito de Eneas (2003), Las encantadas (2003), El despertar de Samoilo (2007).

Le circostanze rievocate nel testo trovano una conclusione nel 1928, con il sogno di liberazione di un operaio rivoluzionario. Ma la storia tormentata di quelli che furono i maggiori stabilimenti di macellazione dell’America del Sud continuò fino alla definitiva chiusura nel 1983, e sul denso quartiere operaio che era sorto intorno ad essi scese la polvere del tempo: ed è proprio da questa decadenza che prende inizio il poema, nella possente immagine di un’archeologia industriale carica di storie.

Sebbene la materia sia degna di Émile Zola – il Zola di Gérminal in particolare –, manca in Berisso 1928 ogni intenzione naturalistica e tantomeno epica; come è assente l’obiettivo di fondare e preservare una memoria collettiva in base a una concezione politica della poesia: obiettivo peraltro privilegiato della “poesía documental” così diffusa nel subcontinente iberoamericano in sintonia di intenti e di forme con la nordamericana “documentary poetry”.
Ma laddove queste tendono a far parlare direttamente i documenti relativi a questioni ed eventi che formano la materia del testo, la ricerca documentale che precede la stesura del poema di Samoilovich resta invisibile, assimilata e trasformata com’è nella coscienza dell’autore in parola che non ha bisogno di mediazioni. “L’autore – dichiara del resto il poeta argentino – ha cercato soltanto di cantare quanto aveva visto o letto, quanto gli avevano raccontato o aveva immaginato davanti alla rovina dei frigoríficos e alle porte e finestre cancellate del quartiere operaio che li circondava: oggi sospeso nel tempo, allucinato”.

Muovendo da questo approccio Samoilovich dà voce in un’ampia polifonìa a coloro cui era proibito ribellarsi contro un insuperabile stato di soggezione, contro un obbligatorio silenzio. La parola che descrive il funzionamento della linea di produzione – la spietata noria – e le condizioni di vita che essa scandisce e domina, è ripartita fra diverse voci narranti: quella degli stessi bovini indignati per la propria sorte si avvicenda con quella dell’operaia Teresa Karolak e soprattutto con quella di David Bronstein, immigrato ucraino portatore di una primitiva coscienza politica: ingenua miscela di luddismo e trotzkismo mal digerito che gli fa auspicare la distruzione totale dei frigoríficos, conducendolo infine a sognarla una notte del 1928 nella sua definitiva rovina, nel suo crollo finale sotto i colpi di una Rivoluzione più apocalittica che palingenetica.

Tuttavia i muti reperti archeologici che appaiono all’inizio del poema e che furono un tempo i superbi stabilimenti Swift e Armour, non sono opera di una rivoluzione bensì della decadenza postindustriale. I frigoríficos e la rivoluzione sognata hanno fatto naufragio insieme; e la “vida futura” sognata da David Bronstein nel linguaggio di una profezia si è rivelata volatile quanto lo stesso sogno. “Perché la “vita futura”? – annota a questo proposito l’autore –. Perché mi è venuto in mente che questa archeologia, in buona parte anche immaginaria, ci dica qualcosa sul futuro. Anche le nostre città tramonteranno: resterà – dice Bertolt Brecht – il vento che le percorre”.

Un’ ironia della Storia – “una broma del Universo” la definisce Samoilovich –, domina le storie umane. È qui il tema profondo di Berisso 1928, riscontrabile peraltro nella totalità dell’opera del poeta argentino: trionfo dell’impenetrabile potere del caso, della natura evasiva e deforme del sogno, della realtà come movimento, come fluire perenne.

Fra i tre esergo posti a inizio del libro appaiono due versi di un sonetto di Joaquim du Bellay, “Ce qui est ferme est par le temps destruit,/ Et ce qui fuit au temps fait résistance”, che Samoilovich traduce con “Lo que es firme, el tiempo lo destruye,/ sólo le opone resistencia lo que fluye” (“Ciò che sta fermo il tempo lo distrugge, / solo resiste al tempo ciò che fugge”). Versi che l’autore aveva già usato a esergo del Cuaderno del Tigre – undici poesie scritte fra il 1980 e l’82 –, e che connotano con efficacia la sua concezione che vede nel fluire e nella trasformazione l’unica possibile forma di permanenza. Tutto muta ad ogni istante; “dan vueltas y vueltas / las cosas / – scrive il poeta argentino nel suo Las Encantadas, cui Berisso 1928 più volte si richiama – y se transforman ésta / en aquella / y aquella en esta”.

Il modo in cui si invera questa concezione della realtà e dunque della causalità e del tempo, è il modo letterario dell’ironia; una “distanza partecipe” dall’oggetto che ne illumina la drammaticità quanto più la svela come prodotto del caso: insieme a un linguaggio che scaltramente giocando con simmetrie, rime, assonanze, consonanze, ottiene in un incisivo processo di straniamento acri effetti comici, che fanno risaltare la materia narrata in tutta la sua crudeltà e durezza sulle quali regna in ultima istanza l’assurdo.




POESIE DI DANIEL SAMOILOVICH
Da Berisso 1928
Bajo la luna, Argentina, 2023


SWIFT Y ARMOUR, 2018

A la entrada del predio, un cartel reza: “Aquí estuvieron
los frigoríficos más grandes de América del Sur”

Dos gigantes echados lado a lado,
durmiendo a pierna suelta
una mona eterna,
purgando la resaca de más de medio siglo
de ebria, metódica matanza,
controlada producción de sangre,
carne y latas de viandada, pesadillas,
madrugones y planillas.

¡Qué sorpresa, la de los dos durmientes,
si despertaran de repente! Creerían
estar hundidos en un sueño más arduo,
más profundo.

Dos ciudades en miniatura,
calcinadas por el sol,
desvalijadas por el tiempo, recorridas
por perros negros, decididamente hambrientos:
no hay que dejarse engañar por su manso
trotar a mediodía, si algo pasible
de ser comido hiciérase presente
—y el humano es bastante comestible—
se le echarían encima sin pensarlo mucho.
¡Eh, chuchos, sed algo más considerados
con vuestros amos del pasado!
¡Masticarnos es mala educación!
No, nada: desaparecida la alimentación
ya no hay nada que hacer, murió el respeto.

Esto quedó: la traslúcida fantasma de Swift,
el exoesqueleto de una mantis,
la cáscara del bicho
burlándose de amigos y enemigos
mientras el bicho huyó.

Duerme el vallado del rodeo
hoy sin vallas: la basura que lo colma no tiene
la menor intención de escapar.
Descontroladamente duerme la Oficina de Control
con sus vidrios reventados.
Duerme la enlatadora, duerme el muelle
donde alinéabanse los barcos
dispuestos a salir por el Canal Santiago
al Plata y de allí al Atlántico
cargados de viandada y jugo cárnico,
cortes congelados, charcutería,
y cuanta porquería consumieran
la Europa y América del Norte.
Duermen las sogas que amarraban esos barcos
pues los barcos se hundieron o fueron desguazados
o se mediohundieron y fueron medio desguazados
y no hay nada que atar a nada y las maromas roncan
sobre sí enrolladas, polvorientas,
momificadas. Al menor intento
de extenderlas se quebrarían, distraída
piel de viejos dragon


SWIFT E ARMOUR, 2018

All’ingresso della proprietà un cartello dice: “Qui sorgevano
i maggiori stabilimenti di macellazione dell’America del Sud”

Due giganti abbandonati fianco a fianco
che dormono alla grande
una sbornia perenne,
scontando i postumi di più di mezzo secolo
di un’ebbra, metodica mattanza,
produzione di sangue controllata,
carne in pezzi e carne inscatolata, incubi,
levatacce, schedature.

Che sorpresa per i due dormienti,
se si svegliassero di botto! Si crederebbero
immersi in un sonno più pesante,
più profondo.

Due città in miniatura,
calcinate dal sole,
saccheggiate dal tempo, dove vagano
cani neri chiaramente affamati:
guai a farsi ingannare dal loro mansueto
trotterellare a mezzogiorno, se qualcosa di idoneo
a esser mangiato si manifestasse
– l’uomo, si sa, è piuttosto commestibile –
lo assalirebbero senza troppo pensarci.
Oh, sacchi di pulci, un po’ più di rispetto
per quelli che vi furono padroni!
Metterci sotto i denti è maleducazione!
Macché, niente: mancando ormai la roba da mangiare
è morto il rispetto, non c’è niente da fare.

Solo questo è rimasto: il diafano spettro di Swift,
l’esoscheletro di una mantide,
il guscio dell’insetto
che amici e nemici ha beffeggiato
e intanto l’insetto si è squagliato.

Dorme il recinto delle mandrie
senza più palizzata: l’immondizia di cui è pieno
non ha alcuna intenzione di fuggire.
Senza ritegno dorme l’Ufficio di Controllo
con le finestre infrante.
Dorme l’inscatolatrice, dorme il molo
dove si allineavano le navi
pronte a uscire per il Canale Santiago
verso il Plata e poi verso l’Atlantico,
cariche di scatolette ed estratti di carne,
pezzi congelati, tagli da tripperia,
e ogni altra porcheria destinata al consumo
in Europa e in America del Nord.
Dorme il cordame che ormeggiava le navi
poiché le navi affondarono o vennero smantellate
oppure affondarono a mezzo o vennero mezze smantellate
e non c’è nulla da legare a nulla e russano le corde
acciambellate su sé stesse, polverose,
mummificate. Al minimo tentativo
di scioglierle si sfalderebbero, distratta
pelle di vecchi draghi.


DE ZAPORIZHIA A BERISSO

Infancia de David Bronstein en Ucrania, su viaje a América
y su nuevo hogar en Berisso en los años 20 del siglo ídem.

Pasa una sombra bajo el hielo, doy
un golpe con la maza, quieta queda
alelada la sombra. Corto el hielo
saco la carpa entontecida,
saco un recuerdo oscuro, frío,
que ni siquiera sé si es mi recuerdo,
tan distinto yo ahora del niño que aporreara
el río congelado una mañana
en un mundo lejano. ¿Es yo,
soy él? Fueron tantos avatares
fueron días tantísimos aquellos
que trajeron al niño hasta aquí: un camión
a Ekaterinoslav, un tren a Odesa,
un barco cruza el Bósforo, el mar de Mármara,
los Dardanelos, rumbo a Marsella.
Un pasaporte sirve para tres varones,
otro, para cruzar cinco mujeres: viene una,
madre retrocede con el pasaporte, cruza otra,
y así vamos hacia atrás y adelante,
en diagonal y línea recta, una y otra vez,
como un caballo de ajedrez
de frontera en frontera
hasta la mar abierta.



Fijensé si estaría loco que a los quince me hice comunista,
y dos años después me escapé de mi casa en Buenos Aires,
donde no había riqueza alguna, pero al menos
la hojalatería de mi padre y los trabajos de costura de mi madre
y el kiosco de cigarrillos que habíamos abierto
en una ventana de casa, daban para comer
y ya no tenía que ir, como en Ucrania, a una escuela de judíos
donde nos querían inculcar, so pena de ir a la Gehena, que Dios
era justo y sabio, qué tremendo disparate,
sino a un secundario público, donde no me iba
del todo mal. El castellano me gustaba, de toda la familia
fui el que más rápido aprendió. Me escapé de casa, decía,
y me elegí el peor trabajo del planeta:
obrero de los frigoríficos Swift, en Berisso.
Olalá, miren lo loco que estaría.



Desde todos los rincones de Berisso
llegan los condenados,
a pie, en bicicleta, a reunirse frente al portón
que atraviesan a paso sonámbulo, vencido,
mientras crece de las sirenas el sonido
y empieza, primero lenta, luego arrasadora
a girar la noria del día. Engulle la fábrica
ojos, brazos y piernas, vidas transformadas
en insumo de la máquina que muta
animales también vivos en latas de viandada.

Como subproducto, un olor
que no se te va más.

Por un pasillo en espiral suben las reses
desde el vallado del rodeo al tercer piso.
Requiere arte hacer que suban,
es obvio que si se volvieran contra aquellos
que a pica y latigazo las hostigan
los barrerían de un golpe.
Pero en los ojos de los animales
los hombres adivinan las señales de revuelta.
Una cabeza que espía
con una chispa de inteligencia al enemigo,
un flanco que se tuerce, no esquivando el puntazo
sino indagando su origen, una intención aviesa
insinuándose en los cuernos filosos, no aún botones,
un resoplar diferente al del miedo o el cansancio,
bastan para advertir planes de fuga y venganza
y allí concentran los hombres de a caballo
el estallido de los látigos, disuadiendo la posible rebelión.



Un poco más tarde la espiral
se angosta y se convierte en brete
por donde las reses pasan una a una
hacia dos matadores que ubicados en sendas garitas
van a, alternada y hábilmente,
asestarles tremendo mazazo entre los cuernos.
Por una rampa de cemento ruedan muertas
o atontadas al interior del frigorífico
y en un abrir y cerrar de ojos
decapitadas son y colgadas
por los garrones a la noria.



De los huesos, botones,
de las glándulas, insulina,
de la carne, latas de conserva;
tripas, hígado y vejiga, aparte;
con lo que no se filetea ni se envasa,
sebo y carnarina.
Y lo que ya al final no se sepa
qué mierda hacer con ello
se mezcla con, tal cual, la mierda
—gentilmente apodada “guano”—
y con los trapos empapados en sangre,
y se obtiene así abono
para los campos donde han de pacer
las víctimas futuras.



En el almuerzo, yo, el loco, les explico que somos
como las reses que subiendo estúpidamente por la rampa
se dejan matar y después pasan colgadas:
si nos volviéramos contra los que nos explotan
nada podría detenernos, en vez
marchamos manejados por cuatro capataces
tras los cuales está el Moloch del imperialismo
riéndose de nuestra desunión.



Me miran y no dicen nada.
No hace falta que lo digan; es evidente:
temen perder su vida miserable.
Miserable y todo, temen perderla, temen
el hambre que de todos modos tienen,
la orfandad de sus hijos
que igual son como huérfanos. Temen
perder los jergones en que duermen y engendran, la mesa
comprada a plazos, las piezas
en que nos hacinamos de a cinco, seis, ocho.
Capaz que hasta temen perder el olor
que no se va. No tengan miedo. Ni muertos
nos libraremos de él. ¡Ni la podredumbre
de nuestros cadáveres lo sofocará!


DA ZAPORIZHIA A BERISSO

Infanzia di David Bronstein in Ucraina, il suo viaggio in America
e la sua nuova dimora a Berisso negli anni ‘20 del secolo idem.

Passa un’ombra sotto il ghiaccio, le assesto
una mazzata, stordita
resta immobile l’ombra. Rompo il ghiaccio,
tiro fuori la carpa inebetita,
tiro fuori un ricordo oscuro, freddo,
non so neppure se è un ricordo mio,
ora così diverso io dal bambino che picchiava
sul fiume congelato una mattina
in un mondo lontano. È me,
sono lui? Furono tante le peripezie,
tantissimi i giorni
che quel bambino condussero fin qui: un camion
a Ekaterinoslav, un treno a Odessa,
una nave attraversa Bosforo, mar di Marmara,
Dardanelli, direzione Marsiglia.
Per tre uomini, basta un passaporto,
un altro fa passare cinque donne: una si fa avanti,
mia madre arretra col passaporto, passa un’altra,
e così andiamo avanti e indietro,
in diagonale e in linea retta, mille volte,
come un cavallo degli scacchi
di frontiera in frontiera
fino al mare aperto.



Pensate se non ero un pazzo, a quindici anni mi feci comunista,
e due anni dopo scappai da casa mia a Buenos Aires,
dove non è che si sguazzasse nell’oro, tuttavia
con la bottega di stagnino di mio padre e il lavoro di sarta di mia madre
e inoltre la vendita di tabacchi che avevamo aperto
a una finestra di casa, almeno si mangiava
e non mi toccava più, come in Ucraina, una scuola di ebrei
dove pretendevano di inculcarci, con minaccia di finire alla Geenna, che Dio
è giusto e saggio, che razza di idiozia,
fino a una secondaria pubblica, dove non mi andava
poi così male. Lo spagnolo mi piaceva, di tutta la famiglia
fui quello che lo imparò più in fretta. Scappai di casa, dicevo,
e mi andai a scegliere il lavoro peggiore del pianeta:
operaio degli stabilimenti Swift a Berisso.
Dite voi se non ero pazzo sul serio.



Da ogni angolo di Berisso
alla fabbrica s’avviano i condannati,
a piedi, in bicicletta, raccogliendosi davanti ai portoni
che varcano con passo sonnambulo, sconfitto,
e monta intanto delle sirene il suono
e comincia lenta dapprima e poi devastatrice
a girare la noria del giorno. Inghiottono i portoni
occhi, braccia, gambe, vite trasformate
in stimolazione per la macchina che trasforma
animali, vivi anch’essi, in carne inscatolata.

Sottoprodotto, un odore
che non ti va più via.

Per un corridoio a spirale viene su il bestiame
dal chiuso delle mandrie fino al terzo piano.
È tutta un’arte spingerlo a salire,
e se mai si rivoltasse contro quelli
che a colpi di picca e di frusta lo torturano
è ovvio che in un attimo quelli li spazzerebbero via.
Ma gli uomini negli occhi delle bestie
colgono il minimo segnale di rivolta.
Una testa che spia
con un lampo d’intelligenza il nemico,
un fianco che si gira, non per schivare la trafittura
ma per scoprirne l’origine, un proposito infido
che si insinua fra le corna affilate, non ancora ridotte a bottoni,
uno sbuffare che non denoti solo paura o stanchezza,
bastano a rivelare piani di fuga e di vendetta,
e allora gli uomini a cavallo moltiplicano
lo schiocco fragoroso delle fruste
per scoraggiare ogni ribellione.



Poco più avanti si restringe la spirale
per far luogo a un angusto corridoio
per cui i bovini passano a uno a uno
fino a due ammazzatori ben piazzati nelle loro garitte
che alternandosi gli assestano
fra le corna con abili mosse una tremenda mazzata.
Rotolano giù per una rampa di cemento morti
o tramortiti dentro il frigorifero
e in un batter d’occhio
decapitati sono e attaccati
per le zampe alla noria.



Dalle ossa, bottoni,
dalle ghiandole, insulina,
dalla carne, scatolame;
trippa, fegato e vescica, parte a sé;
con quanto non si sfiletta e non si inscatola,
sego e mangimi.
E quello con cui alla fine
non si sa che merda fare
lo si mescola, appunto, con la merda
– garbatamente battezzata “guano” –
e con gli stracci zuppi di sangue,
così ottenendo il concime
per i campi in cui pascoleranno
le vittime future.



Durante il pranzo, io, il fuori di testa, spiego agli altri
che noi siamo identici ai bovini
che salendo balordi quella rampa
si lasciano ammazzare e poi sfilano appesi;
se ci rivoltassimo contro chi ci sfrutta
nulla ci fermerebbe, e invece
marciamo manovrati da quattro caporali
tra i quali sta il Moloch dell’imperialismo
che si fa beffe della nostra disunione.

Mi guardano e non parlano.
E del resto non serve; è evidente
che temono di perdere la loro vita miserabile.
Per quanto miserabile temono di perderla, temono
la fame che hanno addosso comunque,
che gli restino orfani i figli
che sono comunque come orfani. Temono
di perdere i pagliericci dove dormono e generano, il tavolo
comprato a rate, le stanze
in cui in cinque, in sei, in otto ci ammucchiamo.
Può darsi che temano di perdere persino l’odore
che non va via. Niente paura. Neanche da morti
ce ne disferemo. Neanche il putrefarsi
dei nostri cadaveri lo soffocherà!


NO PUEDE SER TODO, ESTO

Habla Teresa Karolak, planta baja,
sección de tripería

Desde los pisos superiores, por una canaleta
bajan las entrañas, una masa humeante.
Hay que separar a medida que baja, poner
hígados, corazones, riñones
en cintas diferentes que rechinan trac-trac-trac.
Son partes delicadas, frágiles,
son necesarias manos de mujer.
Y el olor se te queda en las manos.

Hígados, corazones, riñones.
¿Es todo, esto? No, no puede ser.
Allí está una de nosotras, distraída,
y aquí nace el impulso de tirar:
nos gusta el vuelo rojo,
la parábola de la carne
desde la mano que la arroja
hasta la cara que recibe el golpe.
Reímos. El capataz acaba de pasar,
casi rozándole la espalda pasa rauda la carne.
Escucha las risas, se da vuelta pero cómo
puede saber quién lo hizo. No puede.
A veces ya ni se da vuelta, mientras se aleja
casi se escucha su cerebro rechinar
como la cinta donde van
hígados, corazones, riñones.

Hígados, corazones, riñones.
¿Es todo, esto? No, no puede ser.
Entonces los sábados una se arregla
y se va a bailar.
Mirá vos: así que las piernas no sólo servían
para llevarte de casa al infierno.
Quiero girar, marcar el ritmo
con los pies, me pinto
las uñas de los pies de rojo, rojo otra vez,
por lo menos las vacas no tienen dedos,
por lo menos hay una diferencia.

Diez dedos pintados de rojo
fueron a una fiesta.
Uno le dijo a los otros:
¿Bailamos con esta?
¡No!, respondieron los otros a coro.
¡No, que apesta!

Porque no puede ser todo, esto.
David dice que hay más, que hay
una revolución mundial.
Revolución quiere decir dar vuelta todo.
En lugar de trabajar, rompemos la noria,
rompemos los libros de la oficina de control,
corremos a los capataces que huyen despavoridos,
soltamos las vacas, tiramos abajo las vallas del rodeo,
y la fábrica cierra. El edificio es tan grande
que cuesta demasiado voltearlo así que ahí queda
despanzurrado, gris, con las ventanas rotas
y las puertas batiendo con el viento
por toda la eternidad: y perros dando vueltas
preguntándose cómo es que ya no hay
ni un poco de carroña, y pajarracos
espiando los muelles, los playones de embarque
donde las barcazas están echadas como animales muertos,
pero no animales transables, sino cadáveres inútiles,
de hierro y madera, nadie pensaría
en meter los pedazos de una barcaza en ruinas
dentro de una lata. No sirven ni siquiera
para desguace, allí están, rodeados de sogas
que no amarran nada con nada.


NON PUÒ ESSERE TUTTO, QUESTO

Parla Teresa Karolak, pianoterra,
reparto tripperia.

Dai piani superiori, giù per un canaletto
scendono in massa fumante le frattaglie.
Via via che scendono bisogna separarle, collocare
fegati, cuori, rognoni
su nastri diversi che cigolano trac-trac-trac.
Sono pezzi delicati, fragili,
servono mani femminili.
E l’odore ti si appiccica alle mani.

Fegati, cuori, rognoni.
E questo è tutto? Non può essere, no.
Ecco là una di noi che si è distratta,
e ci viene voglia subito di un tiro:
ci piace quel rosso volo,
la traiettoria della carne
dalla mano che lancia
alla faccia che si prende il colpo.
Ridiamo. È appena passato il caposquadra,
quasi gli sfiora la spalla la carne che passa volando.
Sente ridere, si gira ma come
fa a sapere chi è stata. Non può.
Certe volte neanche si gira, mentre si allontana
si sente quasi il suo cervello che cigola
come il nastro su cui passano
fegati, cuori, rognoni.

Fegati, cuori, rognoni.
E questo è tutto? Non può essere, no.
E perciò il sabato una si fa bella
e va a ballare.
Ma guarda un po’: allora le gambe non servivano soltanto
per portarti da casa all’inferno.
Voglio ruotare, battere il ritmo
coi piedi, mi tingo
di rosso le unghie dei piedi, sempre il solito rosso,
le vacche perlomeno non hanno le dita,
c’è sempre una differenza, perlomeno.

Dieci dita dipinte di rosso
andarono a una festa.
Uno disse a quegli altri:
Balliamo con questa?
No, in coro risposero gli altri,
no, ché appesta!

Perché questo non può essere tutto.
Dice David che c’è ben altro,
una rivoluzione mondiale, c’è.
Rivoluzione significa buttare tutto all’aria.
Invece di lavorare distruggiamo la noria,
distruggiamo i libri dell’ufficio di controllo,
inseguiamo i capisquadra che fuggono impauriti,
liberiamo le vacche, abbattiamo i recinti,
e la fabbrica chiude. L’edificio è così grande
che smantellarlo è molto faticoso, e là rimane
sventrato, grigiastro, le finestre rotte
e le porte che sbattono col vento
per tutta l’eternità: e cani che si aggirano
chiedendosi come mai più non si trova
neanche un pezzetto di carogna, e certi uccellacci
che guatano i moli, le piattaforme d’imbarco
dove le chiatte giacciono come animali morti,
non animali smerciabili, però, ma inutili cadaveri,
di ferro e legno, nessuno penserebbe
di mettere i pezzi di una chiatta in rovina
dentro una scatola di latta. Non servono neppure
per la demolizione, là stanno, fra mucchi di corda
che non legano niente con niente.


El sueño de David Bronstein

Una noche de julio de 1928,
David Bronstein se asoma a la vida futura

En los muelles sobre el Canal Santiago
donde antaño se embarcaban
rumbo a ultramar las medias reses y la carne envasada,
una horda de hombres libres se ha instalado a pescar.
¿Me entienden? ¡Libres!
No que nos dejaron afuera, leftouteados,
sino que somos libres de verdad, y un cartel dice:
“Aquí estuvieron los frigoríficos más grandes
de América del Sur”.


Aclarémonos: ¿dónde estamos,
la Revolución, sucedió, sí o no?
¿Fue hace cien, hace mil años? ¿Qué es
este silencio? ¿Nos pasamos de rosca, matamos
a todo el mundo, incluso a nosotros?
No puede ser, no tiene sentido.
¿Qué pasó, qué pasa? ¡Que alguien conteste!
¡David Bronstein: despertate!

No es tan fácil. No puedo. No todavía.
Pero empieza a llover y la lluvia
va desvaneciendo la pesadilla,
va deshaciendo baldazo a baldazo
el ruinoso frigorífico,
las maromas cenicientas, los perros salvajes:
todo eso se diluye y surge de la tierra lavada
un resplandor, la promesa o añoranza
de un lenguaje, un nombre, un tiempo
que quizás no hayan existido nunca
y que ni siquiera estamos seguros
que vayan a existir, pero la lluvia sigue
cayendo, se arremolina
y nos empapa de pies a cabeza,
nos cala hasta el tuétano y nos limpia el corazón
despertándonos al fin a la vida futura.


Il sogno di David Bronstein

Una notte di luglio del 1928,
David Bronstein si affaccia alla vita futura

Sui moli del Canale Santiago
da dove si imbarcavano un tempo
per oltremare carne in scatola e quarti di bovino
un'orda d'uomini liberi si è piazzata a pescare.
Avete capito? Liberi!
No, non ci hanno buttati fuori, leftoutati,(*)
siamo davvero liberi, e un cartello dice:
"Qui sorgevano i maggiori stabilimenti di macellazione
dell'America del Sud".


Cerchiamo di capire: dove siamo,
c'è stata o no la Rivoluzione?
E' stata cento, mille anni fa? Cos'è
questo silenzio? Ci siamo andati pesanti, abbiamo fatto fuori
tutti quanti, noi compresi?
Non può essere, non ha senso.
Che è successo, che succede? Che qualcuno risponda!
David Bronstein, svegliati!

Non è così facile. Non ce la faccio. Ancora no.
Però si è messo a piovere e la pioggia
l'incubo lo sta facendo svanire,
sta disfacendo una secchiata dopo l'altra
lo stabilimento in rovina,
le corde color cenere, i cani selvaggi:
tutto si diluisce e sorge dalla terra lavata
un fulgore, la promessa o nostalgia
di un linguaggio, un nome, un tempo
che forse non sono mai esistiti
e che non siamo neanche certi
che esisteranno mai, tuttavia la pioggia seguita
a cadere, forma mulinelli
e ci infradicia da capo a piedi,
fino al midollo ci inzuppa e ci deterge il cuore
infine risvegliandoci alla vita futura.

(*) "Leftoutati" è dall'inglese Left Out, l'ordine di licenziamento.


Traduzione dallo spagnolo di Francesco Tarquini




Daniel Samoilovich
nato a Buenos Aires nel 1949, dove vive, è una figura centrale della poesia argentina degli ultimi trentacinque anni, non solo per la rilevanza della sua vasta produzione poetica ma anche per il ruolo svolto dalla rivista “Diario de Poesia”, di cui è stato cofondatore e che ha diretto dal 1986 al 2011. È traduttore dall’inglese, dal francese e dal latino. Tra gli autori tradotti Shakespeare e Orazio.
Ha pubblicato dodici libri di poesia, tra i quali: Las Encantadas (Spagna, 2003), tradotto e pubblicato in Italia con lo stesso titolo da Fili d'Aquilone nel 2019 a cura di Francesco Tarquini, e nel 2023 in Inghilterra con il titolo The Enchanted Isles; El carrito de Eneas (Argentina, 2003); El despertar de Samoilo (Argentina 2005), Molestando a los demonios (Spagna, 2009), anch'esso tradotto e pubblicato nel 2011 da Fili d'Aquilone col titolo Molestando i dèmoni, sempre a cura di Francesco Tarquini. Berisso 1928, pubblicato a Buenos Aires nel 2024, è la sua più recente opera di poesia.
Diverse le antologie che raccolgono la sua opera, tra le quali si segnalano: La nuit avant de monter a bord (Canada, 2001), Driven by the wind and drenched to the bone (Inghilterra, 2007), Siete colinas de jade (Messico, 2015) e Rusia es el tema - Obra Reunida 1973-2008 (Argentina, 2015).
Samoilovich ha inoltre dato conferenze e diretto seminari su poesia e poetica in Spagna, Argentina, Venezuela, Cile, Italia, Stati Uniti e Brasile.


francescotarquini1940@gmail.com