FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 66
marzo 2024

Inverno

 

MARCO LUCCHESI, CLIO

di Stefano Busellato



La lontananza, sai?

Che cos’è la poesia? Dobbiamo intenderci. La risposta immediata parrebbe essere: “scrivere versi”. Ma giungere a scrivere versi è l’ultimo passo di un lungo cammino che richiede numerose caratteristiche. Ed è solo il percorrere tale cammino, solo il possedere le molte caratteristiche necessarie che rende il semplice scrivere versi – poesia.
Essa nasce da lontano, anzitutto da uno sguardo peculiare. Poiché il poetico prima che fatto estetico è specificità percettiva; avanti d’essere attività intellettuale è disposizione fisiologica, osservazione, ricezione alterata del dato bruto che legge, tra i presupposti sensoriali ordinati dall’abitudine, relazioni diverse, legami nascosti, le correspondances baudelaireane, capaci di restituire una conoscenza dell’esistente per connessioni di congruenze inattingibili alla visione pratica e pragmatica che regola il quotidiano. La poesia appartiene alla gnoseologia. Perciò non è la mano che scrive i versi, non è la volontà che fa sedere alla scrivania per disporli su carta, è invece necessità che promana dalla persona intera che abita il poetico, ne parla la lingua, ne pensa la logica. Quanto dice Celan di Mandel’štam vale per la poesia in generale: essa è tale quando colui che la scrive «sa parlare sotto l’angolo d’incidenza della propria esistenza». È errore grossolano giudicare i versi in base alle categorie del bello. Il metro di giudizio è il vero; la diade è etica: autentico/inautentico. «Solo mani veraci scrivono poesie veraci. Io non vedo nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e un poema», aggiunge Celan. La lirica di Lucchesi rivela questo: la persona intera autenticamente poetica.

Mi sia permesso allora di tornare col ricordo a un incontro che accadde, in un tempo indefinibile, in una città toscana. Un pomeriggio freddo. Pioveva tanto che pareva il cielo fosse deciso ad affogare la terra. Una piazza, costruita per fare spazio al marmoreo protagonismo romanico-pisano della chiesa troneggiante al suo centro. Sul lato della piazza, di rimpetto all’angolo della facciata, un caffè d’eleganza sobria e raccolta. Prendeva il nome dall’ultimo incompiuto lavoro di Puccini, Turandot, l’opera ambientata in una distanza orientale onirica, «al tempo delle favole». Il caffè era deserto, o almeno così lo rese nel ricordo la conversazione tra due amici sconosciuti, che ripresero con naturalezza la profondità di un discorso mai fatto, incentrato sui silenzi di un’affinità nata nel senza tempo né luogo della terra dei senza perché, dove non di rado accadono le cose preziose. Da quella conversazione ebbi – più sicura di un sillogismo – l’intuizione che parlavo la medesima lingua autentica e intera della persona con cui conversavo, la certezza che sarei stato a casa nella sua poesia e che sarei riuscito a tradurla con la stessa facilità del passare da una lingua madre a un’altra lingua madre.
La lunga conversazione e ondivaga di quel pomeriggio m’aveva già schiuso, ancor prima di leggerli, l’accesso ai versi che il lettore ha ora in mano. Versi che si muovono entro due principali coordinate che, se volessimo dare nome a latitudine e longitudine – e uscire così dai triti limiti di forma e contenuto – dovremmo chiamare: lontananza e silenzio.

Latitudine. Lontananza. Le poesie qui raccolte parlano di viaggi, di luoghi distanti. Viaggi reali o metaforici; in paesi precisi, culture straniere, o seguendo la cartografia della propria interiorità che è sempre straniera a se stessa e nella quale tracciare rotte significa esplorare le vie che congiungono l’individuale all’universale. Liriche di viaggi lirici, in cui la distanza parla nel dialetto dell’ampiezza e questa diviene l’estuario dove si incontrano e miscelano Erfahrung e Erlebnis. Per questo i versi di Lucchesi hanno un odore tanto marino, sia quando del mare trattano direttamente, sia quando indirettamente, non parlandone, ne fanno presagire la presenza e i colori. «A poesia é o mar vermelho do real / afoga-se quem busca a promissão [La poesia è il mare rosso del reale /s’affoga chi cerca la promessa].
Pavese si chiedeva: «Che sia sempre qui il bello del viaggiare: riscoprire il proprio luogo?». Ma questo proprio luogo nella poesia di Lucchesi rivela essere il mare stesso, affogatore di uomini di omerica memoria, luogo di naufragi, inabissamenti, dolori e nostalgia, ma anche linguaggio comune capace di unire le coste a distanze oceaniche. Il mare diventa qui la perenne periferia che non conosce centro, che smaschera il centro, ogni centro, quale menzogna di una violenza geometrica che finge di non essere, anch’esso, periferia di altre lontane periferie.
Lontananza non solo geografica, anche temporale, che si dilata ai tempi lusitani precoloniali, sulla scia delle esplorazioni di Duarte Pacheco Pereira, o alle visioni e agli accenti del rinascimento italiano o, in generale, della cultura imponente che, nascosta, sorregge i versi e della quale la stupefacente (per numero e generi) produzione bibliografica dell’autore è testimone. Lontananza temporale che è storia, quella storia che è poesia, come recita l’esergo burckhardtiano scelto dall’autore per il «Prologo febbrile», ma è anche storia della poesia. E così arriviamo alla seconda coordinata.

Longitudine. Silenzio. Le poesie qui presentante recano la marca del silenzio quale necessità storica che ha imposto e rivelato la storia della poesia del Novecento. Nel 1873 Rimbaud poteva ancora dire: «Il faut être absolument moderne. Point de cantiques: tenir le pas gagné». Chiunque voglia proseguire nella storia della poesia, dovrà oggi dire: «Il faut être absolument contemporain», e la contemporaneità ha recato in sé la scoperta letteraria del silenzio, patente d’autenticità ad ogni scrittura che anela ancora al dire. Scoperta che potremmo datare al 18 ottobre 1902 con la lettera di Lord Chandos a sancire la rottura tra parola e mondo, la fine del sogno illuminista della perfetta corrispondenza encyclopédique tra definizione e cosa. Il 16 luglio 1904, Leopold Bloom detonò la monogamia di parola e significato: ad Ulisse non restò allora che essere sedotto dal kafkiano silenzio delle sirene del 1917, e a noi quel silenzio [Schwaigen] ci fu offerto quale ultima parola con cui si conclude il Tractatus logico-philosophicus, scritto nel macello mondiale della Grande Guerra e pubblicato nel 1921.
Un silenzio che, se da un lato significa la perdita dell’illusione di poter dire tutto, dall’altro rivela però anche il suo potere di accennare, di indicare, di additare: zeigen, («quel che può essere mostrato non può essere detto») e riscoprire così la lontana lingua oracolare di Eraclito, quella che “non dice, non nasconde, ma σημαίνει [addita, allude, indica, mostra]», investendo allora il linguaggio della poesia di un’urgenza e di possibilità mai avute prima. Così Orfeo, dalla «notte di fiera della perfida Babele» di Campana, può riprendere a cantare, così può nuovamente tornare a parlare attraverso i Sonetti di Rilke.
Di questo silenzio contemporaneo è piena espressione la poesia di Lucchesi. Essa scandaglia il «Breve longo / raso / fundo / abismo / vago / da palavra» [Breve lungo / raso / fondo abisso / vago/ di parola] percorrendo la «Terra / de silêncio / ventura e promissão» [Terra di silenzio / ventura e promessa]. «Sujo de silêncio / ébrio / de silêncio» [Sporco di silenzio / ebbro / di silenzio] immerge tecnicamente «o fervor / das palavras» [il bollore / delle parole], «na ruiva / consonância / do silêncio» [nella ramata / consonanza / del silenzio].

Tecnicamente, perché la consapevolezza contemporanea del silenzio non si limita ad essere mero oggetto lirico, diviene tecnica poetica d’espressione. I versi risultano essere la rimanenza di una molteplicità di continue sottrazioni, dando come prodotto una coloratura ermetica e minimalista che rifiuta lo spreco logorroico tipico del nostro quotidiano nel quale, in una continua emorragia verbale, ogni parola vale l’altra e, consunta, si livella nell’insignificanza generale.
Qui si procede invece con pochissime parole, scelte con attenzione che è quasi diffidenza o timore. E non è un caso che ciò avvenga in uno dei maggiori cosmopoliti del linguaggio quale è l’autore, poiché quante più lingue si conoscono tanto più la consapevolezza del silenzio si fa acuta e cosciente. La capacità di padroneggiare molte forme di vita linguistica non permette maggiore espressione, permette una più alta maestria nel costeggiare i confini del linguaggio oltre i quali si apre lo sconfinato regno dell’ineffabile, dell’inexprimable dell’Unsagbares, nostra vera patria, «ao norte / de uma febre ardente / e a lœste / de uma dor impronunciável» [a nord / di una febbre ardente / a ovest / di un dolore impronunciabile].

Così prendono posto i versi nella pagina di Lucchesi, nella latitudine della distanza e nella longitudine del silenzio – anche da un punto di vista grafico. Poche parole distanziate da spazi bianchi, rientri, tabulazioni, punteggiate di piccoli vuoti grammaticali, rare agogiche musicali o minuscole effigi. Si sbaglierebbe a leggere queste soluzioni grafiche unicamente come elementi estetici o frutto del capriccio. Esse sono il risultato visibile della segnalata consapevolezza del silenzio: anche le zone bianche della pagina richiedono lettura. Esse costituiscono la cassa di risonanza nella quale vibrano gli armonici delle rade parole cui si è scelto di dare scrittura. Ed anche quando la poesia si fa virtuosismo di continuità (è il caso di Clio), non cambia la forma né l’importanza del silenzio lasciato negli spazi bianchi che circonda gli atolli espressivi.
Su questo componimento l’autore lascia una preziosa indicazione di lettura: «La si deve leggere senza interruzioni». Si provi a farlo seguendo la prosodia grafica presentata, dando lettura anche al bianco. Gli spazi riveleranno allora un più profondo significato. E un ulteriore volto. Essi sono, usando un’immagine nietzscheana, come «macchie luminose per sanare l’occhio offeso dall’orrenda notte». Detto in versi: «modula / a pupila / nas trevas / o raio / do poema / em sua / tão densa / luz» [muta / la pupilla / nelle tenebre / il raggio / della poesia / nella sua / così densa / luce].
Nella notte, nell’intempesta nox, le distanze si annullano o si allargano a dismisura. Nella notte il silenzio si fa fondo o assordante. Notturna è l’ora della poesia di Lucchesi, vissuta con una disposizione fisiologica specifica che diviene più volte marca personale della propria poetica: l’insonnia.

Lontananza, silenzio, insonnia. «A maresia / à beira / página / : / molhe / onde / se rompe / a onda / espessa / da insônia» [«la brezza marina / in riva / alla pagina / : / bagna / onde / s’infrange / l’onda / spessa / dell’insonnia». Nelle poesie che seguiranno, l’insonnia mostra essere la voce notturna che esprime il silenzio della distanza. Ma essa non è frutto di poesia, ne è la madre. Poiché letta in queste liriche, l’insonnia pare essere conseguenza diretta di una sensibilità al dolore, che mai gridato, è udibile quale timbro taciuto di molti versi. L’ipersensibilità al dolore e al mesto è una delle caratteristiche che si diceva all’inizio e che il poeta obtorto collo deve avere in eccesso. Mai essa è stata descritta meglio e più intimamente che in una straordinaria lettera scritta da Rilke a Lou Salomé: «Io sono come il piccolo anemone che una volta vidi a Roma nel giardino: si era talmente aperto durante il giorno, che a sera non riusciva più a richiudersi. Vederlo era terribile, come restava spalancato in mezzo al buio del prato e continuava ancora ad assorbire, quasi forsennatamente, nel calice aperto a dismisura, e sopra la notte che esondava senza fine». Leggere i versi qui presentati, quelli scritti e quelli taciuti, significa allora vegliare assieme all’autore, e lui assieme noi, condividendo quanto, stando soli, normalmente ci separa e ci isola. Così, per proprietà alchemica del poetico, vedremo la lontananza trasformarsi nel suo contrario, e sentiremo che, uscendo dalla nostra solitudine, è possibile scoprire vicinanze impensate.




POESIE DI MARCO LUCCHESI
da Clio
Edições Esgotadas, Portogallo, 2024


IMPRESSÃO

O corpo de Laura

banhado de nuvens, corais,

bosque de sedução para os olhos meninos, que não sabem

onde melhor possam empregar a vista.

E todavia era uma parte de amar:

um sonho, uma impressão evanescente.


IMPRESSIONE

Il corpo di Laura

bagnato di nuvole, coralli,

bosco di seduzione per occhi fanciulli, che non sanno

dove ancor migliore è guardare.

E tuttavia era parte dell’amare:

un sogno, un’impressione evanescente.


DISSOLUTO

Ruge a fera impura no fosso dos milênios,

muge ríspida e escura a trompa dos séculos.

Um copo de licor Preste João – e seu rumor de áspide rubra

Dissoluto licor / dissolvente:

a poesia é o mar vermelho do real

afoga-se a quem busca a promissão


DISCIOLTO

Ruggisce l’impura fiera nella fossa dei millenni,

muggisce ruvida nella tuba dei secoli.

Un bicchiere di liquore Presbyter Iohannes – col suo brusio di aspide scarlatta

Disciolto liquore / dissolvente:

la poesia è il mare rosso del reale

s’affoga chi cerca la promessa


CARTAGO

A insônia e seus resquícios:
soníferos, migalhas
Desabam os fenícios
os sonhos e muralhas


CARTAGO

L’insonnia e le sue tracce:
sonniferi, briciole
Abbattono i fenici
i sogni e le mura


OFÍCIO

a superfície em que vou imerso

esta

e não outra


minha profundidade


OFFICIO

la superficie nella quale immerso vado

questa

e non altra


la mia profondità


SONO BRANCO

assoma
no seio
da tarde

afogada de espanto
e de luz


SONNO BIANCO

s’eleva
in seno
alla sera

affogata di stupore
e luce.


ESPESSURA

a selva

espessa

do indeterminado

tangida

de secretas
harmonias


SPESSORE

la selva

spessa

di indeterminato

toccata

da segrete
armonie


TREVAS

sujo de silêncio
ébrio
de silêncio

:

aclara
as úmidas

cisternas
do coração


TENEBRE

Sporco di silenzio
ebbro
di silenzio

:

rischiara
le umide

cisterne
del cuore


LUZ

modula
a pupila
nas trevas

o raio
do poema

em sua
tão densa
luz


LUCE

muta
la pupilla
nelle tenebre

il raggio
della poesia

nella sua
così densa
luce


TIGRINA

a noite escura
das origens

tecida em márico

ou tigrina.

a língua de babel

:

e a cada

Pedra

o fervor
das palavras


TIGRINO

la scura notte
delle origini

tessuta in amarico

o tigrino

la lingua di babele

:

e ad ogni

pietra

il bollore
delle parole


DORMIR

um todo que se agrega sem fronteiras


DORMIRE

un tutto che si aggrega senza frontiere


MEMORÍA

Uma porção intermitente de beleza:
de pronto
me abandono
às linhas sinuosas


MEMORIA

Un’intermittente porzione di bellezza:
e sùbito
mi abbandono
alle linee sinuose


Traduzione dal portoghese di Stefano Busellato


L’introduzione e le traduzioni dei testi poetici provengono dall’ebook Vicino alla distanza – Marco Lucchesi, Traduzione e introduzione di Stefano Busellato, Tesseractum Editorial, Brasile, 2021. Per gentile concessione.




Marco Lucchesi
nato a Rio de Janeiro nel 1963 da genitori italiani, attualmente è Presidente della Fundação Biblioteca Nacional e Pressore all’Università di Rio de Janeriro. Poeta, scrittore, saggista, professore, editore e traduttore, si è laureato in Storia e in Scienze della Letteratura, con Post-Dottorato in Filosofia del Rinascimento. Parla più di venti lingue. È autore, tra gli altri, dei romanzi O bibliotecário do imperador [Il bibliotecário dell’imperatore], O Dom do Crime [Il Dono del Crimine] e Marina (2024).
Domínios da Insônia [Domninî dell’Insonnia] raccoglie, in larga parte la sua opera poetica, Clio (Portogallo, 2024) è il suo ultimo libro di poesia. Ha tradotto Primo Levi, Umberto Eco, Rilke, Rumi, Barbu, Khliebnikov, Silesius, Juan de la Cruz. Ha ricevuto, tra gli altri, i premi Jabuti, Premio Pantera d’Oro, Premio Città di Torino, Premio George Bacovia. I suoi libri sono stati tradotti in più di dieci lingue.


stefano.busellato@gmail.com