È sempre più raro trovare oggi, in giro tra gli scaffali delle librerie, delle «novità» poetiche di rilievo. Soprattutto per ciò che concerne il lato filosofico del poetare, che dice il «vero» disvelando aspetti nascosti, non detti e sottaciuti del tempo individuale e storico in cui viviamo. Come ingiungeva Heidegger in Sentieri interrotti, la domanda di Hölderlin: Wozu Dichter im dürftiger Zeit? «Perché i poeti nel tempo di povertà?», va sempre di nuovo riproposta, là dove per «povertà» dobbiamo intendere quel tempo che nell’esaltare il dominio dell’essente presente – il mondo strabordante delle cose, degli oggetti, della tecnica, il narcisismo dell’immagine – cela o oblia l’essere profondo delle cose stesse; è il tempo della morte di dio e della «Mezzanotte del mondo» (Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 250). Il nostro tempo, più di quello dell’epoca di Heidegger è questa mezzanotte del mondo. Il libro di Marisa Martínez Pérsico, Il cielo tra parentesi, fa così eccezione, è un gioiello di eleganza, di finezza e di rigore linguistico, oltre che, allo stesso tempo, di quella sauvagerie che tiene ferma la naturalità fisica, diremmo, del gesto poetico, la forza del suono della parola, l’energia dell’immagine evocata; in una parola: la verità del dire poetante.
E qui che si tratta di un dire poetante che s’approssima molto al filosofare, in versi. L’ha spiegato bene Luis García Montero, nella sua bella Introduzione: c’è un impegno di verità in questi versi che invoca la trascendenza del dire poetico, in rapporto ad ogni forma di riduzione all’essente presente, infinitamente ripetuto e ripetentesi, e alla fine privo di senso: «C’è un elemento interessante che si relaziona con la ricerca della verità e la trascendenza poetica. Il bombardamento di Sarajevo è un fatto imprescindibile per conoscere la Storia degli ultimi decenni. Tutte le disgrazie del mondo sono importanti. Però in questi fatti atroci osservati dal poeta c’è qualcosa in più: i territori che sono stati soggetti a catastrofi solitamente poi soffrono un processo di banalizzazione e diventano persino luoghi turistici. […] Ma il poeta non può accettare questa banalizzazione e osserva la realtà senza perdere la coscienza che sono stati commessi delitti feroci e respinge la trasformazione turistica del mondo. Questo è ciò che distingue la verità dell’artista dalla superficialità della Storia che avviene con il passare del tempo» (p. 7).
Ottimamente detto. Io parlerei, in questo senso, di una parresìa poetica, nella maniera in cui la intendeva Foucault: un dire-vero, un dire-franco o dire-secondo-verità, che impegna il lettore sempre in prima persona. Ad esempio, un filosofo non avrebbe mai pensato di poter leggere, grazie alla poesia «Anatomia espansa», il concetto di Berkeley (esse est percipi) in esergo, ma posto all’interrogativo («La realtà delle cose consiste / nell’essere percepite?»), nel modo in cui viene illuminato poeticamente dalla Martínez Pérsico: «Basta un pezzo di marmo tra le tue dita / per sapere del freddo. / Una lucertola scivola sui miei capelli /se la pioggia ti bagna / […] Non conosco questo mondo / senza che tu lo percepisca…» (p. 67). È la verità di Berkeley, rovesciata in un intimismo corporale e fisico, che si mostra qui con coraggio. Così anche per «Verità e metodo», in cui è fatta parola di una nozione precaria o ermeneutica di «verità», che si salda alla menzogna correlata di un quotidiano in progressivo sfaldamento, alla perdita degli affetti e delle cose: «Bello andare coi tuoi libri in giro per il mondo /senza sapere in quale fiera / li hai comprati / La verità è precaria: / il tempo rivela la sua menzogna. / L’annuncia su qualche tovagliolo / destinato a essere dimenticato / tra le poltrone» (p. 77).
Nei «Paradossi del libero arbitrio» c’è poi la consapevolezza chiara e, per certi aspetti tragica, della necessità dell’essere, o dell’assenza di libertà d’arbitrio, e il dovere di perdere un mondo di possibilità quando si attua la pretesa «scelta». Il dramma sartriano del conflitto tra impegno e responsabilità, nella necessità della scelta, si amplia a dimensioni cosmiche. È una delle poesie più intense e filosoficamente forti: «Hai guadagnato qualcosa. Qualcosa hai perso. / come scegliere / senza abortire, a sua volta, prati uniti, / capitali, respiri, geografie, /parole da bar, costellazioni, / eventuali preghiere /dell’amore. / Ogni scelta è anche una gabbia. /Senza battito, senza volto, / se ne andò con la spazzatura /qualche miracolo nascosto» (p. 57).
C’è infine l’impegno etico alto – come osserva ancora bene García Montero – ad accompagnare un lavoro sulla lingua poetica ammirevole, quando Montero stesso parla di un’«etica poetante» che «gioca con le allusioni alla realtà, gioca con il linguaggio quotidiano, però ha ben chiaro che per creare senso occorre individuare la trascendenza, portare la parola sul confine dove si possa trasgredire il significato superficiale di ciò che si dice o si scrive» (p. 7). E questo lo si vede bene nella «Poesia del 12 ottobre ormai passato», la data della cosiddetta «scoperta dell’America», nel 1492, svuotata oramai di senso, negli stessi stereotipi di un’intellettualità conformisticamente alternativa, in realtà aderente alla rivoluzione passiva in atto nel nostro secolo XXI. La poetessa volge allora indietro lo sguardo, ai maestri non dimenticati, per procedere avanti, in una splendida invocazione: «Oh, padre Walter Benjamin, / il discorso del risentimento / ha ereditato il discorso del potere /e parla per un altro, / – O, padre, Michail Bachtin – / che gli piaccia o meno. / Dopo cinque secoli, / l’orologio segna l’ora, / Oh Dio Huitzilopochtli, / di indagare orizzonti / con lo sguardo in avanti» (pp. 85-87).
Troviamo all’opera quest’impegno etico fin dalla poesia d’apertura, già menzionata: «Franchi tiratori di Sarajevo», come anche ne «I suoni di Aleppo», in versi di profonda espressività e drammaticità: «La coscienza del crimine / non ci salva dal crimine. / Più di cento bambini sono morti ad Aleppo / e un convoglio di giocattoli è ancora in attesa. / Quando dormi ognuno di loro riproduce il tuo volto, /il fuoco del sole che ti riscalda, /il copriletto in cui sogni ogni notte, /ormai non ci sono coperte né pesci né carezze / ad avvolgere le steppe, / saranno sempre e loro ferite a nominarti / benché intralcino il mondo che ti appartiene. /Scriverò accanto a te questa poesia alle stelle. / La morte è sempre degli altri» (p. 99). Analoghi toni alti e potenti, si ascoltano in «Atocha, Nizza, Orlando, Parigi» (pp. 107-109).
Ma l’impegno etico di parresìa, per Marisa Martínez Pérsico, è pregnante soprattutto dove sono in questione le molteplici «aspettualità» dell’amore. «Etica dell’amante» è un esempio folgorante, dedicata «A Sonia Betancort, con parole in prestito»; c’è l’entrata nel corpo dell’altro, (gradiente essenziale dell’eros, ma qui come smorzato, deviato), l’incontro con l’amante e insieme il verbo che ne fa uscire il senso, il valore del rapporto all’altro, e l’imparare dall’esperienza: «I viali / sono gradini azzurri al tuo corpo. / Le tende aperte / dell’unica stella della tua casa /mi invitano. / Entro nel verbo, /questo estuario verde oliva /dove due villeggianti / sogneranno una pagina di sabbia […] /Dietro le mie tracce, / il tuo edificio in penombra / è una costellazione /senza astrolabi. / Ho imparato. / L’innocenza si salva con la fuga» (p.47). Il climax di questo percorso di parresìa è raggiunto in due liriche. «Invalida nel desiderio di te» e, soprattutto, in «Piccole morti provvisorie», il lungo epilogo di un’esperienza che precede il dire poetico e sembra trovare il suo culmine nell’invocazione del nulla, in eco lontana, dietro il compiersi di una vicenda che non è solo di un io e di un tu evocati, ma di un’intera epoca, la nostra, che fa da sfondo. L’epoca del nichilismo e della «mezzanotte del mondo», della «vita liquida». È qui raggiunto senz’altro un vertice espressivo: «Questa stanza affittata su un altare di Roma, / una carezza dolce e disseminata, /questo continuare a sudare a vuoto per il mondo: /carrozzabili ragnatele di luce, camion silenziosi / con gradini che non puntano / al cuore. /Questo continuo spostarsi / in un altro luogo, senza mai saziarsi, / eterna inimicizia che mi unisce / alle cose. /Questo girare per quartieri come un canto /indagando, senza eco, l’orizzonte, / dove si trova il tetto delle tue labbra / o il viadotto oscillante delle tue dita. /questi pezzi di nulla che ti invocano, /questo nulla di schegge che ti nomina / e non ti trova / e non ti trova / e non ti trova/ e non ti trova / (eco)» (p. 81).
Da questa finestra vuota il lettore coglie infine pienamente il senso della «parentesi» in cui il «cielo» è posto, evocata nel titolo della raccolta. Ce lo spiega la stessa poetessa, che è anche una brillante specialista, docente di Lingua e letteratura ispanoamericana all’Università di Roma «Tor Vergata», in un preliminare «Elogio delle parentesi». E lo spiega dunque con precisione e maestria (con dietro l’insegnamento di Borges e tanti altri…): «Come accade alla parola, buona parte del senso di una vita può essere accolto dalle parentesi e non dal cosiddetto discorso principale. […] Collocare il cielo tra parentesi significa porre ogni certezza in sospeso, dubitare dei principi guida, mettere in questione verità acquisite e accettare il dubbio. Se aprire una parentesi è, inoltre, prendersi una pausa o fare uno stacco, disporre il cielo lì dentro è anche una celebrazione della libertà» (p. 7).
Questo che chiamerei così uno scetticismo estatico della parola poetica, che si lega bene all’etica della parresìa, mi pare senza alcun dubbio la cifra più profonda del lavoro poetico-filosofico dell’autrice, che ne segna, nel panorama letterario attuale, tutta l’originalità.
Marisa Martínez Pérsico, Il cielo tra parentesi (El cielo entre paréntesis), traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini, introduzione di Luís García Montero, Roma, Edizioni Fili d’Aquilone, 2019, prima ristampa gennaio 2023, pp. 135, € 15.
Marisa Martínez Pérsico (Lomas de Zamora, Buenos Aires, 1978) Poeta e ricercatrice universitaria argentina residente in Italia dal 2010. Le sue raccolte di poesia sono: Las voces de las hojas (1998, Buenos Aires, Primo Premio Concorso Río de la Plata), Poética ambulante (2003, Argentina), Los pliegos obtusos (2004, Argentina), La única puerta era la tuya (2015, Spagna, Finalista Premio Pilar Fernández Labrador), El cielo entre paréntesis (2017, Spagna), Finlandia (2021, Cile/Spagna), Principios y continuaciones (2021, Valencia).
Nel 1999 e nel 2000 ha vinto il primo premio per la poesia al concorso mostrARTE della Facoltà di Psicologia dell’Università di Buenos Aires. Nel 2021 ha vinto il XXIV Premio Internazionale di Poesia Ciro Mendía (Colombia) con la raccolta inedita Un cielo para los gatos.
La sua opera è stata parzialmente tradotta in inglese, russo, portoghese, macedone e italiano. Nel 2019 The sky between paretheses è stato pubblicato dall’Università di Virginia/Valparaiso USA. In Italia è stato pubblicato Il cielo tra parentesi (2019, Edizioni Fili d’Aquilone, Roma, trad. Alessio Brandolini) e Finlandia (2021, Edizioni Ensemble, Roma, trad. Matteo Lefèvre). Nel 2022 ha vinto in Spagna il Premio Nazionale di Poesia “Rafael Morales” con il libro Los parques interiores (Finalista anche al Premio Loewe).
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