All’incirca un mese prima dei fatti, Merione si era presentato da me, per il solito appuntamento settimanale, in un evidente stato di agitazione. Ha fatto la solita battuta sui kleenex, anche se a dire il vero ogni volta proponeva una variazione di quella stessa battuta, pronunciata un secondo dopo l’ingresso, quasi l’avesse preparata per tutta la settimana, e poi durante il tragitto a piedi fino al mio studio, una cosa che per lui doveva essere diventata un rito propiziatorio.
E insomma: Merione entra, in evidente stato di agitazione, ma non rinuncia alla sua battuta di ingresso, da buon ossessivo. Come ogni volta, mi ha portato in dono una novità nozionistica, quasi a verificare la mia preparazione, o magari per capire cosa è stato riconosciuto, e cosa no, dalla medicina ufficiale. Questa volta la novità è il termine incel. È la crasi di «celibe involontario», e grossomodo indica una macrocategoria di uomini tra i trenta e i cinquanta, non belli, non ricchi e non famosi, che hanno avuto modo di identificarsi in questa macrocategoria, in una sorta di circolo vizioso, a partire da metà degli anni novanta, da quando una ricercatrice canadese creò un sito che aiutasse uomini con questo profilo a trovare una compagna; il progetto partiva con le migliori intenzioni, ma nel corso degli anni sortì l’effetto opposto: entrati in contatto grazie a internet, gli incel finirono per coalizzarsi, inaugurando un processo che negli ultimi anni ha raggiunto le sue derive peggiori, con centinaia di uomini rancorosi che pubblicano online foto delle loro ex, o delle donne che li hanno rifiutati, e passano il tempo a insultarle e ad augurargli la morte. Comunque, il succo è che Merione il termine lo conosceva già, ma fino ad allora non si era informato, mentre adesso aveva scoperto di essere un incel, almeno dal punto di vista della «massa indottrinata delle lettrice di supplementi femminili», così lui.
Alcuni mesi prima mi aveva raccontato di una situazione non chiara con una ragazza più giovane, un episodio per lui «devastante». In qualche modo Merione era entrato in contatto con questa ragazza appariscente, come la definiva lui, e i due avevano cominciato a frequentarsi. Si incontravano ogni tre giorni, la sera, per due bicchieri di vino e qualche sigaretta. Flirtavano, ma senza mai andare al sodo. Con buone probabilità lei si divertiva a provocarlo, le piaceva essere corteggiata, e Merione doveva risultarle innocuo, come d’altronde ho sempre creduto anch’io. Comunque, Merione e questa giovane si erano frequentati con assiduità per due mesi, arrivando a qualche cena galante o a un concerto a teatro, prima che lei, di punto in bianco, gli raccontasse della tresca che portava avanti già da un mese con un meccanico.
Merione c’era rimasto di sasso, e per una settimana aveva risposto ai messaggi della ragazza con riluttanza, tant’è che alla fine lei era sbottata, l’aveva coperto di insulti, gli aveva consigliato di «far pace col cervello» e gli aveva chiesto se non si vergognava di essere come tutti, «voi maschi siete fatti con lo stampino», gli aveva detto, e questa cosa per Merione era stata in sommo grado mortificante, perché se c’era una cosa di cui andava orgoglioso era la sua galanteria, la propensione al dialogo, il suo maschilismo contenuto e dialettico. Per due mesi il dialogo tra Merione e la ragazza era stato un dialogo rispettoso, fatto di un corteggiamento giocoso, alla pari, mentre dall’oggi al domani lui era stato bollato come un qualsiasi maschio medio, uno di quelli che pensano soltanto a una cosa, come se le loro lunghe chiacchierate sulla musica classica e sui diritti delle donne non avessero mai avuto luogo: all’improvviso tutto era crollato, cedendo la scena allo spettacolo trito di un uomo e una donna i cui interessi confliggono. Merione non si era più ripreso e quel giorno, il giorno che venne da me per l’ultima volta, era da almeno nove mesi che non aveva alcun contatto con individui femminili.
«Io credo che si sia superato un limite» mi disse quel giorno. «La sovraesposizione ai dispositivi digitali, e ai social, sta modificando la psicologia collettiva», così disse, in cerca di una conferma che non potevo dargli. «In linea di massima» continuò, «credo che si possa quantomeno rilevare una tendenza. Ormai ci siamo abituati a ritrovarci nero su bianco buona parte delle nostre conversazioni, una cosa un tempo impensabile, e invece oggi tutto ciò che ci diciamo, nelle chat, nelle email, rimane lì, in quanto prova dei nostri comportamenti. E così, per metterci al riparo, per essere sicuri fin da subito che in caso di incomprensioni avremo ragione, ci pensiamo mille volte prima di scrivere un messaggio, soppesiamo ogni parola, facciamo l’analisi semiologica del nostro pensiero. E così quando poi si presenta un’incomprensione, e il momento delle incomprensioni arriva sempre, rispetto al passato è diventato impossibile fare un passo indietro, perché abbiamo soppesato così tanto ciò che abbiamo scritto che non saremmo mai in grado di riconoscerne la fallacia – parliamo proprio di un limite cognitivo! Il problema è che la cosa vale da entrambe le parti. Noi e il nostro interlocutore ci affrontiamo con un testo pensato e ripensato più volte, e quando si presenta un’incomprensione siamo entrambi convinti che la colpa sia dell’altro. Andiamo in tilt. La comunicazione crolla. Tutto ciò che è successo fino a quell’istante non ha più importanza. Possiamo tornare indietro nella cronologia della conversazione in cerca di prove. Possiamo copiare e incollare queste prove e impugnarle, come si dice, nella convinzione che l’altro rimarrà spiazzato. Ma un secondo dopo lo fa anche l’altro, e allora noi dobbiamo cercare altre prove scritte per ricontestualizzare ciò che avevamo detto, e così lui, all’infinito, finché l’odio reciproco per questo immane spreco di tempo raggiunge un livello tale che nessuno dei due ha più alcun motivo né alcuna voglia di conversare, di insistere, di chiarire» così Merione.
Va detto che non era la prima volta che Merione si lasciava andare a questo tipo di monologhi di stampo, diciamo così, sociologico. Che lo facesse con cognizione di causa è un altro discorso. Non posso negare che buona parte delle sue intuizioni fossero corrette, quantomeno a mio parere. Subentrava però sempre un momento contraddittorio: a un certo punto delle sue filippiche il terzo termine sillogistico falliva, Merione vacillava, mi chiedeva conferma, mi chiedeva nuovi strumenti che non potevo dargli, e a quel punto doveva ricominciare da capo, da un altro punto, dimenticando del tutto la strada vecchia. Quel giorno però Marione era animato da un’energia nuova, era implacabile, non era venuto da me in cerca di un aiuto, la sua sembrava piuttosto, e col senno di poi credo che lo fosse, una sorta di dichiarazione di intenti, un’arringa difensiva ante tempus.
«Hitler voleva soltanto fare il pittore» ha detto quel giorno Merione di punto in bianco. «Era un paesaggista e neanche troppo scarso. Però l’Accademia di Vienna lo respinse. La sua carriera d’artista ne usciva pregiudicata. C’era in lui qualcosa del futurista, del situazionista. Dal punto di vista tecnico era un vedutista, un classicista ma dal punto di vista performativo potremmo dire che era più Dada. E insomma, per certi versi, il Putsch, quello per cui venne arrestato, retroattivamente lo si potrebbe considerare un happening. Hitler, da giovane ma anche in seguito, è sempre stato una mente plagiabile, e se non fosse finito in carcere per via di quel Putsch, non avrebbe conosciuto Rudolf Hess, in carcere, e di conseguenza non avrebbe mai scritto il Mein Kampf, e così via. Ma questa storiella, che a raccontarla è così carina, non significa nulla, è una storiella che uno si può inventare a posteriori, per affabulare le masse, e non è un caso se negli ultimi cinquant’anni la si trova ovunque si parli di Hitler: chiunque scriva di Hitler, soprattutto quelli che non sono degli storici, soprattutto i romanzieri, chiunque scriva di Hitler a un certo punto se ne esce con la storiella che Hitler è diventato Hitler perché non è riuscito a diventare un artista, una cosa che fa sorridere ma che non ha alcun senso. Uno storico non ridurrebbe mai l’Olocausto a una barzelletta. Però oggi è trascorso un tempo sufficiente, Hitler è stato ridotto a una barzelletta, e di certo tra un altro paio di secoli potremo ridere anche della Shoah. Oggi tutti i genocidi che si sono perpetrati nei secoli non toccano più nessuno, cento, mille, diecimila innocenti morti in massa due o trecento anni fa non ci riguardano più in alcun modo, non ci commuovono, e lo stesso sarà per la Shoah e per qualsiasi altra cosa: è soltanto questione di tempo» così Merione.
A quel punto, quel giorno, non ho potuto fare a meno di interromperlo perché non vedevo alcun nesso tra Hitler e gli incel. Merione ha tentennato, ma poi è tornato alla carica.
«Tutta la realtà è in realtà una realtà per accumulo» ha detto. «Nessuno mette mai in discussione che Proust sia stato il più grande romanziere di tutti i tempi. Nessuno, però, si rende conto che Proust è stato fortunato. Che l’elemento stocastico è di gran lunga più risolutivo del suo innegabile talento, del talento di Proust. Le coordinate della Storia sono infinite. Proust era un privilegiato, nella sua sfortuna ha avuto il privilegio di poter lasciare un segno indelebile nella storia della letteratura. Ma lo stesso identico individuo sarebbe potuto nascere in un’altra epoca, in un’epoca meno fiorente, oppure in un paese disastrato come la Romania, tant’è che un Proust romeno è esistito, ed è un autore enorme, eppure non lo conosce nessuno, anche perché è morto giovanissimo lasciando soltanto due opere, mentre Proust ha avuto quantomeno il tempo di portare a termine il suo progetto colossale. Ecco, anche Proust sarebbe potuto morire giovanissimo, a trent’anni anziché a cinquanta, senza arrivare a scrivere nulla, oppure dopo aver completato soltanto due dei tomi della sua opera colossale. Oppure le sue opere sarebbero potute andare distrutte, così come è successo con moltissime opere di moltissimi autori che pure sono rimasti, o anche con le opere di autori che invece sono scomparsi nel nulla perché le loro opere sono andate distrutte o perdute o bruciate. La fama eterna è il risultato della combinazione di un numero vertiginoso di dati statistici favorevoli. Maggiore è la diffusione di un’opera ai tempi della sua pubblicazione e maggiori sono le possibilità che quest’opera arrivi nelle mani giuste, che a parlarne siano le persone giuste, che i critici più autorevoli di quella determinata epoca lascino una traccia inequivocabile di una ricezione positiva di quell’opera, influenzando così la ricezione di quell’opera per tutto il tempo a venire, in un crescendo esponenziale di recensioni che fanno riferimento a recensioni precedenti, analisi critiche, disamine, tesi di laurea, articoli e plagiatori: tutto ha concorso affinché Proust nel corso di un secolo diventasse un monolite irraggiungibile. La mole della letteratura critica intorno a Proust è ormai di decine di migliaia di volte maggiore a quella del testo originante. Orientarsi è un suicidio, intaccare il monolite è impensabile. Ma questo è soltanto uno degli universi possibili» così Merione.
Per la seconda volta, quel giorno, ho dovuto interromperlo perché non trovavo un nesso tra gli incel, Hitler e Proust, se non una sequenza numerica, e stavolta Merione mi ha fissato con rabbia, come era già successo durante uno dei nostri primi incontri: io avevo appena messo in discussione che lui non fosse consapevole di qualcosa, e lui si era rivelato aggressivo in un modo che ero stato costretto a fargli notare. Una questione di prossemica, così gli avevo detto. Al che Merione era caduto dalle nuvole, sosteneva di non rendersene conto, forse si aspettava che certi professionisti fossero immuni alle provocazioni, ma questo non è il mio caso. Dopo quell’occasione era sempre stato attento, aveva arginato i toni, e mai più adottato quello sguardo di minaccia, mentre adesso qualcosa doveva essere andato storto. A ogni modo quel giorno Merione è riuscito comunque a chiedermi scusa prima di far quadrare la sua argomentazione.
«C’è stato un tempo in cui il maschio non era colpevolizzato a prescindere» ha detto. «Un tempo non troppo lontano. Diciamo fino a una ventina d’anni fa. Il femminismo di oggi è folle, è ripartito da zero, ha dimenticato il vetero-femminismo, il Sessantotto e le lotte dell’Ottocento, sono ripartite da zero e l’unica cosa che sanno è che hanno ragione – sempre, su tutto – in quanto donne. Se le loro argomentazioni sono sbagliate ti rispondono che fai mansplaining. Non vedono alcuna contraddizione a spogliarsi in risposta al male gaze: il corpo è loro e ci fanno quello che vogliono. Legittimo. Se non fosse che a spogliarsi sono solo quelle con una fisicità che corrisponde all’ideale maschile del corpo femminile, alimentando così gli stereotipi sui canoni, arrogandosi gli strumenti della battaglia e discriminando così le donne non canoniche, e scivolando a conti fatti nel body-shaming. Non se ne esce.
C’è stato un tempo, direi una ventina d’anni fa, in cui con la storiella che Hitler è diventato Hitler perché non ha potuto fare il pittore, con quella storiella potevi lasciare di stucco il tuo pubblico, o quantomeno intrattenerci una tavolata in modo originale. Ma oggi quella storiella la conosce chiunque, non serve più a niente, è ridicola, è alla mercé dei cavalli vincenti degli editori mainstream. E sempre fino a una ventina d’anni fa potevi mettere in discussione la grandezza di Proust, mentre oggi è impossibile, e per lo stesso motivo di Hitler, anche se con il risultato opposto: una sovrapproduzione delle fonti. Allo stesso modo oggi sono talmente tanti gli articoli e i counselor e i coach e i maestri di vita che mettono in guardia le donne da relazioni potenzialmente tossiche, e direi anche giustamente considerato l’acuirsi del femminicidio, sono talmente tante le fonti androfobiche che per quelli come me è diventato impossibile essere sinceri e al contempo apprezzati. Se ti impegni a essere sincero dicono che sei un manipolatore, che stai sfruttando la sincerità per manipolarle. Preferiscono gli uomini che si fingono iper-progressisti, non vedono il trucco, ci cascano in pieno. E un’enorme fetta della popolazione maschile viene così rigettata nel calderone dei cattivi, degli incel. Il male è isolato, riconoscibile, ha la faccia di Hitler, e mette tutti d’accordo. E il bene è isolato, riconoscibile, ha la faccia di Proust, e mette tutti d’accordo. Un eccesso di fonti, eppure un pensiero unico, la dittatura del progressismo. Un tale marasma di ideologie preconfezionate e predigerite, di stereotipi sul male e sul bene, di cliché su ciò che dovrebbe essere o non essere la grande letteratura, un tale marasma di persone certe certissime di essere nel giusto» ha detto Merione quel giorno «che una più o una meno non se ne accorgerà nessuno».
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