Vorrei chiamarla, dirle: le volpi con le code incendiate non parlano ma gridano pazze tra gli alberi per il dolore
Non è stata solo impegno civile la stagione Dalla-Roversi, ma uno sguardo sulla vita: l’operaio divenuto straniero in terra di fabbrica, la Carmen Colon che finisce schiacciata dai massi più o meno metaforici che cadono, anche oggi, sui corpi soprattutto dei disgraziati, delle ragazze e delle donne brutalizzate, le fughe dalla miseria, sono tutt’uno con l’ambiente della piccola stazione dove avviene l’incontro che sognavi da anni, e che si rivela altro: indifferenza non voluta né esibita, un semplice chiacchierare dell’altra con altri, con l’antica voce roca di un tempo.
La canzone che viene da lontano, la poesia di Roversi, il lento, progressivo, diventare urlo rappreso dopo la descrizione del paesaggio intorno con la quieta voce vinta dal peso del ritorno, di Lucio: eccolo il cammino antico, da quando il testo non era scritto e si doveva sillabarlo e ritmarlo per permetterne la memoria.
E non era solo per pochi colti, era anche per amori, e l’amore non è mai banale quando il giovane e l’adulto ne assaporano la nuda complessità e il dolore nel dentro che non è intellettualità spocchiosa, ma vita, realtà, quella dentro e quella fuori che diventano una nel paesaggio e nelle parole che non solo mai solo quelle pensate.
Due Lucio compirebbero, il 4 e il 5 marzo, ottant’anni, quello del capolavoro apparentemente semplice, e perciò, come si dirà, ancora più vero, di Tu parlavi una lingua meravigliosa e quello altrettanto popolare, nel senso che vedremo, di Battisti.
Bologna e Poggio Bustone hanno cambiato la percezione della cosiddetta canzonetta, riportandoci con la fantasia ad altre canzonette, fin dalla Provenza del trobar leu, e poi dal secondo canto della terra di mezzo dantesca, quando il cantore Casella intona una canzone dell’amico Alighieri, Amor che nella mente mi ragiona, incantando come Orfeo tutti i presenti, che fa al caso nostro, perché è proprio in quel confessare che l’amore talvolta “disvia” dall’intelletto, il nucleo rovente del nostro ricordo dei Lucio.
Un altezzoso intellettualismo ha tentato di nascondere che le canzoni cantate da Battisti con le parole di Giulio Rapetti portavano un po' più in là, e in profondità, rispetto alla vulgata sanremese. Anche se tutti e due i Lucio a Sanremo c’erano andati.
La coscienza di non riuscire a fare come tutti i propri coetanei nell’adolescenza, come vendere libri, l’incapacità e la paura di amare e di essere amati, il non riuscire a dire nulla neanche al telefono, neanche accennare ai sogni, ai voli, alle corse in mezzo ai prati tanto sognate, le botte – quelle dentro – prese e quelle restituite di I giardini di marzo. I cinema di periferia a cento lire, trovate frugandosi le tasche e rinunciando alla coca cola all’uscita, il rifiuto di un semplice atto di affettività come prendere o lasciarsi prendere la mano, l’essere costretti da se stessi a vivere di lato, erano state raramente messe al centro della musica, quella del jukebox di allora, intendo, e non nell’iper-uranio dell’impegno in musica. E che però ha avuto la funzione di radice.
Così come l’essere parte della propria città anche da vagabondo, con una grande, fin dal nome, piazza a farti da casa, da piatto, da letto, di Lucio Dalla, e il capolavoro di un uomo in prigione che si innamora della donna che vede dalla finestra, che invecchia e se ne va via per sempre “solo in mezzo al blu” di La casa in riva al mare, dopo aver sognato di farsi una vita assieme a quella donna.
Con l’obbligo assoluto, se si vuole continuare a scrivere di musica, e a sentirla con il cuore, che non è distante miglia dall’anima, anzi, di andarsene in giro a raccattare qui e là le session, o come diremmo noi ex ragazzetti di provincia, ospitate, di Dalla, soprattutto quella con il Renzo Zenobi di Telefono Elettronico, che chiude un brano di semplici parole, nel senso di parole semplici, che potrebbe dire chiunque di noi, che magari non abbiamo il coraggio di allargare il gesto d’abbraccio, e che vorremmo comprendere gli altri che hanno passato qualche momento no, proprio come noi, e che desideriamo ce la facciano, perché, sembra difficile crederci, ma qualcuno sconosciuto sta tifando per chi sembra non farcela.
Senza Dalla e Battisti non ci sarebbe stata la continuità di una strada che proviene dalla folk song, dalla musica popolare italiana, da Dylan, da Eric Burdon e gli Animals, dal gospel e dal jazz, dal blues del Delta e quello elettrificato. Non ci sarebbe stata una canzone che scende dentro a diventare parte di noi con una voce, quella di Battisti, apparentemente non in linea con i canoni e che invece riesce a graffiare e a spezzare, e con quella di Dalla in grado di aprirci a un jazz reso più familiare e aperto a tutti nel racconto di tutti i giorni, del sé trovato anche e soprattutto negli altri. Quelli che magari non hanno studiato, ma che inghiottono nel profondo quelle corrispondenze inattese tra un disco che suona e che parla di noi, di città e ragazze madri che ti danno cibo e casa, dei nuovi Gesù di strada, di solitudini bolognesi, e molto altro. Che è il nostro altro.
Buon compleanno, dovunque stiate cantando.
testimarco14@gmail.com
|