FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 60
marzo 2022

Luna

 

TI RICORDI, LUNA

di Armando Santarelli



Un amico è un amico. Devi capirlo, ascoltarlo, qualche volta sopportarlo. Per esempio, con me puoi parlare di tutto, meno che della luna. E questo nonostante io conosca a memoria una trentina di poesie dedicate alla luna. Non solo: posso citare decine di episodi storici in cui la luna ha colpito l’immaginario dell’uomo; tanto per fare un esempio, le fantasie di Caligola, che nelle notti di plenilunio pregava la luna di venire ad abbracciarlo e condividere il suo letto.

Ma perché so tutte queste cose sulla luna? Semplice: perché la donna che ha sconvolto la mia vita porta quel nome. È una verità che suona banale, persino puerile, lo so. Però il grande Proust (che, detto per inciso, da bambino si faceva regalare tutti i libri in cui si parlava della luna) mi avrebbe capito; quando idealizziamo una donna – ha scritto – succede che nel suo nome, nei comportamenti, nei gesti, noi mettiamo il suo profumo, le sue qualità, la sua essenza; per lei entriamo in territori sconosciuti, per lei ci interessiamo di cose di cui ignoravamo l’esistenza.

Potete immaginare, vero? La luna e la donna, due entità potenti e ammaliatrici come nessun altro elemento naturale o umano. Iside, Diana, Ecate, la fecondità vegetale e animale, il culto della Grande Madre. La luna, simbolo della divinità della donna e della sua facoltà procreatrice; ma anche di mistero, di luce riflessa, di ombre, di morte. Ecco, la donna che porta quel nome è stata tutte queste cose, per me. Mi ha donato il suo cuore e iniziato a un mondo che non conoscevo; io per lei mi sono dato alla sensualità e all’eccesso, per lei ho messo in forse la serenità familiare e confuso la bellezza col bene.

Accade questo: godi del sole tutti i giorni, ti riscalda, ti fortifica, ti dà gioia e vita; ma il sole apre la strada alla razionalità e alla verità, e noi ci stanchiamo di agire nel solco delle cose giuste, ma ripetitive. Noi siamo figli della colpa originaria, ribelli per istinto e per calcolo; nulla è più intrigante dell’ignoto, della trasgressione, del male. Così, ti succede di voler camminare al buio, di voler provare il brivido dell’incognito, dell’avventura…

È un po’ un paradosso che Luna sia comparsa in un mattino pieno di sole, al termine di un convegno religioso. Durante il meeting, la sala era gremita; stranamente, alla fine rimaniamo solo io e lei. La osservo, mi sembra di averla già vista; mi faccio avanti, ci presentiamo: “Mi chiamo Andrea”, “E io Luna”. Scambiamo due parole; sorrisi, immediata simpatia, interessi comuni, promessa di rivederci. Iniziano le prime timide telefonate, le mail, gli sms, prologo di una frequentazione che promette molte buone cose. Arriva l’immancabile invito a casa mia, come ho sempre fatto con tutte le persone, uomini e donne, in cui percepivo certe qualità e la possibilità di instaurare un’amicizia. Dopo la sua seconda visita la riaccompagno dove ci sembra più opportuno (c’è traffico, ed è meglio che torni a casa con un mezzo pubblico). Arriva l’autobus, ma c’è una gran calca, lei sale con una certa difficoltà, poi si gira per salutarmi. Però l’autobus non parte, le portiere non si chiudono e lei mi pianta gli occhi addosso per alcuni secondi. Non ho neppure il tempo di sorprendermi; sono attonito, perplesso, interrogo il senso di un gesto inaspettato senza trovare un barlume di risposta; so soltanto che la luna ha mosso le mie acque, e quando il bus si avvia e mi incammino verso la macchina mi sento confuso e turbato.

Che fosse un segno, oppure un semplice e innocente indugio, ti è entrato dentro; e da quel momento sei tu a continuare il gioco, a fare lo stronzo. Battute, discorsi e atteggiamenti seri o scherzosi che mirano a un solo fine, colpirla, impressionarla, piacerle. Dopo una mattinata trascorsa lungo un fiume dalle acque verdi e mormoranti le parli di una poetessa russa, e all’improvviso butti lì una sua frase: «Quando di una persona mi piace l’anima, mi piace anche il suo corpo». Non reagisce, ma stavolta è lei a mostrarsi sorpresa e imbarazzata.

Fingiamo ancora di poter essere amici, ma le parole si fanno allusive, penetranti. Le dici che la prossima volta la porterai in un luogo magnifico, pieno di romanticismo; lei accetta con entusiasmo. È sufficiente; ti rendi conto di non essere più la persona che eri prima, come lo sa lei.

Ti concedi l’ultima illusione, la inviti in uno dei luoghi sacri dell’Occidente, pensi che lì non potrà succedere nulla, che sarai franco da ogni lusinga. L’eremo più bello dell’intera regione si raggiunge attraverso un sentiero erto e boscoso. Ci incontriamo dove inizia, e già il cuore batte; so cos’è: comincio ad aver paura, paura delle mie stesse emozioni, di ciò che può succedere, di una vita che non sarà più la stessa. L’abbraccio iniziale è casto, ma il dono che le porto sa di scelta accurata, di ricercatezza. Prendiamo il sentiero, dieci passi e già si spezza il respiro; no, non è la fatica dell’ascesa, è il fiato corto e ansante di chi sa che sta per fermarsi, guardarla negli occhi, accostarsi al suo corpo e al suo viso, baciarla con una forza che nessuno potrebbe arrestare, neppure il Santo che lì ha eretto il primo monastero dell’Occidente.

E adesso? Adesso tutto cambierà davvero, le premesse hanno dato il loro esito, e senti che non ti fermerai più. Amerai un’altra donna, vivrai momenti pieni di gioia e di estasi; e insieme, giorni d’inferno, perché d’ora in poi tutto ciò che si scatenerà nel tuo animo dovrà rimanere celato proprio quando vorresti farne partecipe ogni creatura della terra. Dovrai tenerlo dentro mentre pensi a lei e vorresti sapere dov’è, quello che fa, se ti pensa, se soffre, se ti desidera. Ormai lei c’è sempre, nel novilunio come quando splende nel cielo stellato; con un misto di esaltazione e di orrore ti accorgi che giorno dopo giorno unisci a lei ogni pensiero, ogni azione.

«Luna, vederci da me sarà sempre più difficile, e un giorno diventerà impossibile. Dobbiamo farlo a casa tua».

«Ma è un monolocale! E poi, nel palazzo ci sono dei lavori in corso…».

«E che vuoi che me ne importi? Io voglio vedere dove vivi, accarezzare i muri di casa tua, toccare gli oggetti che usi ogni giorno». Non può opporsi, sa che celebriamo, in qualche modo, un rito scontato; e nel giorno prefissato è con un sospiro, e con le mani giunte sul petto che viene a prendermi alla sommità della scala che porta al suo alloggio. È vestita in modo semplice, nessuna civetteria; o è la civetteria della semplicità ad averle suggerito di salire con abiti dimessi, calzando delle pantofole? Sulla soglia di un piccolo locale rettangolare, un profumo d’incenso e la melodia dei canti ortodossi: «Luna, grazie, ma perché hai fatto questo?» Mi guarda con dolci occhi di ghiaccio, ci abbracciamo, accresciamo la sete d’amore proseguendo su una strada dove ci imbattiamo solo in cose belle: i suoi libri e quelli che ho portato con me, la mia catenina con croce ortodossa e la sua, l’inno dedicato alla Vergine che cantiamo insieme. Non so cosa provi lei, so soltanto che un potere vivo e presente si sta impadronendo di me.

Non c’è giorno, non c’è ora che non lo confermi, e tu, stupido che sei, continui a chiederti ‘Ma perché proprio lei, perché mi è successo, non lo volevo, non so se saprò gestire questa follia, queste notte insonni, questi pensieri ardenti’. Intanto, le scuse per vederla si moltiplicano: devo andare dove non devo andare, comprare quel che non mi serve, portare al Ministero un documento che non esiste; tutto pur di serrarmi a casa sua e vivere, vivere, vivere senza senno, scacciando ogni pensiero razionale, ogni rimorso. Vedersi ovunque, su una panchina, in un parco, sui covoni di fieno di una tenuta agricola, in una strada deserta e in una radura montana; dirle tutto, confessarsi come dinanzi a un prete, mentre altrove sono solo reticenze, silenzi, bugie.

La luna manda messaggi di vita, solleva i mari, è infinitamente più forte dell’essere terreno e pavido che la osserva estasiato; e quando regna, intorno tutto si anima, e cancella differenze, impedimenti, rimorsi. In fondo sai poco o nulla della Luna che alita vita intorno a te; eppure senti di amare la sua terra, i suoi cari, le sue abitudini, i suoi difetti, ciò che ascolta e ciò che legge, i princìpi in cui crede e le idee che professa. Ormai il suo raggio ti segue ovunque, daresti te stesso per starle accanto negli immensi spazi che promette il suo amore. Come puoi eludere un mito che è scritto nel nome, la rivelazione di un mondo lontano e primordiale nel quale ritrovare i sensi di colpa della confessione e le gioie dell’eucaristia? Io mi inginocchiavo dinanzi a lei, la ringraziavo per essere lì, e non finivo di stupirmi della facilità con cui era avvenuto quello che chiamavamo «un miracolo»: dicevo che le nostre anime si erano riconosciute, che la nostra era un’unione spirituale, che avevo trovato una nuova icona in una nuova chiesa.

Ahimè, i termini sacri, che in queste situazioni affiorano alle labbra come i vagiti in un neonato, sono quanto di più assurdo si possa esprimere. Perché c’è la realtà: eri un uomo sincero, diventi un bugiardo e un traditore; non di una, ma di due donne. Sei un altro, una persona avida di incontri rubati, di trasgressioni esaltanti, di trasferte pazze, di lettere pregne di passione, promesse, menzogne. Sei l’incarnazione di un intero mondo di falsità, giuramenti ipocriti, negazioni sfacciate e vergognose.

Ma la brama di consolidare il possesso di una persona rende imprudenti. Succede quel che pensavi di poter occultare all’infinito: troppe tracce, prima o poi ti scoprono; inoltre, è vero che forse vuoi tradirti, liberarti da un peso che non riesci più a sostenere.

Le parole che qualificavi come un trito luogo comune mostrano la loro cruda realtà: gli errori si pagano. Tutto muta di nuovo; giuri che smetterai il doppio gioco, ma stai male, e trascorso un po’ di tempo ricominci, ti muovi fra due carceri, attento a ogni gesto, ogni parola, ogni espressione del viso. Soffre tua moglie, ma non te ne importa, soffre l’altra, e fai finta che ti dispiace, soffri tu, ma te ne freghi, perché la sofferenza – scrive ancora Proust – è il solo modo di conoscere l’amore.

Intanto, la Luna comincia a prendere le distanze, ma dice «io ci sono», anche perché non deve rendere conto a nessuno, se non alla sua coscienza.

Viene il giorno in cui ti rendi conto di aver esaurito ogni energia, e arrivi a sperare nell’impossibile indulgenza di entrambe; chiaro, vorresti tenerle tutt’e due, ed è la prova definitiva che stai impazzendo. Quanto a lei, nomen omen, Luna ha le sue fasi, cambia forma; splende, si ritira, sparisce. Sembrava la donna più semplice del mondo; in realtà, come me, recita più parti, ed esagera in tutte. Quando si nasconde senti di morire con lei; lo fa sempre più spesso, e cominci a capire che sta arrivando la resa dei conti. Sì, dobbiamo farla finita, non è possibile andare avanti così; ma come giustificarsi, dopo che le hai detto di amarla di un amore eterno, di non poter vivere senza di lei, di volerle donare tutto te stesso? No basta, niente bugie, non servirebbero, né ci crederebbe; le parole, aride e sincere, si scrivono da sole: «Luna, non ce la faccio a vivere così, né a lasciare la mia famiglia».

Lei replica dicendo che «è stato Dio a illuminarmi»; poi, scrive la decisione che osserverà fedelmente negli anni seguenti: «La nostra storia è finita, non mi vedrai più, non mi sentirai più. Se mi vuoi bene davvero, lasciami in pace, non farti più vivo».

Non lo feci. La cercai ancora, comportandomi in modo ingiusto e vigliacco. Dopo un paio di anni le ho chiesto perdono, ho ammesso i miei errori; nessuna replica, ma non importa, non era tenuta a farlo.

Però, Luna, vorrei dirti un’ultima cosa: non mi illuminò Dio, non mi illuminò nessuno; né il tuo chiarore poteva guidare i miei passi dove avremmo voluto. A decidere del nostro destino è stata una donna la cui forza morale si è dimostrata molto superiore alla nostra.

Ora hai accanto un altro, è tuo marito; e io sono stato sincero quando ho scritto di aver accolto con gioia il tuo annuncio di nozze. Non avremo più notti bianche, e come l’eroe di quel racconto immortale io ti dico: «Sia limpido il tuo cielo, sia luminoso e sereno il tuo caro sorriso».

«La Luna», ha scritto un uomo della tua terra, «conosce una storia patetica come quella dell’uomo, ma la sua morte non è mai definitiva». Avevo ragione quando ti dicevo: tornerai a nascere, a rifiorire. La Luna e la donna sono giovani e antiche; immensamente lontane nel tempo e vicine nello spazio, approdo dei nostri sentimenti, delle azioni eroiche e degli abomini, del nostro amore e del nostro inferno.

Quanto a me, sono tornato sulla terra bruna, a scaldarmi al generoso sole che ha continuato a brillare per me nonostante tutto. Anche la luna continua a splendere, ma non ho più molta voglia di guardarla, forse per abituarmi alla luce morente, alla notte che si approssima. La chiamano luna nuova, ma di nuovo non c’è niente, solo il vuoto, il buio, il silenzio; fra di noi nemmeno più un saluto, un ricordo da condividere; solo l’ombra di ciò che siamo stati, e un’inutile pietà per noi stessi.


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