Anselmo è l’ultimo; e sta passando anche il suo tempo. Te ne accorgi subito, quando arrivi ai Pantani: l’erba non è più sempre rasa, il capannone di latta si è inclinato, le viti vengono potate in ritardo; e i tre grandi covoni di paglia che ha eretto negli anni passati sono ancora molto alti, e marci dalla parte esposta al nord.
Abita ancora il suo casolare, ma questo appare come abbandonato. Il tetto di coppi è sfaldato e ricoperto di erbe, i muri di pietra e tufo cesati in più punti. All’interno, secchi e mastelli crivellati, cassette e vecchi vasi di coccio, ferraglia arrugginita e sacchi polverosi sono sparsi ovunque sul pavimento. Di fianco al camino, castagne e patate rinsecchite giacciono su una sdrucita coperta di lana. Le finestre hanno i vetri rotti, e sono le imposte a impedire all’acqua e al vento di entrare copiosamente. Solo il letto, discosto dal muro, è rifatto in buon ordine; Anselmo vi ha adagiato un largo telo di plastica, che lo copre per intero. Ma ci dorme sempre più di rado; appena annotta, col capo imbacuccato in uno straccio, risale l’erta che conduce in paese, quale sia il tempo. Non è un segno di forza: non può fare a meno di rintanarsi a casa, al caldo. Prima era la moglie a portargli la cena ogni sera; lui rimaneva nella bassura, pur di guadagnare l’alba e il crepuscolo.
Ormai, un’invincibile abulia accorcia ogni giorno di più i sui discorsi. Mauro, il nipote più grande, gli ha chiesto perché è andato in montagna a recuperare due cavalli, tenendoli per tutto l’inverno ai Pantani.
“Mi fanno compagnia…”, ha risposto fiaccamente, scoraggiando altre domande.
Rare volte, è lui a parlare per primo, difendendo con tenacia le sue convinzioni. Come quando ha raccomandato a Giovanni Coccia, che è calvo, di premunirsi contro i malanni dell’età matura: “Comprati un cappello! Mettiti un cappello in testa! Perché i dolori vengono fuori quando sei vecchio, non adesso!”.
E siccome Giovanni non lo ha ascoltato, ogni volta che lo incontra insiste con la sua monotona cantilena: “Non m’hai dato retta, eh? Allora fa’ una cosa, scriviti la data di oggi. Scrivila, così, fra vent’anni, quando i dolori t’ammazzeranno, ti ricorderai quello che t’aveva detto Anselmo. Fammi un favore, scrivila!”.
Forse parla così perché è più saggio, forse – dicono alcuni – perché la testa non lo assiste più come una volta. Da qualche settimana ha affisso un grande manifesto bianco sulla porta di casa, sul quale ha scritto a caratteri cubitali: “AMICO, RIPORTAMI LA TRIVELLA”. Come faceva da giovane, ogni tanto deposita sull’uscio di qualcuno un sacchetto di castagne o di noci, senza che gliele abbiano richieste; ma ora non sa più scegliere le persone, e quasi tutti gliele ritornano a casa.
Tempo fa, l’ho incontrato lungo la mulattiera che conduce in montagna.
“Ciao, Anselmo, dove te ne vai?”.
Mi ha risposto senza guardarmi: “Un vannino… è indebolito, tocca curarlo. E tu?”
“Vado sul Ceraso, mi faccio una camminata”.
Mi ha dato una breve occhiata, stupito, poi ha scrollato la testa: “Povera gente! Viene qui a divertirsi! Girati, guarda lassù. Lo vedi quell’albero secco? Lì, sotto i suoi rami, morì Biagio, lo sai? Lo colpì un fulmine mentre faceva la terra nera. E le vedi quelle vene della montagna? Una si staccò, e schiacciò il povero Memmo. Lo sai perché stava lì sotto? Perché non c’era altro posto per il suo gregge; era tutta un giardino, la montagna!”
“Un giardino…” ripetei meccanicamente.
Il suo volto si indurì: “Perché, non ci credi? Mi sa che tu sei come quelli che sfrattavano alle Frasche, figlio mio”.
“Chi erano?”, chiesi per stornare l’imbarazzo.
“Certi ragazzotti. Sfrattavano come forsennati, hi-hi! Dopo una settimana, gli spini sono più lunghi di prima!”
“Era per un’escursione, una gita”, gli dissi.
“Una gita? E che vanno a vedere? È tutto ammacchiato! Adesso ti perdi, in montagna”.
“È vero, ma non sarà sempre così. Gli esperti dicono che fra cinquant’anni si riformerà il bosco, come una volta”.
“Il bosco… E non coltiveranno più niente, eh? Non taglieranno più una pianta, non faranno più legna, vero? Povera gente! Noi andavamo su e giù cinque volte al giorno, carichi come somari! Crescevano tonnellate di grano, in mezzo a questi sassi! Meno male, meno male che chiuderò gli occhi prima! Vai, vai, figlio mio, io prendo di qua, ho tanto da fare.”
Fece due passi, poi, inaspettatamente, si voltò: “Senti”, disse storcendo la bocca, “si rifarà il bosco, va bene. Ma chi te l’ha detto? Quelle due signore che vengono a studiare i fiori quassù?”
Feci cenno di no.
“L’ho conosciute all’Ara di Valle. Hanno sempre in mano una zappettina. Cavano i fiori fino alla radice e li mettono dentro una busta di plastica. Ascolta, lo sai che mi dissero un giorno? Hihihi! Mi dissero: non è vero che le stagioni sono cambiate, è solo un’impressione nostra. Sì, proprio così: non sono cambiate, è un’impressione nostra. Hihihihi! Povera gente!”
Rideva in modo buffo, esagerato, scoprendo le gengive e arricciando il naso, rivelando tutto il suo sprezzo, l’assoluto rigetto di quella affermazione. Scuotendo la testa si incamminò in fretta, con passo cadenzato, ma ancora lungo e sicuro. Quando si era allontanato, però, lo vidi arrestarsi di colpo e appoggiarsi a capo chino sopra una roccia sporgente sul sentiero.
Allora tornai con la mente ai Pantani, al suo casolare, che assomiglia sempre di più agli altri, diruti nella campagna. Quella che un tempo era la sua fattoria rovinerà presto; il tetto si sfonderà, le crepe nei muri si allargheranno; gli uccelli ne approfitteranno, e al tempo della cova dimoreranno lì.
O forse no. Forse quel rudere servirà per ottenere una licenza edilizia, e al suo posto sorgerà una casa bianca e squadrata.
Resterà vuota. Si vedrà da lontano, dai monti.
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