Mario Vargas Llosa (Perù, 1936), Premio Nobel per la letteratura nel 2010, è uno scrittore che, come pochi del nostro tempo, ha abbinato alla creazione letteraria la riflessione sul mestiere stesso della scrittura, cercando di sviscerare i misteri del rapporto teorico e pratico con la letteratura, sia in autori famosi, come Flaubert, Victor Hugo, Borges e Juan Carlos Onetti, sia in se stesso.{1} Così, la ricerca dei meccanismi consci e inconsci che portano alla costruzione di un universo spesso alternativo – donde il suo famoso concetto di “deicidio” applicato in primis a García Márquez{2} – l’hanno mantenuto nelle coordinate del mondo non reale, bensì “ricreato”, seppur legato alla storia e alle circostanze politiche e sociali. Tuttavia la sua curiosità per il mondo reale tout court è sempre stata intensa e determinante e questo spiega in buona misura la sua costante attività giornalistica, la sua avidità informativa su quello che avviene in ogni parte del mondo, la sua instancabile capacità come viaggiatore e come investigatore. Da questa attività e dal suo pluridecennale lavoro giornalistico derivano i molti volumi nei quali a un certo punto egli ha deciso di raccogliere i suoi articoli. In essi il lettore può comprovare quanto si allarghi lo sguardo dello scrittore, quanto si concentri senza dubbio sui problemi del suo paese, nei quali spesso viene coinvolto in prima persona, ma quanto sia anche illimitata la sua fame di conoscenza del mondo intero: i paesi europei dove ha risieduto e dove è stato solo di passaggio, le repubbliche africane, la Grecia, la Russia, la Palestina, Israele, la Danimarca… E come da questi ambiti così diversi lui sia capace di focalizzare talvolta problemi di primo ordine, come la censura – o meglio l’abolizione della censura – in Danimarca, talvolta tratti originali e insoliti, caratterizzanti di una società o – forse sarebbe meglio dire – dell’essere umano, come il commovente cimitero dei cani a Parigi.
Tutte queste tematiche, legate da alcuni fili conduttori che concentrano la sua visione del mondo e della creazione, a un certo punto, hanno convinto l’autore a raccogliere i molti articoli pubblicati su riviste e giornali in volumi tematici. Una di queste pubblicazioni è quella che lui ha iniziato nel 1983 in una serie di tre volumi intitolati Contra viento y marea, pubblicati da Seix Barral di Barcellona, l’ultimo dei quali è uscito nel 1990 mentre il secondo è del 1986. La serie è stata tradotta in italiano, divisa ulteriormente e pubblicata in cinque volumi, di cui i primi quattro per i tipi di Scheiwiller,{3} l’ultimo per la nuova casa editrice del Centro Studi Jorge Eielson di Firenze.{4}
L’ultimo volume della serie si presenta diviso in due parti: Barbaro tra civili e Sangue e sudiciume, rispettivamente tradotte da me stessa e da Antonella Ciabatti. La seconda parte è molto importante per chi voglia seguire i problemi socio-culturali di un paese particolarmente complesso come il Perù e l’impegno che il nostro autore gli ha dedicato lungo la sua vita. Essa raccoglie, in effetti, una relazione ufficiale che lo stesso Vargas Llosa scrisse per presentare al governo del suo paese dopo avere fatto parte di una commissione incaricata di indagare quello che era successo nella località andina di Uchuracay, dove otto giornalisti erano stati uccisi.
La relazione, ricca di informazioni e di particolari che gettano luce sulla vicenda senza lasciare dubbi su quello che è veramente successo – i giornalisti vennero uccisi dalla popolazione perché scambiati per guerriglieri –, risulta inoltre illuminante riguardo ai rapporti tra le comunità indigene e lo stato ufficiale democratico del Perù. Vargas Llosa riesce a far capire come questo mondo antico, rimasto uguale nei secoli fin da prima della conquista spagnola, non si riconosce nello stato peruviano; ci sono “due” Perù, che parlano perfino due lingue diverse, il quechua e lo spagnolo, e che non si possono capire. Forse possiamo anche dire che il dramma che ha segnato l’opera e la vita di José María Arguedas potrebbe avere una nuova luce visto attraverso questa indagine del suo connazionale Vargas Llosa, qualche volta non capito nel suo rifiuto del sogno “utopico” arguediano di tornare indietro nel mondo incaico.{5}
La prima parte del volume Contro vento e marea, invece, ha tutti i tratti caratteristici della saggistica d’indagine e di teorizzazione tipiche dell’autore, come indicato prima, più un altro tratto, tipico di una seconda fase della sua narrativa e, anche questo, in un secondo momento presente pure nella saggistica: si tratta del suo umorismo, non sempre gioioso, a volte legato anche al tragicomico. In tutta la prima parte del volume risulta evidente il marcato internazionalismo dell’autore, la sua capacità di passare da una parte all’altra del mondo, così come dal quotidiano all’eccezionale, dal commovente al buffo.
Toccante e insolito è il pezzo dedicato al cimitero per cani di Parigi (v. Toby, riposa in pace). Tragicomico è invece l’articolo intitolato, come il protagonista, P’tit Pierre, il quale è senz’altro del tutto fuori serie, paradossale e buffo, simpatico e incomprensibile, e dà luogo a una storia dove il dramma emerge infine attraverso i fatti bizzarri. Eventi semplici e quotidiani che configurano il teatro del mondo. Proponiamo quindi la lettura di questo articolo, come anticipo prima della lettura del volume (per altro già disponibile alla vendita).
{1}Il primo di questi lavori sulla propria creatività lo dedicò al suo secondo romanzo, La casa verde: v. Mario Vargas Llosa, Historia secreta de una novela, Tusquets, Barcelona, 1971. Il saggio è stato tradotto in italiano da Glauco Felici e pubblicato come prefazione all'edizione italiana del romanzo: v. Storia segreta di un romanzo, in La casa verde, Einaudi, Torino, 1991. Da ricordare inoltre Cartas a un joven novelista, Alfaguara, Madrid, 1997; trad. it. di Glauco Felici, Lettere a un aspirante romanziere, Einaudi, Torino, 1998.
{2}Cfr. Mario Vargas Llosa, García Márquez: historia de un deicidio, Barral, Barcelona, 1971. La prima edizione di questo importante saggio venne ritirata dal commercio dopo il famoso scontro dei due scrittori, del quale nessuno dei due ha mai voluto spiegare le motivazioni. Tuttavia Vargas Llosa ne autorizzò di nuovo la pubblicazione in occasione della preparazione delle sue opere complete presso Galaxia Gutemberg, otto volumi, di cui quello intitolato Ensayos literarios. I (Obras completas, vol. VI), uscito nel 2006, contiene tra altri la Historia de un deicidio. Oggi inoltre esso, come tutte le sue opere, è consultabile online nel sito della Biblioteca Virtual Cervantes.
{3}Mario Vargas Llosa, Epitafio per un impero culturale. Contro vento e marea, vol. I (2011); La letteratura è fuoco. Contro vento e marea, vol. II (2011); Gioco senza regole. Contro vento e marea, vol. III (2011); La logica del terrore. Contro vento e marea, vol. IV (2012).
{4}Mario Vargas Llosa, Contro vento e marea, vol V (1964-1988), a cura di Martha L. Canfield e Antonella Ciabatti, Centro Studi Jorge Eielson, Firenze, 2015.
{5}Si veda in proposito il saggio di Vargas Llosa, ancora non tradotto in italiano, ma di prossima uscita nella collana del Centro Studi Jorge Eielson, La utopía arcaica: José María Arguedas y las ficciones del indigenismo, Fondo de Cultura Económica, México, 1996.
Martha Canfield e Mario Vargas Llosa a Viareggio (agosto 2010)
MARIO VARGAS LLOSA P’tit Pierre
Era nato in un paesino della Bretagna e (naturalmente) aveva per forza padre e madre, ma sono sicuro che non li conobbe mai, oppure che non pensò mai a loro e che in qualche momento arrivò perfino a considerarsi autogenerato, figlio del caso, come certi organismi selvatici, dalla parvenza granitica, resistenti a qualsiasi avversità e di condizione molto fragile. Sebbene la traduzione del suo nome – P’tit Pierre – sia Pierino, nel suo caso dovrebbe essere “piccola pietra” (così con le minuscole). Visto che proprio quello era stato P’tit Pierre lungo la sua vita quando io lo incontrai, laggiù a Parigi: un sasso, un ciottolo, una piccola pietra vagabonda senza cognome, né storia, né ambizioni.
Era sempre vissuto bazzicando nelle stradine del Quartiere Latino a Parigi, senza dimora conosciuta, praticamente che all’aria aperta, guadagnandosi la vita come bricoleur. La parola gli veniva a pennello: uomo tuttofare, lavoratore orchestra, capace di sturare tubi e camini, di piastrellare androni, modificare tetti, rammendare anticaglie e di trasformare soffitti sconquassati in graziosissime garçonières. Ma, questo sì, operaio capriccioso e super libero, che fissava il prezzo dei suoi lavori secondo la simpatia o antipatia che provava per i clienti e che non si faceva scrupoli a scomparire senza preavviso, a metà compito, nel caso di annoiarsi di quello che stava facendo. Ignorava il valore del danaro ed era sempre senza un soldo perché tutto quello che guadagnava lo dileguava subito pagando i conti degli amici, in una sorte di potlach.{1} Disfarsene quanto prima di quello che aveva era per lui poco meno di una religione.
L’ho conosciuto grazie alla mia amica Nicole, vicina di quartiere. La doccia incassata della mia soffitta cadeva a pezzi e per lavarmi ogni mattina dovevo fare equilibrismo e contorsioni. Mi disse Nicole: «La soluzione è P’tit Pierre». L’aveva scoperto da poco ed era incantata perché P’tit Pierre, con abilità e ingegno straordinari, aveva incominciato a trasformare magicamente il suo piccolo bagno in un lussuoso tempio per abluzioni e altri piaceri. P’tit Pierre venne nella mia soffitta, esaminò la mia doccia e l’umanizzò con una frase che lo dipingeva con precisione: «La guarisco io».
Siamo diventati amici. Lui era magro, sciatto, con una chioma di capelli ricci che non aveva mai visto un pettine e un paio di occhi azzurri errabondi. Nicole viveva insieme a un ragazzo spagnolo, coinvolto come lei nel mondo del cinema, e P’tit Pierre li svegliava la mattina con cornetti freschi appena usciti dal forno all’angolo di strada. Lavorava fino a mezzogiorno nel bagno messalinesco e poi veniva a svegliare me. Scendevamo insieme per mangiare un panino presso Le Tournon e lì ho iniziato a conoscere la spensierata esistenza che portava avanti, dormendo dove lo sorprendeva la notte, in pianerottoli, saloni, poltrone e tappeti di qualcuno dei suoi innumerevoli amici, nelle cui case rimanevano sparsi i pochi capi di vestiario e gli strumenti del suo lavoro che costituivano tutto il suo capitale.
Mentre io scrivevo, lui faceva risuscitare la mia doccia, o frugava tra le mie cose senza il minimo imbarazzo, o si metteva a disegnare pupazzi che dopo strappava. A volte spariva per giorni interi o anche settimane, e quando ricompariva, sempre il solito, ridente e cordiale, io scoprivo le insolite avventure da lui vissute senza che però lui le considerasse affatto importanti, come fossero semplici rituali della normalità. Così venni a sapere che era vissuto in un accampamento di zingari e che in un’altra occasione l’avevano arrestato per fare il bagno nudo nella Senna, una mattina all’alba, insieme a una banda di ragazzi e ragazze che avevano formato una comunità. Ma lui era troppo individualista per sperimentazioni promiscue e non rimase a lungo nel gruppo.
Qualche volta intratteneva caritatevoli rapporti amorosi con le padrone delle case che dipingeva, con signore cioè nelle quali, senz’altro, la sua aria sperduta stimolava l’istinto materno. Andava a letto con loro per simpatia o per compassione, non per interesse: ho già detto che P’tit Pierre era un curioso individuo privo di ambizione e di calcolo. Un giorno arrivò da me con una bambina che sembrava appena uscita da un asilo nido. Era un suo vecchio amore, di modo che quando P’tit Pierre l’aveva sedotta, lei andava ancora gattoni (esagero un po’). Vissero insieme, e più tardi la bambina fuggì con un vietnamita. Ora era tornata a casa dei genitori e stava per finire la scuola. P’tit Pierre la portava fuori ogni tanto per farle prendere una boccata d’aria.
Quando alcuni mesi più tardi la mia doccia rimase finalmente riparata, P’tit Pierre si rifiutò di farmi pagare. Abbiamo continuato a frequentarci, nei bistrots del Quartiere Latino, spesso con lunghi intervalli. Una sera ci siamo incontrati per strada e la mia amica Nicole arrossendo mi diede questa notizia: «Lo sai che vivo insieme con P’tit Pierre?».
Io non mi sono meravigliato più di quel tanto perché ho sempre avuto il sospetto che P’tit Pierre era innamorato della magnifica Nicole. Ma come era avvenuta la sostituzione di ruoli? Come era stato promosso P’tit Pierre da portatore di cornetti per Nicole e il suo uomo spagnolo a sostituto di questi? La mia teoria era che il fattore decisivo non erano stati i morbidi cornetti, bensì il bagno, meraviglia delle meraviglie, recinto di soli cinque metri quadri in cui l’immaginazione (e l’amore) di P’tit Pierre aveva concentrato specchi, piastrelle, ornamenti, porcellane, recipienti, vestiari, con una raffinatezza babilonica e un equilibrio cartesiano. Tutti gli amici del quartier assicuravano che il rapporto di quella ragazza piccolo borghese, colta e ricca con l’artigiano semianalfabeta e deliquescente non sarebbe durato molto. Invece io, con la mia incorreggibile vocazione romantica, scommettevo che sì sarebbe durato.
Mi sono sbagliato soltanto in parte, poiché ho indovinato che quegli amori non erano convenzionali ma inaspettati e drammatici. Mi sono arrivate le loro notizie parzialmente e in tempi diversi, per sentito dire perché poco dopo che Nicole e P’tit Pierre si sono messi insieme io ho dovuto lasciare Parigi. Ci sono tornato dopo diversi anni, e nel considerare il destino delle persone conosciute insieme a un casuale interlocutore, son venuto a sapere che la coppia era imboscata nei labirinti dell’amore-passione: si disfaceva e si rifaceva soltanto per disfarsi di nuovo. Qualcuno una volta, da qualche parte, mi domandò: «Ti ricordi P’tit Pierre? Sapevi che è diventato matto? È rinchiuso da parecchio tempo in un manicomio della Bretagna».
È stata la notizia del ricovero – e la relativa violenza – ciò che mi lasciò piuttosto scettico. Perché se la pazzia è la rottura della normalità, P’tit Pierre non era mai stato un uomo assennato. Da prima ancora di avere dominio della ragione lui era vissuto – come il suo predecessore Gavroche, il monello de I miserabili – contrariando i buoni costumi, il morale intronizzato, i valori disumani e, molto probabilmente, le leggi. Ma qualsiasi sintomo di aggressività fisica nei confronti del suo prossimo mi sembrava inconcepibile in lui. Io non avevo mai conosciuto un essere più buono, più disinteressato, accondiscendente e generoso di P’tit Pierre. Chi poteva convincermi che quel ragazzo per il quale sembrava inventato il bel termine «nefelibata» – sognatore, che vive fra le nuvole – poteva diventare un pazzo furioso?
Sono passati un altro bel po’ di anni senza avere altre notizie sue, quando a un tratto, in uno scalo tra due voli, all’aeroporto di Madrid, una figura mi chiuse la strada aprendo le braccia. «Non mi riconosci? Amico, sono il tuo vicino del Quartier Latin?». Era il cineasta spagnolo ex-compagno di Nicole. Così grosso e canuto che facevo fatica ad associarlo con lo smilzo legionense che quindici anni prima si scompigliava in pregiudizi carpetovetonici{2} ogni volta che la sua ragazza francese faceva cenno di pagare il conto. Ci siamo abbracciati e siamo andati a prendere un caffè.
Lui andava a Parigi ogni tanto, anche se per niente al mondo sarebbe tornato a viverci, quella città non era più nemmeno l’ombra di quello che era stata. E si vedeva con Nicole? Sì, qualche volta, erano sempre buoni amici. E come stava lei? Molto meglio, si era ripresa molto bene. Era stata malata Nicole? Come, io non sapevo quello che era successo? No, proprio niente, secoli che nessuno mi dava notizie di Nicole.
Lui mi diede le informazioni, e anche di P’tit Pierre verso cui – lo poteva giurare – non aveva mai serbato rancore per il fatto di essersi preso la sua ragazza. La faccenda del manicomio era vera e anche quella della furia. Ma non contro gli altri, era chiaro che P’tit Pierre era incapace di fare male a una mosca. A se stesso invece sì. Era già ricoverato da un po’ di tempo in Bretagna quando a Nicole fecero sapere che P’tit Pierre si era procurato una sega elettrica con la quale si era orribilmente mutilato. Le visite di Nicole lo turbavano e quindi fin quando non ci fosse stato un miglioramento del suo stato d’animo, i medici le vietarono di andare a trovarlo.
Settimane, mesi o anni dopo, la clinica avvisò Nicole che P’tit Pierre era scomparso. Le ricerche risultarono infruttuose. A quel punto, credo, Nicole si era rifatta la sua vita, come si dice, aveva migliorato la sua posizione e aveva trovato un nuovo compagno. Immagino che al momento di vendere il suo appartamento del Quartier Latin, il ricordo di P’tit Pierre doveva essere già qualcosa di remoto. Il fatto è che uno degli eventuali compratori si accanì nel curiosare la vasta soffitta che scorreva sopra la camera da letto, il bagno e la cucina. È stata lei che lo vide per prima? È stato l’eventuale compratore? Il corpo di P’tit Pierre si dondolava impiccato tra le ragnatele e la polvere, appeso a una delle travi. Come mai era riuscito ad arrivare fin lì senza essere visto? Da quanto tempo era lì morto? Non c’era stata forse una puzza che denunciava il suo cadavere?
L’aereo stava per partire e non sono riuscito a fare al cineasta spagnolo neanche una delle domande che mi pulsavano in testa. Se dovessi ritrovarlo, magari in un altro aeroporto, non gliele farò nemmeno. Non voglio sapere altro di P’tit Pierre, quel sassolino del Quartiere Latino che seppe aggiustare la mia doccia. Scrivo questa storia per vedere se così mi libero della sua maledetta ombra di impiccato che a volte mi fa svegliare nella notte tutto sudato.
Lima, dicembre 1983
{1}Il potlach (pòtläč, s. ingl. da una voce chinook che significa «dono») indica, in termini generali, una pratica interna ad un circuito di reciprocità. Il termine è derivato dalla lingua di una popolazione nativa dell’America settentrionale (ma lo stesso fenomeno è stato studiato anche in un arcipelago della Melanesia) ed ha rapporto con pratiche che in definitiva si possono considerare di natura commerciale. Cfr. Marcel Mauss, "Saggio sul dono", in Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 1965, ristampato anche come volumetto singolo con il titolo di Saggio sul dono, 2002. Presso alcune popolazioni di indiani della costa del Pacifico dell'America settentrionale, la pratica del potlach si articola in una complessa rete di prestazioni e controprestazioni di carattere circolare, utile ad affermare e riaffermare le gerarchie sociali interne ai gruppi coinvolti, e a determinare le gerarchie “tra” i gruppi in questione. (N. del T.)
{2}Nell’originale: carpetovetónicos, ossia dei carpetani e dei vetoni, o in rapporto con questi popoli preromani; si usa per indicare colui che si considera spagnolo a oltranza e si rifiuta di accettare qualsiasi influenza straniera. (N. del T.)
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Mario Vargas Llosa, Contro vento e marea, vol V (1964–1988) a cura di Martha L. Canfield e Antonella Ciabatti, Centro Studi Jorge Eielson, Firenze 2015, pp. 182, euro 20.
mcanfield@alice.it
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