Karl Marx e John Maynard Keynes sono considerati dalla vulgata assai diversi se non antagonisti. Qualcuno però ha provato a farli incontrare, in modo ideale, ovviamente, perché Marx muore nel 1883, lo stesso anno in cui nasce Keynes. Quando si dice in modo ideale, capita che alcuni mettano metaforicamente mano alla pistola: “vogliamo la nuda anche se talvolta matrigna realtà, soprattutto in economia”, dicono. Però intanto il nuovo ministro delle finanze della Grecia di Tsipras, Yanis Varoufakis, ha detto di essere convinto che i due potrebbero andare d’accordo soprattutto dopo la nuova Wall Street che ha messo in ginocchio mezzo pianeta. A dire il vero già prima della vittoria elettorale di Syriza anche altri economisti avevano osato ragionamenti simili. Non idealisti e neo-romantici persi più sulle nuvole che nei freddi calcoli algebrici da applicare algidamente alle cose economiche, ma propriamente economisti, quelli che con la calcolatrice dovrebbero studiare come far tornare i conti senza badare per il sottile. Pierangelo Dacrema, ad esempio, che – come del resto Varoufakis – questi conti se li fa da una cattedra universitaria, prima alla Bocconi di Milano e ora all’Università di Calabria. Non solo, ma ha scritto un romanzo. I realisti del re cui si accennava prima insorgeranno e chiederanno l’allontanamento di un genere di diporto – per poetucoli e perditempo, direbbero loro – da un contesto in cui regnano sottili calcoli e comparazioni cicliche.
Gli uomini del re meno realista di loro dovranno avere pazienza, perché più che un romanzo questo è un dialogo sul genere “passeggiate filosofiche”, frequentato in ogni epoca, dalla Roma antica al rinascimento, fino ad oggi, da pensatori, scrittori e perfino politici e papi. Ed economisti. Questa, di passeggiata, rappresenta il tentativo di capire meglio la nostra realtà, non quella ideale, ma quella nuda e cruda dei soldi d’oggi, e magari anche di quelli dello ieri di Marx e di Keynes. E Marx & Keynes. Un romanzo economico (Jaca Book, 2014) si intitola questo divertissement realistico e nel contempo leggero e ironico in cui un destino benevolo e un po’ complice permette ai due padri dell’economia di incontrarsi, passeggiare, fermarsi al tavolo di un bar e prendere un caffè insieme. Cosa che l’avvento di Face e altri incontri virtuali rende sempre più superflua e che si riappropria di tutto il suo fascino di perdita di tempo costruttiva e foriera di idee e giusto ozio.
Keynes ci va duro pesante quando si tratta di bacchettare coloro che non ascoltarono i suoi suggerimenti dopo la fine della Grande Guerra: “Il modo in cui stavano umiliando un popolo sconfitto mi disgustò” afferma alludendo ai signori di Wall Street che – il loro “realismo” avrebbe dovuto metterli in guardia, o allora il realismo è pura aria di rivincita e la letteratura magari più realista del re? – mettono in ginocchio i perdenti, pur sapendo che sarebbe stata la gente a pagare con la miseria quel realismo e quello scientismo economico. Con i risultati che sappiamo. Forse i poeti e i filosofi se ne sarebbero astenuti. Forse avrebbero evitato milioni di morti e lo spettro nucleare. Ma questa è un’altra storia.
Per tornare ai nostri due amici, l’inglese ci fa capire che non è vero che non c’erano state voci in campo alleato a mettere in guardia i vincitori dal calcare troppo la mano: “Nel 1921 pubblicai Le conseguenze economiche della pace, un saggio abbastanza articolato sugli errori imperdonabili commessi dagli Alleati nell’immediato dopoguerra” confessa scorato a Marx, il quale a sua volta, inaspettatamente passa ad attaccare i suoi seguaci, quelli che massacrarono contadini, piccoli proprietari e credenti con la scusa che oltre ad essere contrari alla rivoluzione, essi si drogavano con l’oppio dei popoli: la religione. “Ho parlato della religione come del sospiro della creatura oppressa, del sentimento di un mondo senza cuore che si presenta come lo spirito di una condizione senza spirito. Per questo ho detto che la rivoluzione è l’oppio dei popoli”.
Come si vede, un incontro tra giganti che non mancano di autocritica. E soprattutto un incontro che serve a Dacrema per sistemare i pezzi di un mosaico. Keynes ammette la fascinazione che i risultati dell’esperimento comunista in Russia avevano esercitato in lui durante il viaggio del 1925, perché non si trattava – secondo l’inglese – di sola economia, ma di un progetto “che non si lasciava subordinare agli affari”.
Che cosa unisce alla fine i due? Lo dice l’inglese: “ci ha accomunato un senso religioso della storia, dell’operosità dell’uomo, della dolorosa evoluzione di una società intesa come insieme di uomini nati uguali”. Attraverso modi di intendere diversi di questa uguaglianza, con l’attenzione ai rischi del capitalismo, soprattutto a quello costituito dal fatto che gli imprenditori possano preferire – in dati momenti – la liquidità agli investimenti, con le conseguenze sull’occupazione che abbiamo sperimentato. E Marx vedeva dovunque gli spettri di quei derelitti, anche bambini, vittime dei picchi estremi di un capitalismo che aveva fatto il mondo moderno, sfruttando la sofferenza degli ultimi, come nei quadri narrativi di non marxisti come Dickens.
Gli scopi erano davvero così diversi? “Il tuo Manifesto predicava la rivolta, la necessità di reagire, mentre la mia riforma si proponeva come antidoto alla rivoluzione sociale”, dice Keynes. Ma si tratta pur sempre, aggiunge, di un modo di occuparsi di esseri umani, che è quello che è sfuggito al dottrinarismo di chi ha applicato invece le teorie del “Moro”, privilegiando il tutto assolutizzato alla parte dell’individuo e riproponendo di nuovo la questione del bene personale.
Ma questo incontro ci dice anche qualcosa sul presente. Marx attacca l’impacchettamento di prestiti e debiti cartolarizzati in cui la parte del leone l’hanno avuta “le grandi istituzioni finanziarie di Wall Street” e poi “le agenzie di rating, prodighe di patenti di vendibilità di questa fiumana di prodotti, pronte ad appropriarsi dei residui del lauto banchetto”.
Perché tutto questo, si chiedono i due? Di chi la colpa? Di quella – secondo i Marx e i Keynes di Dacrema, che i romani chiamavano auri sacra fames, una fame che neanche l’intuizione di un crollo possibile e che avrebbe coinvolto tutti è bastata a frenare. Ed è il riformista Keynes a sferrare un attacco durissimo alla base del capitalismo, non Marx. Perché Keynes arriva in fondo, e cerca di portare alla luce il rimosso che è davvero difficile dire: il denaro. Il riformista è più rivoluzionario del principe della rivoluzione. Il denaro era diventato il dio, e i suoi fedeli erano convinti che potesse riprodursi senza più limiti. Keynes racconta che dopo una chiacchierata con Einstein aveva intuito anche nel grande scienziato una sorta di simpatia attenuata da se e ma per il comunismo, perché l’uomo senza limiti etici ed economici sembrava avviato all’olocausto economico. Ma l’inglese resta pur sempre, seppure titubante, al di qua del limen, perché a suo avviso la creazione del valore è sempre utile all’uomo, ma essa deve essere sostenuta da una equa distribuzione. Se la proprietà agisce nel rispetto delle regole e con lo slancio che ha contraddistinto alcuni capitalisti, allora la società regge, perché il capitalista accetta oneri e onori. Accetta il rischio, la competizione, ma rispetta la sua creatura e quindi anche chi vi lavora, questo nel più alto –eticamente parlando – dei casi.
I due però sembrano fare improvvisamente marcia indietro, tornando ad una parola che dopo di loro avrebbe ricevuto una accezione negativa: il consumo. È addirittura Marx a vedere in esso una molla fondamentale per l’economia, a sua volta favorita dall’egualitarismo, perché, secondo il tedesco, a redditi uguali corrisponde una maggiore spinta verso il consumo. Il problema a questo punto sembra a tutti e due il risparmio. Non solo: Keynes fa ammenda di aver sottovalutato un elemento che sarebbe balzato drammaticamente alla ribalta molti anni dopo, vale a dire la deflazione, visto che la Germania di Weimar aveva posto allora l’opposto problema dell’inflazione, che si riteneva l’unico vero male da scongiurare, e non è un caso che il pensiero dell’inglese abbia avuto grande risonanza in Germania e talvolta per questo attaccato da sinistra come una mano al nazionalismo.
Il redde rationem è vicino. I due non debbono più guardare al contingente ottocentesco (Marx) e novecentesco (Keynes), ma possono contemplare da lontano il panorama del mondo e delle sue trasformazioni, ivi comprese quelle economiche. E allora si parla del denaro, ancora una volta, ma in modo radicale. È lui il problema.
Oltre tutte le teorie, rimane quella questione, la auri sacra fames. Si può farne a meno? Marx ha dovuto fare i conti con la penuria di denaro, ed ha conosciuto la povertà. Si può parlare, senza essere richiusi in manicomio, di “rimozione dell’errore”? “Con il denaro ci si illude di poter comprare tutto, anche la dignità degli uomini. Non c’è stato giorno in cui non abbia dato al mondo ciò che ero in grado di dargli. Eppure quante volte, nei miei lunghi anni londinesi, non sono riuscito a pagare il macellaio, il panettiere o il medico, e mi sono sentito un miserabile”.
Di chi la colpa? Non della società, dice il Marx redivivo, né delle sue classi, né del capitalismo stesso, ma, semplicemente, del denaro. La differenza tra la sua umiliazione e i soddisfatti borghesi era il possesso del denaro. Il denaro ha preso una sua pericolosa autonomia e da mezzo si è trasformato in fine. E una delle sue figlie, la finanza, è diventata una forma assoluta di potere che ha in mano il destino di tutti.
Il mondo potrebbe diventare migliore, dicono tutti e due, mettendo in pratica progetti geniali di trasformazioni eco-compatibili, ospedali migliori, scuole migliori e vivibili. Ma non si può, perché manca il denaro, perché la finanza va là dove esiste il profitto, l’unico bene possibile in questa dimensione.
I due, nelle loro passeggiate, concordano anche su un’altra conclusione: “per ottenere il superamento della moneta occorre un’umanità educata a valori e significati diversi”. Una affermazione pericolosa: l’umanità andrebbe di nuovo rieducata in vista di un suo miglioramento effettivo, non di una sua forzata riabilitazione al comunismo, altrimenti torneremmo alla Cambogia di Pol Pot. Il problema non è produrre quantità maggiori, ma semmai è che “il denaro confonde meglio con più”.
Il libro si chiude con una leggera aria di speranza. Se il denaro non ci sarà più, l’umanità continuerà a fare le stesse cose di prima, alcuni lavoreranno altri no, il lavoro continuerà sollevato da pesi improduttivi posti alla salvaguardia della moneta. Come si vede, una passeggiata “filosofica” in tutti i sensi, giunta alle porte dell’utopia.
Si ha l’impressione che al di là del problema del denaro, ci sia il tentativo più profondo di rimettere l’umanità al centro di un sistema che piano piano ha messo fuori gioco la persona, ivi compresa la capacità di pensare oltre la materia e oltre l’interesse immediato.
Lo scenario di anziani che rovistano nella spazzatura, di famiglie per strada, di cinquantenni licenziati è sotto gli occhi di tutti e dovrebbe invitarci a riflettere sull’origine di quel disastro. Perché tra le tante responsabilità ce n’è una precisa, afferma Dacrema: quella dei signori del rating che hanno sbagliato clamorosamente, senza pagare pegno, le valutazioni di credibilità di alcune società. Contribuendo a creare un incubo in cui la creatura, il denaro, accerchiava il suo creatore per divorarlo. Non solo in senso metaforico, viste le vittime tra i lavoratori e gli stessi imprenditori.
Pierangelo Dacrema, Marx & Keynes. Un romanzo economico, Jaca Book, 2014, 240 pagine, 12 euro
Pierangelo Dacrema (1957) è professore ordinario di Economia presso l’Università della Calabria.
Il suo ultimo libro, Marx & Keynes. Un romanzo economico è stato pubblicato nel 2014 da Jaca Book.
Tra i suoi vari lavori si ricordano: La morte del denaro (2002); Trattato di economia in breve (2005); Il miracolo dei soldi (2010); Lettera aperta a uno studente universitario (2013).
testi.marco@alice.it
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