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Alla vostra sinistra le alture, la macchia, pochi alberi e il primo Forte in pietra. Alle spalle prosegue la linea difensiva, il fantasma delle mura con quello che resta dei tornanti, strappato il doppio senso. Alla vostra destra il castagneto, inciso con dolore e in più punti dall’asfalto, in tutta la sua umidità nel carname di ombre. Davanti a voi il Tirreno, invaso da un colore che nomina di nuovo la distanza, allude a un Sud stracarico di assunti, di illusioni supreme. L’acqua dal sole. Se la luce facesse rumore qui sarebbe di spade.
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Non parlare, ti prego non parlare davanti all’immodestia del paesaggio, agli ocra di Van Gogh, alle sue bruciature. Potrei anche odiarti per questo, se dicessi qualcosa, un qualunque commento, un aggettivo, ora di fronte alle colline penetrate sul fianco dal primo pomeriggio - la stoccata di sole, la frattura in un quarzo. Ci dev’essere anche in te una coscienza che risvegliandosi al centro del giorno comanda chiaramente di tacere.
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È una tempesta di luci sbieche, demoni di giallo. Magnifica. Eppure, resta molto di più quello che non vedi - i parassiti per esempio e i funghi, lo spavento delle lucertole, oppure nelle case piccole da qui, nei palazzi, le donne quasi giovani che hanno ancora le labbra assegnate a una frase malferma.
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L’ ordine del bosco dopo l’asfalto della strada. La giusta distanza tra gli alberi, le dicerie delle foglie secche a quelle nuove. Le diagonali del sole in perforazioni accese - “Oltre gli orti ancora bui, le chiese e i culmini il cielo era chiaro in cima ai rami …”*. È tutto vero, le fenditure lungo la corteccia dove ballano insetti, la tragedia delle zone d’ombra - “Perché pietà per quell’ombra, perché la scongiuro se scorgo le orme di minuscole ferite …”*, un’ idea delle tane. Le poche parole appese ai tronchi si portano in spalla i divieti di caccia e noi, che non li leggeremo mai (“Rispondo che è pietà per l’avvenire … …”)*.
*Franco Fortini, Composita solvantur, Questo verso
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Neppure dall’alto si aprono amnistie o idee di grazia per i quartieri oblunghi, per le periferie in colori di ossido sfamate lungo il fiume.
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(E’ chiaro che la luna trasparente meriterebbe pagine protette, o taciturne allusioni, in crescendo).
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Ma a volte la luce è ingiusta. E la vita a raschiare il vuoto lucente che avrebbe potuto essere in me.
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Ho pensato al fare dentro l’esserci. Al colore come a un fantasma del desiderio. Alla Terra che sfama il corpo e a volte affama l’anima. Non per come è, ma per come disponiamo di lei.
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Dall’alto ci sono cose che non vedi perché troppo piccole, altre perché sono lontane, altre ancora perché in basso o sepolte. Ci sono cose che non vedi perché accadranno a breve, un arcobaleno ad esempio, sopra quel promontorio in un giorno di ottobre col cielo impazzito. E poi ci sono cose che non vedi perché ti sono accadute e invece bisognava trovarle. “Cosa avevi davanti, se per davanti s’intende il tempo della vita, o il falsopiano che lieve degrada verso l’orizzonte, il tesoro che portavi tra le gambe, all’inguine”- *
*Cesare Viviani, “Infinita fine”.
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Ginestre. I rami a pioli sui pini deprivati. Tappi a corona ficcati nel terreno, macchiette di stelle. Il fango a risultare i muri a secco. Bicchieri di carta nelle foglie. Ripido un bosco. Il sacco rotto dei rifiuti e i rifiuti sparsi dappertutto. Il muschio sulle mura. L’erba in un grumo di terra che svicola dalle fenditure. Camere figurate nel bosco, separate dai tronchi come le stanze di un canto. Il bordo, la cunetta, dove finisce l’asfalto e inizia la natura, o dove finirebbe la distanza e inizierebbe il cammino.
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Partirai da qui nei prossimi trecento giorni, dal sole del mattino come uno sconto di pena. Passa, dove tutti sono già passati, riempi ogni spazio, allarga il cerchio, si fermeranno a pensarti gli animali, le bordure coi boccioli forzosi, le voci bianche dal fondo. Qualcuno spegnerà i lampioni, governerà la luce in un fiotto di onnipotenza. Da qui una volta passarono i cavalli, la strada conserva, come dosi omeopatiche di storia, gli spostamenti dell’aria.
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