I.
Il tulle rosa del tutù aveva uno sbaffo di cera rossa sul bordo. Sarebbe stato impercettibile agli occhi di chiunque, ma Marie lo vedeva. Sollevò l’abito di scena dalla sedia di legno accanto al letto su cui era adagiato e lo appoggiò sul davanzale della finestra per avere un po’ più di luce. Lavorò con delicatezza, intingendo una pezzuola nell’acqua e grattando un po’con l’unghia, finché la cera non si dissolse. Poi lo lisciò, per mandare via la polvere che nel frattempo si era poggiata anche sul corpetto.
Non pioveva dall’inizio di giugno. L’andirivieni delle carrozze fra Place Pigalle e Place de Clichy era incessante, e su Rue de Douai aleggiava costantemente una nube a grana finissima che si infiltrava ovunque non appena si apriva una finestra.
Marie, sua madre e le sue sorelle Antoinette e Charlotte, si erano trasferite nell’aprile precedente in quelle due stanzette buie e soffocanti nel seminterrato al numero 35 di quella via dopo aver cambiato innumerevoli alloggi. Dalla morte del padre, cinque anni prima, avevano peregrinato per tutta Parigi, trasferendosi via via in abitazioni sempre più squallide, perché il lavoro di lavandaia della madre non bastava a pagare neanche l’affitto più modesto.
Il rumore proveniente dall’altra stanza la fece sobbalzare. La voce aspra di Antoinette attraversava il muro sottile.
- È un porcile qui! Ma non ti vergogni? – la sentì apostrofare con quel tono arrogante che usava sempre più spesso. Sua madre piangeva sommessamente.
Marie si inginocchiò accanto al letto e sprofondò la testa nel tulle, chiuse gli occhi e strinse il palmo delle mani sulle orecchie. Sua madre e sua sorella si fronteggiavano fin da quando lei ne avesse avuto memoria: tanto era insolente la ragazza, quanto era inerme la donna di fronte alla prepotenza della figlia maggiore.
Maman aveva iniziato a bere poco dopo la morte del marito. Negli ultimi tempi, quei pochi franchi che riusciva a raggranellare lavando i panni dei signori che abitavano in Rue Fontaine prendevano sempre più spesso il volo sulle ali della fatina verde che abitava nelle bottiglie di assenzio. Provava un gran pena per la madre, ma anche una gran rabbia: non fosse stato per la danza, sarebbero già tutte morte di fame.
Marie e Antoinette erano state ammesse alla Scuola del Balet de l’Opéra di Parigi. La sorella maggiore era presto entrata nel corpo di ballo e aveva iniziato a guadagnare dieci franchi per ogni replica cui prendeva parte. Marie invece, più giovane, ancora studiava: le lezioni duravano ore e la fatica era sfibrante. Gli insegnanti severi portavano il tempo battendo il bastone sul pavimento di legno e non esitavano ad usarlo sulle giunture fragili delle piccole ballerine per correggere le loro posizioni quando non le ritenevano sufficientemente accurate. Nonostante questo, Marie amava quel mondo fatto di sudore e di purezza, di disciplina e di sfinimento.
Era fra le quinte dell’Opéra che aveva conosciuto il Maestro, un uomo ritroso che tentava di passare inosservato mentre disegnava forsennatamente col carboncino sul suo blocco da artista. Si teneva sempre in ombra, appoggiato ad uno scranno, ad una sedia, oppure seduto a terra con le spalle al muro, con i fogli tenuti rigorosamente impilati uno sopra l’altro, talmente schivo che sembrava tentare di confondersi con l’intonaco scrostato delle pareti. Teneva gli occhi sempre strizzati, nonostante non fossero mai colpiti dalla luce diretta, e le sue dita svelte e precise immobilizzavano le evoluzioni delle danzatrici riportandole con tratti veloci e minuziosi sulla carta.
Marie, in breve tempo, era diventata per tutti “la modella dell’artista”: monsieur Edgar la preferiva a tutte le altre adolescenti per le sue opere. Antoinette ne era rimasta piccata.
- Con quella tua faccia da scimmia, non so proprio cosa ci trovi di bello da ritrarre, in te! - le disse una volta, quando la celebrità della sorella minore iniziava ad essere legata più alle arti figurative che alle sue capacità nel balletto.
- Non ritrae il mio viso, ma tutti i miei movimenti e le mie posizioni. E tu sei solo una maledetta invidiosa! - urlò Marie per difendersi da tanta velenosità.
- Si, non sai che invidia per quello stralunato mezzo cieco del tuo pittore! Quanto ti paga? Cinque, sei franchi per quattro ore di posa? Io ne ho guadagnati ben venti l’altra notte, dieci per lo spettacolo e altri dieci per essere stata, diciamo così, gentile con un signore distinto che dopo la rappresentazione mi ha chiesto se poteva offrirmi dello champagne. Mi ha portato in carrozza fin su a Montmartre, al Lapin Agile, e il resto te lo puoi immaginare, un dopoteatro molto piacevole – replicò Antoinette con un sorriso lascivo.
- E tu, invece, dov’è che vai? Nel suo studiolo all’ultimo piano, qui all’angolo di Rue Fontaine? E cosa ti offre da bere, l’olio di lino con cui pulisce i pennelli?
Tutte le volte che intavolavano questi confronti feroci, Marie ne usciva frustrata per l’impossibilità di descrivere con parole leggere e trasparenti cosa significassero per lei quelle ore di posa.
Finalmente il trambusto nell’altra stanza sembrava essersi affievolito. Marie infilò il tutù, le scarpette e un largo nastro rosa in una sacca e sgusciò fuori.
Si mise a correre lungola strada affollata, zigzagando fra signori e carrozze, tagliando con le ginocchia magre la polvere che aleggiava a mezz’aria. Entrò nel portone blu che aveva attraversato altre volte e volò su per le scale, con i piedi che battevano un ritmo veloce e costante ad ogni gradino.
Arrivata al quinto e ultimo piano, bussò appena e aprì la porta senza attendere risposta.
Le finestre erano spalancate, il ronzio della strada era lontano, l’aria era pulita e la luce cristallina.
Il Maestro la stava aspettando, in piedi nel solito angolo in ombra.
- Ferma lì, – le disse senza salutarla – in controluce sei perfetta. Preparati e mettiti in posa.
La ragazza si spogliò e indossò gli abiti che aveva nella sacca. Poi si mise al centro della stanza, ondeggiò prima in avanti e poi indietro assumendo con i piedi la quarta posizione, lasciando però scivolare all’esterno il piede destro più di quello che si richiedeva normalmente. Incrociò le mani dietro la schiena tendendo le braccia e spostò il peso del corpo sull’anca sinistra. Tese il mento in avanti, sollevò leggermente il collo e socchiuse gli occhi.
- Sono pronta, Maestro - aggiunse con un filo di voce.
Una Marie in miniatura, fatta di cera rossa, era ferma su un tavolo da lavoro alto mezzo metro da terra. Il Maestro rimirò il suo capolavoro: era praticamente finito, quel giorno sarebbe stata l’ultima seduta con la modella.
- Quanti anni hai? – le chiese mentre ritoccava i particolari di un orecchio.
- Quattordici, Maestro – rispose la ragazza con sussiego.
- La ballerina di quattordici anni… – disse l’uomo rivolto a se stesso.
- Si, quattordici. Compiuti all’inizio di giugno, il sette! – replicò orgogliosa l’adolescente.
- Non muoverti! – ruggì lui – Rispondi in soffio – aggiunse con dolcezza.
Marie tacque. Il sole illuminava il suo corpo, sentiva la luce che si posava dolcemente sulla curva alla fine della schiena e sulle mani e il calore che le avvolgeva i capelli.
- Perché vieni qui, Marie? Potresti salire sulla butte con le tue amiche, e magari trovare dei giovanotti che possano passeggiare con voi fino al vigneto di fronte al Lapin Agile. Ad essere carine con i giovanotti, ci si guadagna più che a star ferme per ore di fronte ad un misantropo come me.
La ragazza non sapeva cosa fosse un misantropo, ma le suonava meglio del nome di quel locale dove la sorella guadagnava tutti quei franchi dopo gli spettacoli.
- Vengo qui per la luce, – disse stando ben attenta a respirare piano – perché quando il sole mi accarezza la pelle e io ho gli occhi socchiusi, non ho più le ginocchia nodose e il viso di una scimmia. Perché qui non c’è polvere come in strada e nella mia casa, e i colori sono colori.
- Nulla ti salverà da quella polvere, mon petit – replicò sottovoce l’artista.
L’adolescente non lo sentì, presa com’era dai suoi pensieri. Le veniva da piangere, adesso: come avrebbe voluto che Antoinette fosse stata lì in quel momento, a sentire le parole lisce e luminose come specchi che non era mai riuscita a trovare.
II.
Nell’ultimo anno, la vista di monsieur Edgar era ulteriormente peggiorata. Utilizzava sempre più spesso i colori dello spettro del rosso e del blu nelle sue tele.
Anche leggere il giornale diventava faticoso. Il trafiletto nella pagina degli spettacoli lo lesse lentamente, soffermandosi più volte sul nome, sperando di aver confuso qualche lettera.
La signorina Marie Geneviève van Goeuthen, di quindici anni, ballerina del Teatro dell’Opéra e modella di un esponente della corrente del “Nuovo Realismo”, è stata arrestata la scorsa notte per aver tentato di borseggiare uno dei suoi clienti in un ambiguo luogo di ritrovo di Montmartre. Tale increscioso episodio è costato alla giovane la radiazione immediata dal corpo di ballo del Teatro.
Fermo al centro della stanza, nello stesso punto in cui l’estate precedente posava Marie, l’artista azzardò due passi dove il sole rimbalzava sul pavimento. Contrasse le palpebre, investito da un dolore insopportabile. Quella luce che condannava inesorabilmente i suoi occhi ed il suo genio non era riuscita a salvare neanche la petit danseuse da tutto quel fango.
|