Una pioggia di poesie invece che di bombe nei cieli del Pakistan. David Shook, poeta di Los Angeles, ha lanciato una campagna di raccolta fondi per il progetto The poetry drone che, pur non essendo giunto ad oggi a compimento, schiude la possibilità di radunare qualche riflessione attorno all’azione artistica in zone di conflitto. In una intervista,{1} Shook sostiene che si tratta di un tentativo di umanizzazione delle interazioni tra Stati Uniti e Pakistan, a partire da un’azione di coinvolgimento critico di artisti e cittadini. La fisicità dell’intervento, sempre a detta di Shook, è centrale per trasformare il drone in agente positivo. L’ispirazione del poeta californiano viene da illustri azioni poetiche, quali quella di Raúl Zurita nei cieli cileni e nel deserto di Atacama e del collettivo cileno Casagrande, che ha bombardato di poesie i cieli di molte città che furono gravemente devastate nel corso degli attacchi aerei della Seconda Guerra Mondiale. Altra fonte di ispirazione è il progetto “Pale per pistole” del messicano Pedro Reyes, con il quale la popolazione è stata invitata a depositare le armi conservate in caso in cambio di vouchers e apparati elettrici; la fusione delle armi raccolte ha portato alla costruzione di 1527 pale, usate per piantare altrettanti alberi.
Nella zona del Waziristan pakistano a partire dal 2004 si è concentrato il maggior numero di attacchi di droni statunitensi, di anno in anno cresciuti in intensità. Le gravi conseguenze umane sono preziosamente raccolte nelle testimonianze locali pakistane del documentario Unmanned: America’s Drone War, diretto da Robert Greenwald. Ci ritroviamo di fronte a una iterata carneficina di civili e a una situazione di permanente shock sociale ad attanagliare la vita quotidiana e le aspettative future della popolazione locale. Uno shock che si impossessa della realtà ed è l’altro ordigno reiteratamente detonante in quei luoghi, nelle azioni, nel corpo, nelle coscienze della popolazione locale. “Non avevo paura dei droni prima – dice Nabeela dopo un attacco che ha ucciso sua nonna Mamana Bibl – ma adesso quando li vedo volare lassù mi domando: sarò la prossima?”. Un altro nipote racconta: “Sono ancora scioccato per l’uccisione di mia nonna. La sera solitamente ci riunivamo nella sua stanza e lei ci raccontava storie”.{2} Storie in brandelli come il suo stesso corpo dilaniato nel villaggio di Ghundi Kala, dove china stava lavorando nel suo campo. Era lei il target?
“Nel nostro tempo – scrive Orwell in La politica e la lingua inglese – il discorso e la scrittura politica sono la diffusa difesa dell’indifendibile. […] cosicché il linguaggio politico è costretto a consistere di diffusi eufemismi, interrogazioni con premesse fallaci, totale e nebulosa vaghezza. Villaggi indifesi vengono bombardati, gli abitanti spinti verso la campagna, il bestiame colpito da ordigni, le capanne date in pasto alle fiamme con proiettili incendiari: questa è chiamata pacificazione […] Questa fraseologia è necessaria se si vuole nominare le cose senza evocare la loro immagine mentale.”{3} Parole tremendamente adattabili al nostro contesto. La parola target è di origine germanica e il suo significato nell’inglese antico era schermare, difendere; nell’epoca medievale rappresentava lo scudo del guerriero che era, approssimandoci al significato attuale del termine, il bersaglio da colpire per avere la meglio in una battaglia. Nel linguaggio politico statunitense degli ultimi anni, si è spesso posto l’accento sull’indubitabile intelligenza e sull’estrema accuratezza dei droni nel raggiungere i targets delle specifiche operazioni militari e questo linguaggio ha trovato più volte eco nei mass media. Purtroppo dietro a quei targets in molti casi non c’erano bersagli militari accuratamente localizzati bensì la vita, il sangue e il dolore caduto all’improvviso nei tetti e nei cuori dei civili pakistani. Nulla di intelligente e accurato se non nel cercare di perpetuare una visione distorta della realtà storica attraverso un discorso che ruota solo intorno a targets freddamente raggiunti o no. C’erano, dunque, per dirla con Orwell, vivide immagine seppellite da parole algide e capaci di depurare la realtà del suo sangue. Purtroppo, come continua a dirci l’autore di 1984, il nostro linguaggio è brutto e inaccurato quando anche i nostri pensieri lo sono, ma purtroppo quell’inaccurato linguaggio rischia di alimentare a sua volta altri pensieri indifendibili.
Leggendo questi fatti alla luce delle teorie di Baudrillard, si può facilmente comprendere che ci troviamo di fronte ad una iperrealtà costruita attraverso la sostituzione della realtà con i segni del reale. Il pilota di un drone si ritrova ad agire a partire da informazioni elaborate da un software militare ed inoltre non vede direttamente il campo di battaglia se non attraverso uno schermo, seduto in una cabina nel Nevada. Quello schermo è il perfetto simulacro della realtà, è, malgrado tutto, la realtà distorta in cui si agisce nella realtà storica, annientando quello che si pensa essere realmente un target. Il pilota sembra piuttosto inserito in un videogioco e l’unica libertà che gli è lasciata è premere qualche bottone di una storia che ha già un inizio e una fine decisi da altri. L’invisibilità della persona dietro il target amplifica la disconnessione con la realtà e riduce la sensibilità e l’etica del pilota. Quanto al cittadino, la sua coscienza circa le zone di conflitto si nutre non di testimonianza diretta quanto di informazioni, è questa mediazione tecnologia a costruire il suo simulacro della realtà. A meno che non venga in contatto con le vive immagini e la viva voce delle persone, potrà restare a lungo intrappolato nella logica del target e accomodarla nella sua mente e agire e costruire la sua conoscenza del mondo basandola su di un simulacro della realtà.
Possono allora le arti aiutarci a ricostruire la connessione tra realtà e la gazzarra di segni che cercano di occultarla?
Alcuni mesi fa nel Museo di storia tedesca di Berlino ho avuto l’occasione di partecipare alla mostra dell’obiettivo fotografico attento di Herinde Koelbl. Si intitolava Targets e radunava una mole cospicua di materiali visuali e audio sugli addestramenti militari condotti in 30 nazioni. Lei si era coraggiosamente mossa tra tutti questi centri di addestramento per interrogare i futuri soldati sulla loro relazione con il target (questa volta reale, la silhouette a cui sparare). Qui il target invitava a sviluppare non solo la precisione nel tiro ma anche, tramite la meccanica reiterazione di un gesto, l’assuefazione ad esso in termini fisici e cognitivi. La mostra prevedeva un allestimento molto coinvolgente per il visitatore, che si ritrovava a muoversi in una riproposizione degli scenari reali dei campi di addestramento (ad esempio, con quattro installazioni video che coprivano le pareti di un’intera stanza e collocavano lo spettatore fisicamente al centro dei fatti). La sezione più interessante era quella in cui si poteva rivivere la ricerca compiuta dall’artista ascoltando ampi estratti delle sue interviste in una sala raccolta, con l’ambientazione desertica in cui erano state registrate. Ai visitatori, al cittadino si dischiudeva la possibilità di palpare da vicino, ma sempre attraverso uno schermo, quanto poteva aver conosciuto in forme ancor più mediate e sterilizzate e di dover sentirsi rimbombare nella testa la diretta e fredda dichiarazione di un soldato che diceva: “Accetto di uccidere ed essere ucciso, è parte del mio lavoro”.
Nella regione pakistana del Khyber Pukhtoonkhwa, colpita anch’essa da attacchi di droni ma non zona rossa come il Waziristan, l’anno scorso un collettivo di artisti pakistani ha deciso di aderire al progetto internazionale Inside out dell’artista francese JR portando avanti l’azione artistica chiamata #NotABugSplat. Gli artisti hanno fissato in un campo un poster gigante con la faccia di una bambina uccisa da un drone con l’intenzione di rendere visibile ciò che non lo è agli occhi del pilota e dell’opinione pubblica. Secondo gli artisti, quando i piloti dei droni colpiscono un essere umano, questo appare disintegrarsi nel loro schermo come un insetto schiacciato, il bugsplat appunto. In Unmanned: America’s Drone War è raccolta la dichiarazione dell’ex pilota di droni, Brandon Bryant e dalla sua confessione franta ci rendiamo conto che il pilota riconosce appena alcuni tratti del corpo, anche se molto pixellati. Bryant racconta di ricordare vivamente di aver visto il dilaniarsi delle membra della prima persona da lui uccisa e di essere rimasto, immobile come uno spettatore, ad osservare la lunga agonia che precedette la morte. Manca però di certo la possibilità di vedere il volto delle proprie vittime, quello che tutti presenteremmo come primo passaporto della nostra persona. L’operazione artistica di #NotABugSplat, ha voluto dunque restituire visibilità alle vittime chiamate targets e ha cercato di rendere partecipi i cittadini di tutto il mondo di questa riconnessione.
Ritornando all’iniziativa The poetry drone, così come strutturata al momento sembra essere più concentrata sulla risemantizzazione che sullo svelamento. Se da una parte permetterebbe di trasformare il drone in veicolo di un messaggio nuovo e quindi farebbe giungere in Pakistan la voce dei poeti e del punto di vista dell’Occidente non allineato con l’attacco militare, dall’altra potrebbe soffermarsi anche sulla riunione di cocci di segni, confrontandosi con il linguaggio politico volutamente inaccurato di cui parla Orwell e dall’iperrealtà di Baudrillard. Sarebbe pertanto interessante focalizzarsi sui volti dietro al target e allo schermo, cercando di farli incontrare nella scrittura poetica e nell’azione poetica. Staremo a vedere cosa ci riserverà David Shook. Nell’arte legata all’attualità (e in scenari di conflitto in special modo) bisogna tentare il non facile cammino di plasmarla affinché il suo obiettivo sia stabilire connessioni laddove prima non erano evidenti, svegliare immagini e così ricucire nella persona che partecipa all’azione artistica emozioni, coscienza e azioni coerenti alla nuova scoperta.
{1}<lapostexaminer.com/pakistan-poetry-drone-drop-poems-bombs/2014/03/02>
{2}Amnesty international, Will I be the next? Us drone strikes in Pakistan, Londra, 2013:7 (traduzione della redattrice).
{3}George Orwell, Politics and the English Language, in Horizon, Londra, 1946:2 (traduzione della redattrice).
luciacupertino@email.it
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