FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 37
gennaio/marzo 2015

D'aria e di terra

 

FELIPE GARCÍA QUINTERO, DI TERRA

di Alessio Brandolini



Un tema basilare nella lirica del colombiano Felipe García Quintero (1973) è il linguaggio. In un libro rilevante pubblicato a Quito nel 2001, Piedra vacía, (Pietra vuota; poi più volte riproposto – ampliandolo – in vari paesi ispano-americani) l’autore inserisce, a mo’ d’introduzione, una epigrafe in cui dichiara che il linguaggio è il problema che incarnano le poesie lì proposte e che il tema scelto per affrontarlo è, semplicemente, la scrittura.
Così nel suo lavoro la ricerca poetica e l’esplorazione del linguaggio originano testi, in poesia e in prosa poetica (o mescolando le due cose), che sorprendono per l’inventiva e il vigore surrealista – come quel fiume morto (così vivo) “che fluttua sull’acqua” – inventando una lingua personale dove le parole si affiancano in modo spesso inconsueto e imprevedibile, oppure recuperando un modo di esprimersi che sembrava perduto, come un percorso all’indietro verso l’infanzia e l’autenticità della parola, della comunicazione verbale.

Già nel titolo di quel libro (Piedra vacia) si ha un preannuncio dello smottamento del senso che poi si realizza sulla pagina: la pietra è “vuota” e quindi leggera, trasportabile, fluttuante nell’aria. Cambiando la sostanza muta anche il significato: la pietra resta pietra (questo è il suo nome) eppure adesso, svuotata del suo peso, è tutt’altra cosa. A prima vista le poesie raccolte appaiono propense a una creatività giocosa di tipo dadaista: “scrivo per smettere di scrivere”, o “a ogni parola evito le parole”. Però nel flusso di vocaboli accostati in modo diverso dalla norma le tematiche riflessive e filosofiche restano, nella sostanza, i cardini di una poetica che scava con voluta “leggerezza” negli abissi delle cose, della natura, dell’inconscio, delle relazioni umane e dell’autore stesso che s’indaga e scopre aspetti imprevedibili della propria personalità, come in un gioco di specchi che s’inseguono: “Chiedo ai miei occhi di me”.

Terral (Di terra) è stato pubblicato nel 2013 in Uruguay dopo aver vinto in Colombia, (nel 2012) il XIV Premio Nacional de Poesía “Eduardo Cote Lamus”. Ed è il libro dal quale provengono i testi della silloge qui sotto proposta: scelti sia per il tema (ben allineato a questo numero di Fili d’aquilone) sia per dare uno sguardo all’ultimo lavoro di Felipe García Quintero che, pur restando strettamente allacciato (lì sono le sue radici) all’ossatura di Pietra vuota, ha qui altre componenti. Per esempio un volo a bassa quota per vedere la Terra, con quello che contiene, da una prospettiva ravvicinata. Resta, comunque, l’indagine sul linguaggio, così centrale nella precedente raccolta, ma qui il tema s’incrocia e si fonde a quello della natura, del lavoro nei campi, dei ricordi dell’infanzia, recuperando sapientemente, tra l’altro, la poetica di un grande maestro colombiano: Aurelio Arturo (1906-1974).

Il libro si apre con poesie dedicate alla vacca, agli uccelli, al cavallo, alla mosca, al ragno... facendo venire alla mente, ai lettori italiani, famosi testi di Umberto Saba, amato da Felipe García che con il poeta triestino dialoga in un testo intitolato (non a caso) “La capra” (nella raccolta Siega, ovvero “Mietitura”, del 2011): “Ho ascoltato la mia voce nel gemito della capra solitaria”.
L’uso simbolico degli elementi naturali, “di terra” per dirla con il titolo del libro, dà all’ultimo lavoro di Felipe García Quintero uno sguardo allargato e pungente che s’incunea nella memoria ancestrale del vasto e mutevole paesaggio colombiano; mette in risalto il potere espressivo della parola, la potenza verbale della poesia che realizza visioni stranianti e grumose, talvolta sciamaniche dove “l’erba paziente sotto gli zoccoli del cavallo fa compagnia al vento solitario”.




POESIE DI FELIPE GARCÍA QUINTERO
da DI TERRA (Terral, 2013)


LA VACA

Bosteza la vaca de ojos mansos.
La hierba cómo abriga.

Sobre su lomo latente la garza
camina y camina.

El silencio cuánto espera
si en la tarde se detiene el viento del sueño
y las nubes se espabilan.

El sol de mis cenizas abraza el sosiego.


LA VACCA

Sbadiglia la vacca dagli occhi miti.
L’erba come riparo.

Sul dorso nascosto l’airone
cammina e cammina.

Il silenzio quanto aspetta
se nella sera si blocca il vento del sogno
e le nuvole si risvegliano.

Il sole delle mie ceneri afferra la calma.


CABALLO

Como la sombra pasta luz de la distancia, el alto cielo se entrega al vocablo que abreva en la mirada.

La hierba paciente bajo los cascos del caballo hace compañía al viento solitario.

La lejanía sitia sus visiones y, con el murmullo de los pájaros al alba, comienza el fuego por venir, ese aire tardo de la arbolada.

Lo que tanto camina la montaña de entonces es el silencio próximo de la mañana.


CAVALLO

Come l’ombra pascola luce della distanza, l’alto del cielo si abbandona alla parola che nello sguardo si disseta.

L’erba paziente sotto gli zoccoli del cavallo fa compagnia al vento solitario.

La lontananza assedia le sue visioni e, con il mormorio degli uccelli all’alba, inizia il fuoco dell’arrivo, quell’aria pigra dell’alberata.

Ciò che da allora percorre la montagna è il silenzio prossimo del mattino.


PÁJAROS

Silencioso amigo de los pájaros,
el aire que tienta los párpados.

El diálogo de las ramas echa raíces,
ese cantar de las hojas que el viento persigue.

Murmullo del bosque por las tenues colinas,
si la tierra dispersa los huesos de los pasos en la brisa.

Por ello la siembra del mundo es un día la mirada.

El día en la mirada,
cuando lo visto del día siembra de mundos la mañana.


UCCELLI

Silenzioso amico degli uccelli,
l’aria che sfida le palpebre.

Il dialogo dei rami butta radici,
quel canto delle foglie che il vento persegue.

Mormorio del bosco dalle lievi colline,
se nella brezza la terra disperde le ossa dei passi.

Per questo la semina del mondo è un giorno lo sguardo.

Il giorno nello sguardo,
quando ciò che si scorge del giorno semina di mondi il mattino.


LA TARDE

Rigor del aire la montaña erguida de la tarde; la espina en la mano solitaria es la distancia.

Así por siempre la desnudez del cielo, con la piedra, su vigilia y voz lejanas, quedan como pasos de otras tantas ramas.

Ante el muro arde la blanca línea del paisaje.

Tan próxima la flor del latido que la hierba oculta del aliento reverdece.

Rostro de la sombra es también la mirada, el goteo incierto de la luz exacta.

Ya en el corazón del latido asomará la mañana.


LA SERA

Rigore dell’aria la montagna innalzata dalla sera; la spina nella mano solitaria è la distanza.

Così per sempre la nudità del cielo, con la pietra, lontane la sua veglia e la voce, restano come passi di altrettanti rami.

Davanti al muro arde la bianca linea del paesaggio.

Così vicino il fiore del battito che l’erba nascosta dell’alito germoglia.

Volto dell’ombra è anche lo sguardo, il gocciolio incerto della luce perfetta.

Già nel cuore del battito spunterà il mattino.


LA MAÑANA

Nada ahora parece ocurrir:

el alto cielo,
el agua insomne,
la piedra quieta.

Nadie en cuanto habla,
ni tan siquiera esta huella
que tantos pasos lleva.

Sombras de la hierba,
hebras del viento entorno;
guijarros todos de la lengua absuelta.

El que mira sus ojos cerrados
y ve crecer la distancia, la arena.

El aire allega la montaña a sus talas inciertas.


IL MATTINO

Ora nulla sembra accadere:

l’alto cielo,
l’acqua insonne,
la pietra quieta.

Nessuno non appena parli,
né tanto almeno quest’orma
che porta con sé tanti passi.

Ombre dell’erba,
fibre del vento socchiuso;
ciottoli tutti della lingua assolta.

Quello che guarda i suoi occhi chiusi
e vede crescere la distanza, la sabbia.

L’aria innalza la montagna sui suoi incerti diboscamenti.


TERRAL

a Teresa de Jesús Dorado,
in memorian

Sus ojos en la piedra ya son miradas del agua a la noche quieta.

De esa mano tomé el sol cenizo de una moneda bajo la puerta.

Lo que ilumina desde entonces el fogón de leña es la cal insomne de una voz sin riberas.

Un jeme de fulgor, abuela, un dedal de claridad intensa.

En la justa mitad de la memoria, este chocar de trompos, del hierro y la madera.

Y la orina a rebosar en el hoyo de las canicas, el primer brindis de la tierra.

Una pelota furtiva colma la distancia del viento, aviva el grito que la ventana encierra.


DI TERRA

a Teresa de Jesús Dorado,
in memoria

I suoi occhi sulla pietra già sono sguardi d’acqua alla notte quieta.

Da quella mano afferrai il sole grigio d’una moneta sotto la porta.

Quello che da allora illumina il fuoco del legno è la calce insonne d’una voce senza spiagge.

Un nonnulla di splendore, nonna, un ditale d’intensa limpidezza.

Giusto nel mezzo della memoria, questo sbattito di trottole, ferro e legno.

E il piscio che trabocca dal foro delle biglie: primo brindisi alla terra.

Una palla furtiva riempie la distanza del vento, ravviva il grido che la finestra rinchiude.


LABRANZA

Porque larga será la jornada, el silencio apenas alcanza lo que dura una hogaza de pan.

Y aunque nada sea lo suficiente para surcar el alba, cada miga colma y hace ver cuán largo y pequeño es el camino de los ojos abiertos que iluminan el sendero.

En las manos el hambre empuña el hierro fiero, todos los metales del misterio.

El agua del grito tan hondo cava que la herida asoma en el habla primero.

Así la mirada ya no es latido del cuerpo yerto.


LAVORO DELLA TERRA

Perché lunga sarà la giornata, il silenzio raggiunge appena quello che dura una pagnotta di pane.

E benché nulla sia quanto basta per solcare l’alba, ogni briciola riempie e fa vedere quanto lungo e breve sia il percorso degli occhi aperti che illuminano il sentiero.

Sulle mani la fame impugna il duro ferro, tutti i metalli del mistero.

L’acqua del grido così profondo tira fuori ciò che la ferita getta prima di tutto sul linguaggio.

Così lo sguardo già non è un battito del rigido corpo.


UN CRISTO

Su dolor me duele, sangro por estas sus manos mías.

Y es por mí, que sufre también, pero soy yo el que se lamenta.

Mas nuestra sola carne no puede dar paz a la voluntad del viento, ni voz a la letra el horizonte de hierro.

Como frutos el árbol descoyuntado de los huesos, así de mi calavera pende la hierba.

Llena de migas crece el hambre en el canto de quien está desnudo y coronado.

Un pájaro vela el silencio del madero.


UN CRISTO

Il suo dolore mi fa male, sanguino per queste sue mani mie.

Ed è per me che anche soffre, eppure sono io quello che si lamenta.

Ma la nostra carne non può dare pace alla volontà del vento, né una voce reale all’orizzonte di ferro.

Come frutti l’albero slogato delle ossa, così dal mio teschio pende l’erba.

Piena di briciole cresce la fame nel canto di chi è nudo e incoronato.

Un uccello veglia il silenzio del tronco.

Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini




Felipe García Quintero
è nato a Bolívar (Colombia) nel 1973. Insegna presso il Dipartimento di Comunicazione Sociale dell’Università del Cauca. È autore del libro di viaggio ambientato in Messico Diario sucio e di quelli di poesia: Vida de nadie (Spagna 1999; pubblicato anche in francese nel 2004); Piedra vacía (Ecuador 2001; Messico 2012; Costa Rica 2013); La herida del comienzo (Spagna 2005; Ecuador 2013); Mirar el aire (Colombia, 2009; Bolivia, 2015), Siega (Colombia 2011; Perù 2013) e Terral (Uruguay 2013).
Ha pubblicato le antologie poetiche Honduras de paso (Venezuela 2007), Horizonte de perros (Colombia 2005; Bolivia 2011), El pastor nocturno (Colombia 2012; Repubblica Dominicana 2012) e Tarjo (Spagna 2013).
Suoi testi sono stati inseriti in antologie di poesia colombiana e latinoamerica e tradotti in diverse lingue. Ha vinto premi di poesia in Spagna, in Colombia e in Cile il Premio “Pablo Neruda 2000”. Ha pubblicato anche libri di critica letteraria.


alexbrando@libero.it