FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 29
gennaio/marzo 2013

Velocità

 

MA ’NDO VAI, CO’ QUER FISICO

di Armando Santarelli



Olimpiadi di Tokyo 1964. Ho solo otto anni, ma il virus della passione per l’atletica leggera mi ha già contagiato. Sono davanti alla tv, accanto a mio padre, per seguire la finale della gara regina dell’atletica, i 100 metri piani. In lizza per la vittoria, annuncia il telecronista, sono il cubano Figuerola, il canadese di colore Jerome e lo statunitense Hayes, ventunenne gigante nero di Jacksonville, Florida. Jerome e Figuerola sono due velocisti molto agili, con una struttura longilinea e una corsa bella e fluida. Bob Hayes è un atleta massiccio e potente: è alto 1,83 e pesa 86 kg. Le possenti masse muscolari sembrano quasi imprigionarlo nella fase di riscaldamento, durante la quale gli avversari si mostrano molto più sciolti e scattanti. Al comando di un giudice, i velocisti vanno sui blocchi, e nel totale silenzio dello stadio lo starter fa esplodere il colpo di pistola. Hayes, che corre in 1^ corsia, è fra i più lenti a mettersi in moto, ma dopo qualche decina di metri le sue leve massicce cominciano a mordere il terreno con potenza devastante, mentre le braccia mulinano nell’aria come stantuffi, accompagnando le gambe nella conquista della massima velocità. Le telecamere giapponesi si soffermano sulla faccia dello statunitense, che pare esprimere la feroce determinazione di dimostrare che la scioltezza e l’eleganza non possono nulla contro una macchina costruita al servizio della potenza. Dopo dieci secondi netti, Hayes spezza il filo di lana, eguagliando (con cronometraggio elettronico) il record mondiale, stracciando quello olimpico, e facendo dire a Jesse Owens, il nero che a Berlino aveva umiliato Adolf Hitler: «È il più grande sprinter di ogni tempo».
«Non so se rivedremo una gara così spettacolare», commentò mio padre. Sbagliava, per fortuna; la manifestazione più eclatante della velocità dell’essere umano, il più grande tributo al gesto atletico della corsa veloce, doveva ancora arrivare.

Quattro anni dopo l’annichilente prova di Hayes, ero di nuovo davanti al video, per seguire la finale dei 200 metri piani delle Olimpiadi di Città del Messico 1968. I cento metri, che avevano visto schierati ai blocchi solo uomini di pelle nera, avevano già regalato grandi emozioni, col record mondiale ed olimpico del vincitore, lo statunitense Jim Hines. Favoriti nella gara dei 200 sono ugualmente due atleti degli USA, John Carlos e Tommie Smith, e il bianco australiano Peter Norman. Il pronostico è incerto; Carlos è più potente degli altri due; Norman è un atleta dalla corsa regolare ed estremamente redditizia; Smith, fisico statuario, ha leve lunghe e nervose, ed è meno veloce nella fase di avvio. Le potenzialità di questo formidabile atleta sono ancora inesplorate: in un meeting svoltosi negli USA, cimentatosi quasi per scherzo nel giro di pista, che non è la sua specialità, si è lasciato alle spalle fuoriclasse come Evans, James e Freeman, ovvero i migliori quattrocentisti del mondo!

Parte la corsa, e prima dell’uscita dalla curva le posizioni non sono chiare; quando gli atleti imboccano il rettilineo finale, Carlos è nettamente in testa, e sembra avviato a una sicura vittoria. Ma a questo punto succede qualcosa di prodigioso; come sospinto da un vento soprannaturale, Tommie Smith, senza sforzo apparente, cambia marcia, sprigionando una potenza e al tempo stesso una naturalezza di corsa inaudite. Con falcate ampie e armoniose semina in poche decine di metri tutti gli avversari, e piomba sul traguardo in piena scioltezza, sorridendo e alzando le braccia al cielo. È un gesto splendido, iconico, che rimarrà nell’immaginario della storia sportiva dell’uomo, e che dà ancor più valore a una prestazione già di per sé straordinaria; rallentando vistosamente negli ultimi metri, e sollevando le braccia in segno di vittoria, Tommie Smith ha perso di sicuro qualche decimo di secondo; nonostante ciò, il cronometro elettronico segnerà il tempo eccezionale di 19.83, record mondiale che rimarrà imbattuto fino al 1979, quando il nostro Pietro Mennea, nelle Universiadi di Città del Messico, lo abbasserà a 19.72.



L’incredibile accelerazione di Tommie Jet Smith nei 200 di Città del Messico, la sua esultanza a braccia alzate, il sorriso quasi infantile nell’atto di tagliare il traguardo, compongono, per me, il più bel gesto sportivo di ogni tempo. C’era tutto, nella regale performance dell’uomo che un giornalista sportivo inglese, Neil Allen, aveva definito “un’architettura in movimento”: la potenza, l’armonia e la fluidità dei gesti, la classe, la consapevolezza di partecipare non a una gara, ma alla gara, quella che avrebbe potuto coronare il sogno di una vita: salire sul gradino più alto del podio, rimanendo nella storia dei Giochi Olimpici.

Quando, al 2° anno di Liceo Scientifico, l’insegnante di Educazione Fisica ci portò sulla pista di atletica del glorioso Campo Ripoli di Tivoli, e mi chiese che cosa mi sentissi di fare, risposi di getto: «Vorrei fare la velocità. Mi piace concentrarmi sui blocchi, cercare l’assetto giusto, correre in decontrazione».
Mi guardò dalla testa ai piedi: «Ahò, parli come un libro stampato! Vedo che sei preparato, in teoria potresti fa’ tanto. Ma ’ndo vai co’ quer fisico? Sei arto sì e no uno e sessantotto, nun c’iai massa… Hai visto l’americani? Colossi che arrivano a 85 chili. Lassa perde, famme cinque giri de pista, vedemo un po’ come vai co’ la resistenza».
Il verdetto del professore di ginnastica decretò la fine delle mie speranze di poter sprintare sulle piste di atletica; così, il mio amore per la velocità rimase confinato ai volatoni, spesso velleitari, con cui amavo concludere le gare podistiche amatoriali, sprint spesso inutili se non dannosi, ma coi quali pensavo forse di impressionare gli sparuti spettatori che seguivano le corse dilettantistiche.
Era destino che la mia passione per la velocità dovesse mantenersi viva non attraverso le mie prestazioni, ma quelle altrui, quelle dei veri sprinter.

Nel 1979 fui invitato a Pasadena, in California, da un cugino di mio padre. A un centinaio di metri dalla sua villetta di Lambert Drive sorge il Victory Park, complesso sportivo dove trovai un bella pista di atletica, ideale per concludere le mie corsette con qualche allungo sull’elastico tartan.
Il primo giorno, mentre faccio un po’ di stretching, vedo un uomo di colore che sfreccia sulla pista con una velocità impressionante. La cosa bella è che assomiglia, nel fisico e nello stile, a Donald Quarrie, sprinter giamaicano dalla corsa regolare ed elegante, di cui ho ammirato, tre anni prima, la gara vittoriosa nei 200 metri piani delle Olimpiadi di Montreal. Un allenamento, due, tre, nel corso dei quali scambio col sosia di Don Quarrie occhiate e saluti occasionali. Il quarto giorno non resisto più; accanto a me si sta svestendo della tuta un altro nero, velocissimo pure lui. Ci presentiamo: è un atleta dell’Università della Southern California, si chiama Guy Abrahams, viene da Panama. Mi dice che gli atleti dell’USC si allenano lì, e che ci sono anche James Gilkes e Lennox Miller.
«Che cosa? Lennox Miller? Il giamaicano che è arrivato secondo nei 100 di Città del Messico?».
«Sì», replica lui, «e terzo a Monaco 1972».
«E tu?» gli chiedo sempre più incuriosito.
«Non sono il migliore, ma me la cavo. Sono stato quinto nei 100 delle Olimpiadi di Montreal».
«Complimenti. Lo vedevo che sei veloce. Senti, ma allora, quello è veramente…».
Sorride: «Sì, quello è Don Quarrie, medaglia d’oro nei duecento». Per poco non svengo. Davanti a me, a distanza di pochi metri, sta correndo uno dei migliori velocisti di tutti i tempi! Ringrazio Abrahams, che mi assicura che finito l’allenamento mi farà conoscere il campione olimpico. Manterrà la promessa, e con Quarrie parlerò della tecnica di corsa, delle sue difficoltà nella partenza, che ha migliorato con anni di ostinata applicazione, dei suoi avversari, fra i quali il nostro Pietro Mennea, che dirà di stimare molto. Da quel momento non ho occhi che per lui; ne ammiro la falcata armoniosa ed efficace, e capisco che, per quanto la corsa veloce non sia affatto un atto istintivo, perché richiede concentrazione, movimenti studiati e ripetuti alla perfezione, potenza ma anche scioltezza, è tuttavia sempre Madre Natura, è il DNA a contare. Questi ragazzi sono i discendenti degli uomini rubati all’Africa dagli schiavisti americani, e rappresentano il risultato di una selezione durissima, che ha premiato i più forti, i più resistenti, i più veloci.

Mi sono chiesto più volte perché, fra tutte le meravigliose imprese sportive dell’uomo, la mia psiche abbia scelto la corsa di Tommie Jet Smith alle Olimpiadi messicane. Credo che la risposta sia iscritta anzitutto nell’ambiente che mi ha plasmato. Io sono nato in un paesino di mille abitanti, e scorrazzare libero nei vicoli, nelle piazze, nei prati sotto le mura, ha costituito la prima pratica sportiva della mia vita. Forse chi è cresciuto in una città ed è stato portato sin da bambino in un circolo di tennis metterebbe in cima alle sue preferenze il fantastico match vinto da Ken Rosewall contro Rod Laver, a Dallas, il 14 maggio 1972; e una bambina che ha frequentato una palestra di ginnastica artistica, l’esercizio alle parallele asimmetriche della rumena Nadia Comaneci alle Olimpiadi di Montreal del 1976, esercizio svolto con una perfezione mai più eguagliata.
Ma credo che la mia scelta abbia un carattere più generale, una giustificazione antropologica. Correre è stato fin dall’inizio un qualcosa di necessario, per l’uomo. I nostri antenati dovevano correre per mangiare e non essere mangiati. In Omero, non solo il pié veloce Achille, ma anche i guerrieri che hanno appena scagliato la lancia, anche i messaggeri si muovono “con agili piedi”.

Se il movimento è il medium per mezzo del quale cogliamo l’esistenza oggettiva del mondo, la corsa è il movimento per eccellenza, un’azione che non coinvolge parti isolate del corpo umano, ma la nostra intera struttura. Correre è un attività molto più spontanea e naturale di giocare a tennis, o a rugby, o andare a cavallo. La prima sfida che ognuno di noi ha dovuto affrontare si è svolta nel cortile di casa o dell’asilo, o sulla strada, o sul campetto della parrocchia, ed è stata quella di misurarsi con gli altri nella velocità. Non è certo un caso che le prime Olimpiadi dell’Antichità prevedessero una sola gara, lo stadion, ovvero una corsa su un rettilineo di 192,27 metri. All’inizio della storia sportiva dell’uomo non poteva esserci che un gesto primordiale e istintivo, comprensibile a tutti, ripetibile da tutti, la soluzione più semplice dell’equazione spazio-tempo risolta col proprio corpo, senza l’ausilio di alcun altro mezzo.

Il mio ultimo appuntamento con la velocità ebbe luogo un paio di anni dopo la trasferta californiana, quando la Pro-Loco di Cerreto Laziale, il mio paese, organizzò dei giochi popolari che prevedevano, fra gli altri, i centro metri piani “in piazza”. Sì, proprio sul selciato della piazza centrale, intitolata a Guglielmo Marconi. Si iscrissero tutti i ragazzi del paese; io, che ero stato fra i pochi a fare (di nascosto) delle sedute di allenamento specifiche, avevo serie speranze di rientrare fra i primi tre. Superai un paio di turni, poi, nei quarti di finale, a metà corsa, incocciai un selcio più alto degli altri, e franai rovinosamente a terra. Mi circondarono parenti, amici e organizzatori della corsa, che dopo un sommario esame dei danni subiti, mi rassicurarono: ero sbucciato in più parti, ma non avevo niente di rotto; tutto sommato, conclusero all’unisono, mi era andata di lusso. Per ultimo arrivò mio padre. Vide le escoriazioni, mi fissò con sguardo severo ed esplose: «Ma ’ndo vai tu…». Cavolo! Le stesse parole dell’insegnante di ginnastica…


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