I
È segno incolore, dimora spaesata ogni gesto di pace, un saluto, un abbraccio, che un niente all’improvviso divide e tramuta in sventura. Nascono dalla stessa pianta velocemente il bene e il male e con cento teste di cenere cresce incessante la nostra paura.
II
Afferrala per il ciuffo rapidamente, perché sai nella nuca è calva, colei ch’è tanto posta in croce anche da chi dovrebbe amarla. I grandi cerchi d’acqua, come un respiro, un dettaglio che si frantuma, nascono tutti dal medesimo punto che in un istante li muove come verso un sonno e in un sonno scompare.
III
Se non hai più voce prova a rubarla a chi non può parlare, affrettati ora che l’alba è già nel rosso di un tramonto. Anche la terra si deformerà in una crosta molle senza misura, ma avvolta nel suo mantello intatto durerà nei secoli come la notte la nostra smisurata paura.
IV
La velocità è una variazione di grandezza, una parola bucata da restaurare. La velocità accecante del ghepardo, del falco in picchiata... la velocità nel terso stupore alla finestra del vento, del mare. La velocità è complementare alla lentezza. La velocità di fuga, sai, è la velocità minima iniziale a cui un oggetto senza propulsione si muove per potersi allontanare.
V
Una forza mutilante è l’amore, dimora dorata di povertà, ponte senza arcate che spezza e congiunge rive lontane. Nei tuoi occhi, se chiudo i miei, l’azzurro assorto d’oltremare, l’incanto e la paura, una fuga a perdifiato nei campi, una rosa purpurea trafitta che disfiora e vive a metà.
VI
Squarcia il vento un cielo duro, alle folate la pioggia apre nel chiarore dei monti varchi invisibili. Férmati un poco, arresta il passo in questo luogo. Consurge puella! Ci sono fuochi ancora accesi e altra terra solforosa e volatile. Si piega come un arco tra un dono e la memoria quel ramo di ciliegio, ci sfiora con le sue piccole foglie avvizzite. Ci sono radure, sai, e cavalli veloci pronti a partire e vecchie stazioni di sosta nell’intrico della foresta.
VII
La velocità è cieca. Avvince, avvolge, impedisce di vedere. Non è piombo l’accidia, mi dici, e neppure indizio di ogni male ma un inizio obliquo di lentezza. Risalgono fino alla superficie liscia dell’acqua le bolle d’aria senza fretta e in un punto invisibile si dissolvono per ricomporsi e tornare alla vita. Soltanto la polvere preserva ogni traccia, ogni cosa che ricade in se stessa e disseccandosi scompare.
VIII
La neve che cade... che appanna i vetri della finestra, i campi, i passi sordi di mia madre... la neve ostinata che salva il torpore di un paesaggio incompiuto ed elementare. Nessuno s’affretta, ogni cosa rimane immobile e indifesa come un suono disarticolato sulla pagina di un sillabario. Non è poco questo giorno assurdo e sconfinato nella luce breve del solstizio, non è follia nell’attesa immaginare un altro giorno che nasce e si consuma senza perdita e senza profitto, così inutile e umano...
IX
A noi che a nostro danno abbiamo generato un mondo che non serve, moltiplicando velocemente ogni altro inganno, questo giorno di scadenze interrotte, di agende da annullare, questo silenzio di neve è un breve passaggio scombinato, un richiamo impercettibile come un seme, un fiore che le parole non sanno più nominare.
X
Si sgranano le dita sul tamburo piegano la lentezza, la materia, il fragore dell’oceano a Inishmore, del vento che sradica e lascia arida e salata la terra. Ai bordi il suono è più acuto, colpisce veloce, scompagina la memoria chiusa nelle cose, è assordante come il sangue dei bambini uccisi a Gaza. Sono colpi esplosi contro il Sole, contro gli dèi e le stelle, se non trema nel vuoto la mano e non s’arresta nel bianco di un foglio dove tutto ancora può accadere.
(dicembre 2012 – gennaio 2013)
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