FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 29
gennaio/marzo 2013

Velocità

 

VELOCITÀ E LENTEZZA

di Lucetta Frisa e Marco Ercolani



Per Henri Michaux

Osserva Jean-Dominique Rey, conversando con Henri Michaux: «La prima domanda che si pone chi osserva la vostra pittura riguarda la rapidità della sua esecuzione. Ciò che in essa colpisce subito è l’impressione della velocità».
Lo scrittore e pittore belga risponde: «L’impressione è giusta. Per molto tempo usai solo l’acquerello che è un medium veloce, ma l’inchiostro permette di andare ancora più in fretta. E l’acrilico, in due tempi, è velocissimo. Mi sorprende sempre il fatto che così pochi pittori pensino alla velocità, quando rappresenta un fenomeno essenziale dei nostri tempi. Scultura e pittura hanno ancora una lentezza medioevale. Ora tutta la nostra epoca ci parla di velocità. A differenza di chi pratica la velocità e ne è maestro, come Pollock e Mathieu, faccio corpi in movimento, parti di disegno che lo evocano, pezzi staccati che se ne vanno via… gruppuscoli che rappresentano i movimenti di questa velocità, senza i quali l’impressione generale sarebbe quella di grande esasperazione. Questo movimento rappresentativo del movimento conduce a una relativa semplicità: il bianco e il nero […] In nessun momento devo perdere la velocità; vi sono altri dieci modi di utilizzarla ma fino ad ora non si è accettato il fenomeno in quanto tale. In questo senso il grande nemico è la pittura a olio, che invita a lavorare pieno e sfumato.»

Alla fine Michaux ci rivela che la velocità “che non si deve perdere” è proprio quel desiderio onnipotente di “simultaneità” tipico del bambino: «I piccoli consegnano alla pittura spazi liberati dallo Spazio. Sono centinaia che, da soli, in altri tempi come adesso, hanno trovato, secondo la necessità e il desiderio, la ‘simultaneità’, che unisce e combina la cosa vista e quella sconosciuta, la visione dell’occhio e la conoscenza dello spirito, l’interno con quell’esterno che cessa di nasconderlo.»
Il “cinetico” Henri non smette mai di stupirci. Non appagato dal trascorrere incessantemente da una forma all’altra, nel caleidoscopio dei suoi testi, sempre ibridi e sfuggenti, sospesi fra prosa e poesia, in un certo momento della sua vita, ormai affermato come scrittore, rifiuta la lentezza con cui la parola descrive certe sensazioni, certe percezioni nate sulla soglia fra visibile e invisibile, in quelle “brecce” che non ha mai smesso di indagare. Pur avendo inventato esseri psicologicamente imprendibili (il signor Piuma) o elastici e filiformi (i Maidoséms), abitanti immaginari di qualche paese dove la vita è come un balletto di linee, ben lontano dalle leggi antropocentriche del pianeta-uomo, lo scrittore belga testimonia la sua insofferenza di fronte al medium della parola e preferisce il segno. Per esprimersi, per “decondizionarsi”, ha bisogno dell’impetuosa rapidità dello schizzo. Nel gesto pittorico si libera in modo definitivo dal peso specifico, dalla gravità del senso che il linguaggio porta inevitabilmente con sé.

Michaux, e ce lo conferma all’indomani del suo lutto più grave, la morte della moglie vittima di un incendio ferroviario, spiega perché non ha voluto usare la parola per scrivere di quel lutto. «Scrivere? Parole? Non ne voglio nessuna. Abbasso le parole. In questo momento nessuna alleanza con loro è concepibile. Sono al di là. Ho bisogno di lasciarmi andare totalmente, di sprofondare in una depressione generale senza opporre resistenza, senza volerla chiarire, come un uomo stordito da uno choc che desidera solo stordirsi di più […]. Per questo […] la pittura mi viene meglio. La mia impreparazione quasi totale. La mia mancanza di abilità tecnica, la mia incapacità di dipingere, conservata fino a tarda età, mi permettono di lasciarmi andare, di lasciare andare tutto – senza sforzo – al disordine, alla disarmonia e alla macchia, il male e il senso sottosopra, senza malizia, senza correggere nulla, con innocenza.»
Il dolore non ha parole. Va al di là o al di qua di tutto: è “l’altrove” che ogni uomo, prima o poi, è costretto a provare in vita. Ma, se le parole mancano, se un evento emotivo sconvolge o ammutolisce, i segni possono esprimere più adeguatamente questo “andar fuori di senno”: uno schizzo è come un grido espulso da una cavità buia.
“Velocità, sollievo dal male” – scrive Michaux.

La velocità dello schizzo è soprattutto un abbandonarsi, un vero e proprio andare alla deriva, privo dei lacci della logica. «I libri sono noiosi da leggere. Non permettono la libera circolazione. Ci costringono ad andare diritto. La strada è bell’e tracciata, unica. Il quadro è tutt’altra cosa: immediato, totale. A sinistra, a destra, in profondità, possiamo andare dove vogliamo.» Cioè, i libri rallentano, portano a una sola mèta. I quadri permettono divagazioni, distrazioni. La parola, anche quella poetica, non può divagare troppo, liberarsi del tutto, come può invece il segno. È suono lentamente e logicamente ancorato al senso, come ci indica Roland Barthes: al massimo, può diventare aforisma fulmineo, frase sentenziosa, poesia brevissima. Ma a Michaux non basta più tutto questo. Il suo “temperamento” – e il suo dolore – richiedono una velocità che solo l’immagine gli concede. Non è un caso che protagonisti dei suoi schizzi siano volti deformati e allungati, che emergono come da una folla imprecisata, o forme indefinite come vibrioni, insetti, creature volatili – simboli sfuggenti del mistero cellulare da cui siamo circondati. Si tratta della continua creazione di nuovi spazi, di nuove “specie di spazi”. Come osserva Giuseppe Zuccarino: «solo così, infatti, esplorando senza sosta nuovi spazi, esteriori o interiori che siano, cercando sempre di osservare il mondo da un’altra finestra, ci si potrà davvero sentire vivi.» Sentirsi vivi è restare indocili, inclassificabili: e questa libertà coincide con quella mercuriale inafferrabilità che Italo Calvino, nella sua lezione americana sulla “Rapidità”, definisce “il fulmineo percorso dei circuiti mentali”.

Ma Michaux ci fa oltrepassare una soglia ulteriore, quando afferma: «Temo piuttosto che la pittura abbia sottratto la velocità alla mia poesia».
Eccoci davanti a due verità: la prima, che il genere più veloce della letteratura è la poesia; la seconda, che l’arte visiva, nel suo essere visibile, può aver rubato qualcosa all’enigma del linguaggio poetico.



Una nuova interrogazione si pone: qual è il tempo dell’opera, del suo farsi? È il tempo di un verso fulmineo, di una sentenza, di uno schizzo ad acquerello, di una macchia informale, di un veloce tratto a matita, o quello lento di Chang-Tzu che, secondo la leggenda, dovendo disegnare un granchio, chiede al re cinque anni e poi altri cinque, e allo scadere dei dieci anni con un solo gesto di pennello disegna il granchio più perfetto che si sia mai visto? Un tempo lungo per la meditazione – perdita di coscienza che coincide con la massima concentrazione – e uno breve per l’azione, secondo il pensiero Zen.
C’è il Tempo sacro degli dèi, che si riversa nell’epica poetica, nella narrazione mitica, nel rito religioso e si perde nell’infinito e nell’immaginazione di chi lo rievoca, e un tempo laico degli uomini, del contingente, del quotidiano, segnato dal ritmo tachicardico della realtà presente, interna od esterna che sia. Michaux li vive entrambi, nella sua scrittura borderline, nel suo mondo brulicante e fantasmatico sospeso in un “essere-senza-tempo” che le accelerazioni della mente rendono visibile. Il parossismo della sua percezione è forse soltanto la maschera elegante e nevrotica di una inattuale, “divina” pigrizia. Gli estremi si sfiorano sempre, come accade in questa poesia dell’età matura:

      Pigrizia: sogno senza fine che sogna la vita
      indisturbata, fluida parentesi

      Intorno progetti, mappe, partenze,
      cadono palazzi, si alzano, si rialzano,

      Pigrizia sogna
      sul suo pozzo sempre più profondo.

Ancora una riflessione, da aggiungere alle altre: la velocità, in fondo, brucia l’eros, segna il tempo del consumo, del’usa e getta. Anche in amore, anche e soprattutto nei rapporti umani. La nostra “inciviltà” è sotto il segno del sesso e quindi dell’antierotismo, dell’affanno e dell’ansia che non fa godere di nulla, né meditare né leggere e rileggere, né assaporare un cibo, un profumo, un suono o un colore, “sogno senza fine che sogna la vita / indisturbata, fluida parentesi”. Partecipa di quel tempo sacro, “divino” che attraversa, con la sua meravigliosa lentezza, tutta la nostra infanzia. E allora… viva quella “pigrizia” di cui sogna il Nostro, tanto saggia da rendere piacevole l’esistenza, e degna di essere vissuta.


I testi citati sono tratti da:

  • Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti 1988;
  • Henri Michaux, Émergences-Résurgences in Sulla via dei segni (cura e traduzione di Lucetta Frisa), Graphos 1998;
  • Henri Michaux, Brecce, Adelphi 1984 (traduzione di Diana Grange Fiori);
  • L’infinito plausibile. Henri Michaux, in “Arca”, 5, 2000 (trad. di L.F.);
  • Henri Michaux, Oeuvres complètes, III, Gallimard 2004;
  • Henri Michaux, Passaggi, Adelphi 2012 (trad. di Bona de Mandiargues e Ivos Margoni);
  • Jean-Dominique Rey, Henri Michaux, Une rencontre, Creil, Dumerchez 1994, in Sulla via dei segni, op. cit.;
  • Giuseppe Zuccarino, Percorsi anomali, Campanotto 2002.


Le immagini dei disegni di Michaux sono tratte dal blog: "La dimora del tempo sospeso"




Henri Michaux
Scrittore e pittore belga di lingua francese (Namur 1899 - Parigi 1984), naturalizzato francese nel 1955. Nel 1920 s’imbarcò come marinaio per visitare le due Americhe, interrompendo gli studi medici iniziati a Bruxelles. Di dedicò alla poesia attraverso la lettura dei mistici e di Lautréamont. Trasferitosi a Parigi nel 1924 entrò in contatto con gli ambienti surrealisti, si legò a J. Supervielle, M. Ernst, P. Klee, e diresse la rivista Hermès (1937-39). Fin dalle prime raccolte poetiche, ha espresso in una lingua aggressiva, frammentaria, talvolta di un crudo umorismo, un profondo senso di rivolta (Qui je fus, 1927; Un certain Plume, 1930; Plume, 1937).
Grande viaggiatore, perseguì soprattutto l’esplorazione dei meccanismi della vita interiore (Ecuador, journal de voyage, 1929; Un barbare en Asie, 1932; Voyage en Grande Garaba gne, 1936; Au pays de la magie, 1942) e nel 1955 iniziò la sperimentazione degli allucinogeni, che gli consentì l’accesso a stati mentali sconosciuti (Misérable miracle, 1955; L’infini turbulent, 1957; Connaissance par les gouffres, 1961; Les grandes épreuves de l’esprit, 1966; Vers la complétude, 1967). Tra le altre opere: Émergences-Résurgences (1972); Poteaux d’angle (1981); Chemins cherchés, chemins perdus, transgressions (1982). Tra i libri postumi: Déplacements, dégagements (1985) e Affrontements (1986).
Alla scrittura, fin dal 1926, affiancò un’attività pittorica che si fece sempre più impegnativa, nel tentativo di esprimere con la più completa libertà sensazioni ed emozioni (oli, acquarelli e disegni in gran parte conservati nel Musée d’art moderne di Parigi e nel Kunstmuseum di Silkeborg).


mark.ercolani@libero.it