Il commesso (The Assistant) è stato pubblicato negli Stati Uniti nel 1957 ed è considerato uno dei libri più belli di Bernard Malamud (1914-1986), ma i suoi libri sono tutti dei capolavori. Il linguaggio adoperato è limpido, disadorno e quotidiano, con una voce monocorde ma vigile a ogni sfumatura, a tutti i particolari. La narrazione è dimessa, semplice e calma, a volte persino ovvia. E, soprattutto, paziente: sembra aspettare che accada qualcosa d’imprevisto e il tragico, come in tutti i romanzi e racconti di Malamud, è sempre in agguato.
Autore di successo, in patria e fuori, si è parlato di lui come uno dei maggiori rappresentanti della “letteratura americana ebraica”, con Saul Bellow, Philp Roth e tanti altri, cosa che però lui non condivideva: perché spingere la scrittura dentro un recinto? Sì, i miei protagonisti sono spesso ebrei, ma anche loro vivono in questo mondo e con intensità partecipano della vita degli altri.
“Scrivo degli ebrei”, dichiarerà Malamud in una delle rare interviste, “perché questo tema infiamma la mia immaginazione: conosco la loro storia, le loro esperienze e il loro credo (...), in particolare sono legato a quegli immigrati provenienti dall’Europa dell’Est della generazione dei miei genitori. Talvolta i miei personaggi sono ebrei perché è più facile per me comprendere la loro natura, non perché sto cercando di dimostrare qualcosa. (...) Sono nato in America e sono sensibile a tutto quello che questo paese mi può offrire. Nella mia vita c’è molto di più del mio essere ebreo. Io scrivo per tutti coloro che vogliono leggere”.
Malamud era infastidito dall’etichetta “scrittore ebreo” che non considera l’autenticità e la complessità d’un lavoro e lo inserisce automaticamente in una serie già schedata di qualità e difetti. Un’etichetta che sa di provincialismo etnico.
In questo romanzo uno dei protagonisti principali non è ebreo, ma un goy, un incirconciso cattolico e di origini italiane, Frank Alpine, dalla fervida immaginazione. Lavora come commesso (da lui il romanzo prende il titolo) in un piccolo negozio di generi alimentari nella zona più cupa e povera di Brooklyn. Proprietario della bottega è l’ebreo di mezza età Morris Bober, onesto e ingenuo, che, pur essendo cagionevole di salute, lavora dall’alba a notte inoltrata eppure fatica a sbarcare il lunario per via della zona povera dove esercita e della concorrenza di negozi più attrezzati e moderni. La bottega è quasi la sua prigione e Bober non si allontana mai dalla strada dove vive e lavora. Girare l’angolo per lui sarebbe un trauma.
L’incontro tra Frank e Morris genera avvenimenti, disastri, equivoci, ma anche un dialogo sottile, di gesti più che di parole, che porterà il commesso a rivedere il proprio modo di essere. Qual è il destino d’un uomo? Perché non può averne uno migliore? La vita si srotola nella ripetizione dei gesti quotidiani e negli improvvisi accadimenti che abbattono quell’ostinata e faticosa costruzione di fatti (e i pensieri a essi collegati) che danno (o sembrano dare) un senso alle nostre azioni.
L’articolato ritratto di vita bottegaia e familiare (con la moglie di Bober, Ida, e la loro figlia Helen, di cui Frank s’innamora) ha una validità universale, dove la presenza culturale ebraica è una componente importante, certo, ma fusa al crogiolo newyorkese di tante altre umili vite che aspirano – lottando tenacemente – a sconfiggere la miseria, a migliorare la propria condizione, a far studiare i figli o semplicemente a pagare i fornitori. Qui il “sogno americano” non è quello di arricchirsi ma di vivere dignitosamente.
Malamud affronterà in modo approfondito questo argomento in un lavoro successivo a Il commesso, pubblicato qualche anno dopo: A New Life (Una nuova vita, 1961), forse uno dei romanzi meno noti di Malamud ma importante e decisivo per sfatare l’appartenenza dell’autore alla fantomatica “letteratura americana ebraica”. Il 1961, infatti, segna anche l’esordio di Richard Yates con Revolutionary Road, che affronta le stesse tematiche del romanzo di Malamud: il “sogno americano”, il desiderio di ascesa sociale e culturale di tanti americani, quello di una vita piena e felice. E va aggiunto che nel romanzo Una nuova vita non si parla mai di ebraismo e la parola “ebreo” appare solo una volta, e di sfuggita.
Tornando al Commesso, qui si parla di ebraismo, ma vediamo in che termini. A un certo punto della storia l’italoamericano Frank Alpine, cattolico che pur nelle sue ambiguità sembra ispirarsi a San Francesco d’Assisi, chiede a bruciapelo al datore di lavoro Morris Bober cosa voglia dire, per lui, essere ebreo. Glielo domanda perché il suo capo non va in sinagoga e non rispetta i dogmi della sua religione. Bober, che è un uomo profondamente onesto e buono, dice al suo commesso “Quel che conta è la Torah. Questa è la Legge: un ebreo deve credere nella Legge (...) Significa comportarsi bene, essere onesti, essere buoni. Buoni con gli altri. La vita è già abbastanza difficile. Perché dovremmo fare del male a qualcuno? A tutti dovrebbe andare nel migliore dei modi, non solo a te o a me. Non siamo mica bestie. Ecco perché ci vuole la Legge. È in questo che credono gli ebrei”.
Il fatto che un uomo dovrebbe rispettare e aiutare i propri simili, essere onesto e buono, non è certo una proprietà ebraica, né religiosa in senso esteso. È soprattutto un’aspirazione idealistica, quella di un’umanità più umana: “non siamo mica bestie”, dice Morris. Frank, il francescano e ambiguo Frank che si accontenta di uno stipendio basso ma ruba alla cassa e poi, per riscattarsi, lavora come un mulo, è spiazzato dal modo di essere del suo principale. Vorrebbe fare di tutto per aiutarlo a incrementare gli incassi della bottega (e a suo modo lo fa) e desidera sposarne la brava figlia che legge libri, lavora come segretaria e aiuta in famiglia.
L’amore tra i due nasce ma non matura, e non per motivi religiosi (anche se la madre di Hellen è contraria alla loro relazione) ma perché Frank non saprà essere onesto e buono con lei fino in fondo, fino a rispettarla come donna: la salva da un’aggressione e poi è lui stesso ad aggredirla o, meglio, ad approfittare della situazione. La storia d’amore tra Frank ed Hellen è struggente e nel suo svolgersi persino irritante, ma rispecchia la complessa psicologia della ragazza che vorrebbe uscire dal chiuso ambiente in cui vive e non ci riesce, come se il legame con l’ambiente famigliare fosse, a un tempo, una forza e una condanna. Così come rappresenta la voglia di riscatto di Frank.
Il commesso è una storia apparentemente semplice, ispirata alla vita di bottegaio del padre dello scrittore, una vita di fatiche e di stenti. Anche due racconti del Barile magico (“Il conto” e “I primi setti anni”) sono ambientati in un negozio. Malamud descrive con grande bravura l’emotività dei personaggi, il loro mondo interiore, i sogni confusi, i desideri spezzati, la fragilità nel confrontarsi con un mondo duro (altro che sogno americano!) dove spesso vincono i furbi, i disonesti, gli abili ad approfittarsi dei buoni, come l’ex socio di Bober che anni prima s’è arricchito alle sue spalle e ora ha una prospera attività commerciale e con tanti “commessi”.
Il bottegaio si accorge, pur nella propria ingenuità di fondo, di come vanno le cose e ancor più si abbarbica ai propri valori esistenziali, anche se alla fine scivolerà in un maldestro tentativo d’incassare i soldi dell’assicurazione dando fuoco al negozio. Anche Frank ruba, ma poi rimette parte dei soldi in cassa, si sente un francescano eppure è pronto a partecipare a una rapina e poi a pagare in qualche modo per ciò che ha fatto.
Contraddizioni, debolezze e lacerazioni – peculiarità costanti di ogni personaggio malamudiano – che germogliano e fruttificano nell’insicurezza economica e sociale, ma non solo: vi è anche l’aspirazione a qualcosa di sfuggente, d’intravisto; un’energia interiore che passa portarli verso una “nuova vita”, come accade a a Seymour Levin, protagonista dell’omonimo romanzo.
Alla fine Bober soccombe all’ennesima disavventura: si ammala (di nuovo) e muore. Frank porta avanti la bottega e il suo sogno di vedersi amato, prima o poi, da Helen. Il romanzo si chiude in tono biblico: “Un giorno, in aprile, Frank andò all’ospedale e si fece circoncidere. Per un paio di giorni se ne andò in giro faticosamente con un dolore tra le gambe. Il dolore lo esasperò e lo ispirò. Dopo Pasqua divenne ebreo.” Non una scelta religiosa ma esistenziale: l’accettazione del destino, un modo per dare senso e dignità alla propria disperazione, l’ingresso in una sorta di rifugio collettivo.
Il senso religioso in Bernard Malamud è qualcosa di intimo che niente ha a che fare con dottrine e precetti, è un soffio divino che aiuta un uomo a compiere difficili scelte, ad affrontare piccole e grandi tragedie, a non cadere nella cieca disperazione quando si ruzzola in una delle trappole che la vita si diverte a metterci davanti.
Il commesso è un romanzo dal taglio tradizionale che mescola tragedia e commedia, il dramma sfocia spesso nel comico (o viceversa), la tristezza nell’improvvisa risata, così come accadeva nei film muti di Charlie Chaplin. Evidenti sono i suoi legami col grande romanzo ottocentesco europeo: come non pensare a Balzac, Verga o a Cechov e Dostoevskij? Tutti i lavori di Malamud rivelano una grande e innata capacità affabulatoria; un’attenzione maniacale al dettaglio, alle sfumature, alla psicologia dei personaggi, a una resa quanto più obiettiva possibile di realtà dure, difficili, spesso periferiche e squallide; una particolare attenzione per chi lotta e soffre, per i vinti e i più poveri, magari perché hanno scelto di restare “onesti e buoni”.
Bernard Malamud, Il commesso (1957), Einaudi, 1962, ultima edizione 2007, traduzione di Giancarlo Buzzi, introduzione di Giorgio Manganelli, pagg. 285, euro 10,80.
BERNARD MALAMUD da Il commesso
Quando erano insieme al banco, Morris teneva d’occhio Frank e cercava di perfezionare alcune delle cose che Ida gli aveva insegnato. Il garzone faceva molto bene il suo lavoro. Quasi vergognandosi che qualcuno potesse imparare il mestiere con tanta facilità, Morris gli spiegò come fosse diverso, solo pochi anni prima, fare il negoziante. Allora un negoziante aveva più dell’artigiano. Oggigiorno a chi si chiedeva più di affettare una pagnotta per un cliente, o di versare col mestolo un quarto di latte?
– Ora tutto è già confezionato, in scatola, in vaso, in pacchetto. Persino i formaggi stagionati che da centinaia d’anni si sono tagliati a mano, ora ti arrivano già affettati e avvolti nel cellophane. Non occorre più sapere nulla.
– Ricordo i recipienti del latte che si usavano in famiglia, – disse Frank, – solo che i miei mi mandavano a prenderci la birra.
Ma Morris disse che era una buona idea non vendere più il latte sciolto. – Conoscevo dei negozianti che toglievano dai recipienti un quarto o due di crema e poi aggiungevano acqua. E questo latte annacquato lo vendevano al prezzo del latte normale.
Raccontò a Frank qualche altro trucco che aveva visto fare. – In alcuni negozi comperavano due tipi di caffè sciolto e due mastelli di burro di diversa qualità. Uno era di qualità inferiore, l’altro di qualità media: ma del medio ne mettevano metà nel suo recipiente e metà nel recipiente che avrebbe dovuto contenere quello di qualità superiore. Così se si comperava il miglior caffè e il miglior burro si aveva una qualità media, nient’altro.
Frank rise: – Scommetto che qualche cliente tornava dicendo che il burro di qualità superiore era più buono di quello medio.
– È facile imbrogliare la gente, – disse Morris.
– Perché non prova anche lei qualcuno di quei trucchi? Il suo guadagno è scarso.
Morris lo guardò stupito. – Perché dovrei derubare i miei clienti? Forse che loro mi derubano?
– Se potessero lo farebbero.
– Quando un uomo è onesto dorme tranquillo. E questo vale più di cinque cents rubati.
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Bernard Malamud nasce a Brooklyn nel 1914, figlio di due emigrati russi di religione ebraica. Dopo la laurea in lettere nel 1936 lavora come operaio, commesso e insegna inglese agli immigrati. Scrive il primo romanzo, The Light Sleeper, che resterà inedito. Nel 1942 consegue il dottorato con una tesi su Thomas Hardy e l’anno successivo inizia a pubblicare racconti su riviste.
Dopo il matrimonio con Ann de Chiara si trasferisce al Greenwich Village. Nel 1952 esordisce con il romanzo The Natural (Il migliore – Nel 1984 il regista Barry Levinson ne ricaverà un buon film, con Robert Redford come protagonista). Nel 1956 riceve il Rockefeller Grant, prende un anno di congedo dal College dove insegna e viaggia in tutta Europa, con Roma come sede principale. Nel 1957 pubblica The Assistent (Il commesso) e l’anno successivo la raccolta di racconti The Magic Barrel (Il barile magico). Per i due libri riceva importanti premi e una borsa di studio offerta dalla Ford Fondation.
Nel 1961 pubblica The New Life (Una nuova vita) e si trasferisce nel Vermont, nominato professore della facoltà di Lingue e letteratura inglese a Bennington. Nel 1963 esce la nuova raccolta di racconti Idiot’s First (Prima gli idioti) e nel 1966 The Fixer (L’uomo di Kiev), con il quale vince il National Book Award e il Premio Pulitzer. Dopo aver viaggiato di nuovo in Europa e in Unione Sovietica nel 1968 visita Israele. Nel 1969 pubblica Pictures of Fidelman: An Exibition (La Venere di Urbino), nel 1971 The Tenants (Gli inquilini), nel 1973 il libro di racconti Rembrandt’s Hat (Il cappello di Rembrandt) e nel 1979 Dubin’s Lives (Le vite di Dubin). Riceve altri premi importanti e viene eletto Presidente del PEN Club. Nel 1982 esce God’s Grace (Dio mio, grazie) e nel 1983 The Stories of Bernard Malamud. Dopo un intervento al cuore e un infarto muore nel 1986.
Postumi escono The People und Uncollected Stories (1989) e The Complete Short Stories (1997).
In Italia i libri di Bernard Malamud sono pubblicati da Einaudi e minimum fax.
alexbrando@libero.it
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