FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 64
luglio 2023

Estate

 

A FINE AGOSTO

di Alessio Brandolini



Quante cose lacerano e non ho ago né filo per ricucire gli strappi. Prendo la scala, poto una siepe di confine e mi rivesto di foglie. Interrogo il futuro ma non risponde, si comporta come se non esistessi. Punta dalle stelle, falciata dalla luna la notte prosegue il suo tragitto: si fa più oscura, si espande all’interno. Al di là del buio c’è un altro mondo che non conosco, che forse potrebbe essere più adatto di quello in cui vivo, dove potrei muovermi meglio. Occorre chiarezza, ma dove trovarla?

Fa caldo e non riesco a pensare, dico al telefono a un amico in vacanza. Un bagno me lo farei, sì, il mare ci accoglie sempre con il suo azzurro, ci abbraccia. Ci andrò un paio di settimane a fine settembre, in Puglia, nel Gargano che già conosco e questa volta spero di godermela, la vacanza. Quanti anni sono passati? A quei tempi non stavo bene, ero molto più frastornato di adesso. Giusto riconoscerlo perché stando così i fatti devo essere fiducioso: invecchiando qualcosa si apprende, si è meno timorosi, che poi non vuol dire essere rapidi e furbi nell’agire, solo che non si pretende nulla. Ci si accetta e si va avanti con passo tranquillo.

Fine agosto e ora zappo intorno agli alberi per eliminare le erbacce, annaffio i fiori di mia moglie, le poche piante di pomodoro. Troppe cose lacerano e ho ben poco per risanare le ferite, giusto un po’ di quel filo impercettibile che salda i ricordi, anche quelli che all’improvviso, sporchi di sangue, spuntano dalla terra.

Una catapecchia con un campo intorno e un piccolo orto ben tenuto. Davanti all’ingresso della casa un grande ciliegio che quando fioriva era uno spettacolo, su per la strada che porta al santuario di San Silvestro. La famiglia Caridà, che da un paio di anni l’aveva presa in affitto, veniva dalla Sicilia. Ci stavano in sette: moglie, marito e i cinque figli, tutti maschi. Il padre faceva il bracciante nei campi, giù a valle, o il manuale nei cantieri, era un tipo basso e robusto, di poche parole. Il terzo dei figli, Amedeo, aveva nove anni e frequentava la mia classe, la quarta elementare. Mi piaceva molto parlare con lui. Non si vergognava del suo vecchio cappotto, dei pantaloni rattoppati e delle scarpe logore e troppo grandi. Fu l’unico dei figli ad assistere all’omicidio, gli altri quattro erano nei boschi a raccogliere legna per l’inverno e funghi per la cena.

Venuti in tre per reclamare l’affitto non pagato i primi del mese, era il 27 agosto del 1967. I coniugi dissero che non avevano soldi in quel momento ma a che a settembre le cose di sicuro sarebbe migliorate, gli avevano promesso un lavoro e tutto si sarebbe aggiustato, chiedevano solo un po’ di pazienza e avrebbero pagato tutto, anche gli interessi.

Quello che era il capo colpì l’uomo sul volto con un pugno improvviso, un diretto, poi gli altri due aggiunsero sberle e calci. Allora la moglie reagì con rabbia urlando, facendo da scudo per fermare l’aggressione e quando il marito la vide sanguinare dal naso e dalla bocca afferrò una sedia per difenderla, per scagliarla contro quei criminali e fu in quell’istante che il capo sparò due colpi, uno per ciascuno, con una piccola rivoltella che svelto aveva tirato fuori da una tasca.

I coniugi Caridà vennero sepolti in fretta dietro al pollaio, al di là dell’orto, sotto venti centimetri di terra: scavare per loro era un lavoro troppo difficile. Per camuffare la fossa ci misero sopra dei rotoli di ferro arrugginito e i resti di alcuni pali di cemento. Amedeo osservò tutto stando nascosto, piangendo e poi lo raccontò ai fratelli più grandi e, insieme, lo rivelarono ai due più piccoli. Fu da lui che il giorno successivo venni a sapere di quella storia orrenda: «e ora non sappiamo che fare, chi può aiutarci?».

Faceva caldo ma tornai a casa coi brividi, la febbre e gli occhi gonfi. Avrei dovuto mantenere il segreto perché i cinque fratelli avevano una paura terribile di essere separati, ognuno in un istituto diverso.

Mamma mi vide e subito si spaventò, mi chiese cosa fosse accaduto di così grave? Mi portò a letto anche se erano solo le otto e fuori, nella piazzetta, i bambini giocavano ancora. Come mentirle? Poi lei scese giù in cantina a parlarne con mio padre che andò dritto dai carabinieri: in questi casi non si può tentennare, urlò mentre usciva, lui era fatto così e spesso ci azzeccava.

Scavare fu un lavoro semplice perché la terra era fresca e a coprire i coniugi Caridà non ce n’era molta. Gli assassini furono subito arrestati e il giorno dopo il maresciallo dei carabinieri andò a parlare con il proprietario della casa, un benestante del paese, e gli disse che anche lui avrebbe passato dei guai, in qualità di mandante. Invece uscì dal processo pulito, la difesa dimostrò che alle tre canaglie aveva chiesto solo di farsi dare l’affitto, quello che gli dovevano da quasi un mese. Però spese parecchi soldi per avvocati e testimoni retribuiti per attestare la propria innocenza.

Mia madre per qualche giorno portò da mangiare ai cinque fratelli, a piedi con il tegame della pasta già condita e mezzo filone di pane. Durò poco perché la settimana successiva arrivò un pulmino bianco, un Ford Transit grigio chiaro. Stavo lì con loro e ricordo che c’era un autista biondo, alto e accanto a lui un’assistente sociale che appariva vecchia e stanca, eppure a ripensarci non avrà avuto quarant’anni.

I cinque fratelli non li vidi più e mi restò per sempre un buco nel petto e nella mente: quando ripenso a quel delitto percepisco all’interno una specie di valanga che rapida scivola verso il buio.

Un giorno, parecchi anni dopo, stavo nella piazza centrale del paese e per caso mi giunsero all’orecchio notizie dell’amico d’infanzia, del siciliano Amedeo Caridà. Uscito dall’orfanotrofio con un diploma tecnico e una buona conoscenza dell’inglese era emigrato in Canada, a Toronto. Gli avevano segnalato un nome di un italiano ricco e importante, residente lì da decenni e che da bambino era stato ospite dello stesso istituto. Amedeo, dopo essersi sistemato, aveva fatto venire i due fratelli più piccoli pagandogli il biglietto, di quelli più grandi non aveva saputo più nulla.

Quante cose lacerano ed è sempre più difficile rammendare gli strappi. Sono passati più di cinquant’anni e quel ricordo resta nitido, marchiato a fuoco. Alla casa di Amedeo ora ci si arriva con una strada asfaltata che poi prosegue fino al santuario di San Silvestro. Al posto della loro stamberga ora c’è una villa bianca abitata per lo più d’estate, con alle finestre sbarre di ferro e nel giardino due grossi mastini neri. Il grande ciliegio è stato tolto di mezzo ma quando mi trovo da quelle parti, e rallento il passo, sento vibrare le sue radici.


luglio 2023


alexbrandolo@libero.it