FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 63
marzo 2023

Cadute

 

CI SONO TANTI MODI DI CADERE

di Mariabruna Antonucci



Stanze

Mi sono alzata e allora? Quel letto, ormai, fa parte di me, la parte che odio, che mi tiene incatenata alla memoria di ciò che è stato.

Non lo sopporto! Non lo sopporto più.

Sara, la figlia malata ha deciso che è ora di finirla. Tanto che può capitare che non debba già succedere? Sono qui e tremo. Meglio così, sono debole e invincibile.

La morte mi troverà seduta accanto alla finestra, vicino al freddo. Non oserà toccarmi. Mi prenderà senza che io senta il gelo delle sue mani.

E se arrivasse tardi? Non ce la faccio ad aspettare a lungo. E sono cinque anni che l’aspetto. Ho perso tutto il sangue che avevo in questo letto, come successe quel giorno.

Ho paura mamma, sai tanta, che per te non sia più importante, che i ricordi si siano sbiaditi. I miei no. Ne ho portato i segni e ne porta il lenzuolo a cui mi sono costretta. Di questi anni ho solo un ricordo: me malata, non c’è stato altro. Si sono spente col tempo anche le voci nelle stanze accanto perché dovevo riposare e le visite di gente sconosciuta che veniva a trovare la bambina sfortunata. E Dio sa se le ho amate quelle visite! Portavano l’aria di fuori, un’aria profumata delle cose che dovevo dimenticare. Ma, poi, loro hanno dimenticato me, lì nella mia stanza grigia con le tende chiuse, tende pesanti che non ho mai osato aprire per non scorgere le nuvole inghiottire la luna, prendere l’ostia con le loro dita torte e profanarla come le vecchie in chiesa nelle loro lingue lussuriose e gocciolanti.

Mi hanno privata del resto e, allora, ho smesso di ricordare quella mattina di marzo. Ero così piccola, allora. Eppure ero diversa dalle altre ragazze della mia età, io avevo un vampiro buio aggrappato alla gola e dalla sua gola mi nutrivo del mio stesso sangue marcescente: io odiavo!

Oggi mi ripugna guardarmi allo specchio, sono cresciuta male, su un letto, e sento i miei capelli imputridire sul mio viso nello smaniare contro il cuscino zuppo di saliva con cui soffoco gli urli contro di lui, contro di me, contro di te, mamma.

Allora, però, era diverso, ero la ragazzina con le trecce bionde che uscivano dal cappellino all’inglese che tutti adoravano, che tutti volevano accarezzare. Anche lui.

Sara: sperduta tra una ragnatela di stanze arrampicate sui muri! Stanze di mostro, incatenato, urlante, sbavante. Stanze buie di passi nel buio, di un discorso mai aperto e di occhi chiusi, di teste nere. Stanze in cui mio padre e mia madre si amavano nonostante quello che lui faceva a me. Stanze rosa di pizzi e merletti, di bambole vestite da una bambola nuda, stanze invase di lacrime, di pianto su un centrino all’uncinetto di quando eri incinta e imparavi ad amarmi.

Perché non mi hai voluta capire, mamma?

Davvero non sapevi? Allora te lo dirò.

Non potevo aspettare di diventare grande per te, diventare bella per te, per essere libera. Ma, ora, non posso guardarti negli occhi senza il tuo perdono, tu che hai pianto per tutti e due.

Devi cercare di assecondarmi come non ha fatto il mio corpo che è sfiorito, si è lacerato per ribellarsi a quello che ha creduto essere un delitto e che, invece, era una giusta condanna!

M’immagino gli occhi che avrai dopo che sarai entrata in questa stanza quando, prima che tu possa dirmi con la tua voce fievole di tornare a letto, io libererò il mio veleno e tu non avrai più il coraggio di avvicinarti e mi lascerai qui a morire per l’ennesima emorragia mentre il sangue sta già scendendo caldo tra le cosce e in terra dalle caviglie.

No, ti prego, ascoltami. Non lasciarmi qui da sola, ancora sola. Voglio che mi tieni le mani e che mi guardi negli occhi. Ho bisogno che qualcuno mi ascolti piangere. Voglio piangere per te e voglio bagnarti il viso con le mie lacrime che è ciò che mi resta di quel fuoco.

La morte è nera, mamma, e io ho paura.

Ricordi quando ascoltavamo le canzonette buffe e ridevamo e mi tenevi stretta a te quando papà era fuori casa? Io non odiavo te, mamma, non ti ho mai odiata.

Mamma, non ce la faccio più, arriva, ti prego, non posso più aspettare, non c’è tempo. Aiutami a ricordare di quella sera quando dentro di me è esplosa la resa, ma a modo mio. Eravamo sedute a tavola per la cena e io stavo zitta, tu non potevi sentirmi ma qualcosa urlava nella mia testa. Mi guardavi mentre ti facevi scivolare il cucchiaio in bocca, ma non potevi vedermi perché da tempo ero diventata invisibile. Forse entrambe pensavamo che quella sera papà non c’era, ma che il giorno dopo sarebbe tornato. Sei passata in camera mia che era già buia prima di andare a dormire, ti ho vista entrare attraverso la luce che veniva dal corridoio e ti ho sentita baciarmi sulla fronte e sussurrare che speravi che presto sarebbe venuto un giorno bello anche per me. E io non dormivo, mamma. Non dormivo, ma non avevo la forza di gridarti in faccia che quel giorno tu me lo stavi rubando senza saperlo o tacendo.

Quelle notti, quelle notti no, non le voglio ricordare. Sono piene di cose di cui ho terrore.

Mamma, ho paura davvero, ora! Ho paura che non arrivi più o che le parole che ho detto non restino in questa stanza ad aspettarti per me.

Sento qualcosa di bollente e qualcosa di gelido sulle gambe e non ho mai saputo quale fosse il sangue e quale la carne.

Questa volta, però, non chiamerò. Voglio solo aspettare, aspettare che arrivi la morte. Tanto la vita, ormai, non mi appartiene più. Sono cinque anni che non mi appartiene, che appartiene a un morta che continua a resistere in un corpo morto. Ma tu devi fare in fretta se vuoi che spiri tra le tue braccia, perché non voglio cadere con la faccia sul pavimento freddo. Non voglio che tu mi trovi come una bambola rotta in terra col viso scheggiato e coi cocci dappertutto.

Guardami, sono forte e resisto per te.

Mangerò chiunque altro entrerà qui dentro!

Nessuno oserà toccarmi, sono troppo simile alla morte.

Arriva presto, mamma, e ti dirò di quella mattina in cui misi vetri rotti nell’impasto dei biscotti che facevi per lui ed ho aspettato il momento in cui ne avesse ingoiato uno, così come usava fare senza nemmeno sentirne il sapore, per metterne in bocca anch’io uno nello stesso istante.

Eccomi, papà, la mia volontà, il mio odio entrare dentro di te, nelle tue viscere e farsi tagliente, lacerante come le tue mani su di me, le mani di un orco che ha generato un’assassina.

Ed ecco i miei ricordi farsi confusi in una zona della mia mente in cui spesso mi sono persa senza volermi ritrovare.

Non mi hai mai parlato di come finì quella giornata, nel cui crepuscolo sono vissuta per cinque anni nella mia stanza.

Dimmi cosa successe, che si disse di quello che era stato. Se venne accusato qualcuno Oppure è davvero come ho sempre pensato, che l’avevi sempre saputo.

Dimmelo tu che, ormai, sei l’unica voce dai corridoi.

Non entra più nessuno qua dentro. È per questo che avete voluto dimenticarmi?

Mamma, fai in fretta! Dimmi se è per questo che mi hai lasciata qui! E, allora, dimmi se mi hai perdonata! Lo voglio sentire dalla tua bocca, voglio che mi liberi.

Mamma, la morte è nera.


* * *


Sapore amaro

– Ergastolo! –

Martina ascoltò quella sentenza e sentì come un graffio dentro l’anima.

Andrea, il suo Andrea, sarebbe rimasto a marcire dentro un carcere fino alla fine dei suoi giorni, perduto per sempre.

Lo guardò tra il velo delle lacrime, seduto accanto a un avvocato dalla toga lucida, ormai sconfitto da una dura condanna senza appello.

In quell’aula di tribunale, gremita di curiosi per quel caso che aveva fatto scalpore sulla stampa, Andrea appariva a tutti imperturbabile ma lei si accorse del lieve spasmo della sua mascella.

“Povero amore mio! Mio amore bello!” – pensò Martina e le tornò alla mente la prima volta che lo aveva incontrato lungo il Tevere.

Era un tardo pomeriggio di ottobre, Roma si colorava d’oro e d’arancio: era un momento fatato, un momento magico. Si era affacciata al parapetto di ponte Sant’Angelo a guardare il fiume scorrere lentamente, in simbiosi con tanta bellezza pur sapendo di essere una pecca, una dissonanza lì in mezzo, perché lei era una ragazza brutta. Poi, di colpo, aveva udito una voce alle sue spalle: “Vuole ballare un valzer?”. Martina si era voltata con spavento, ma era incappata nel sorriso dell’uomo che avrebbe amato incondizionatamente. “Un valzer?” aveva ripetuto lei confusamente, ma già si stava perdendo dentro gli occhi di quel tizio. L’uomo l’aveva abbracciata nel ballo lì sopra il ponte, senza musica e in mezzo alla gente. Con Andrea quel valzer era durato un anno.

– Ergastolo! –

La voce del giudice la riportò al presente.

Il magistrato, eccezionalmente, si lasciò andare a spontanei commenti e riassunse i reati connessi ad Andrea Rocci.

– L’imputato è accusato di quattro delitti. –

Martina avvertì qualcosa lacerarsi dentro di lei.

– Quattro delitti di donne benestanti, a cui prima ha prosciugato i loro conti in banca. –

Martina scosse la testa, avrebbe voluto opporsi:

“Quelle donnacce l’hanno costretto a ucciderle! L’hanno insultato, mortificato perché era un uomo povero, l’hanno indotto a difendersi. Considerando le ferite psicologiche, Andrea ha agito per legittima difesa, ecco!” pensò con le guance in fiamme.

E si rivide con il vento in faccia sulla barca presa in affitto per il giro della Corsica, quando Andrea, indicando l’orizzonte, le aveva detto: “Qui in mezzo al mare siamo gli unici al mondo.” E, da quel giorno, s’era sentita come se tutto il resto non contasse.

Intanto il giudice, proprio in quel momento, la indicò seduta nella stanza e riprese a inveire implacabilmente.

– La quinta donna è Martina Mastronardi, che è qui presente, e a cui il Rocci ha sottratto oltre quattrocentomila euro. Tutti i suoi risparmi. –

Martina si ribellò ancora interiormente:

“Che m’importa dei soldi! Con lui ho vissuto tutta la vita in un anno! Se solo me li avesse chiesti, glieli avrei dati spontaneamente. Non avrebbe avuto bisogno di rubarmeli!”

– Ergastolo! – ripeté il giudice e nella testa di Martina quella parola prese a dilatarsi come un’eco spietata, ingiusta: ergastoloooo, ergastoloooo.

La condanna ad una morte bianca.

Il giudice riprese:

– Ergastolo… Però Andrea Rocci meriterebbe, piuttosto, quattro ergastoli per le quattro vittime che, oltretutto, non si è limitato a uccidere. –

Un brivido saettò di colpo sulla schiena della Mastronardi.

Il giudice dichiarò gravemente:

– Andrea Rocci si è nutrito di tutte quelle donne. –

A quel punto l’aula esplose in mormorii di raccapriccio, tra cui Martina percepì la parola “mostro”.

Si asciugò il sudore sulla fronte mentre il respiro le si faceva corto.

Con voce ferma il giudice andò avanti:

– A casa sua, dentro la ghiacciaia, sono stati ritrovati resti dei corpi, oltre a pezzi già cotti dentro una pentola lasciata sui fornelli. – quindi ripeté con ribrezzo – Andrea Rocci ha mangiato quelle donne! –

Nell’aula calò un tetro silenzio.

Su uno schermo apparvero le immagini delle vittime, primi piani di volti sorridenti senza il sospetto che l’ombra della morte gli era accanto. La presenza concreta delle donne fu una realtà inaccettabile per i presenti: qualcuno digrignò i denti, a qualcun’altro si inumidirono gli occhi.

L’ultima foto, a lato dello schermo, mostrò l’immagine di una cucina sudicia con sul fornello una pentola d’acciaio che conteneva una sanguinolenta poltiglia.

Tutti fissarono quell’essere immondo, ma Andrea Rocci restava impenetrabile nel contegno e nel profilo perfetto. Bello e di ghiaccio, la stampa gli aveva dato il nomignolo di “Angelo Buio”.

In quel momento, però, irrazionalmente, Martina gridò di fronte a tutti un folle vanto:

– A me, però, non mi ha mangiata! Come mai? Ve lo siete chiesto? Non capite che è stato messo alle strette dalle altre? Rinchiudetelo pure, io lo amerò per sempre! –

Con lo sguardo lo seguì fino all’ultimo istante, mentre Andrea veniva scortato via da due poliziotti, quindi si alzò dalla sedia fieramente e uscì dall’aula con la schiena dritta.

All’interno del Palazzo di Giustizia, uno degli agenti che scortava Andrea Rocci verso il carcere, incuriosito, gli fece una domanda.

– In effetti, perché non ha mangiato anche la signorina Mastronardi? –

Rocci, senza battere ciglio, rispose con logica sconcertante:

– L’ho scartata. Non l’avete vista? È troppo brutta, di certo avrebbe avuto un saporaccio.


* * *


Non c’è più tempo da perdere

Il temporale imperversa da ore.

– Ha fatto tutto il possibile, dottore. –

Un’infermiera lo rassicura accanto a un letto dalla tenda a ossigeno.

Saette gialle squarciarono la notte dietro i vetri dell’unica finestra e i tuoni esplodono fragorosamente.

Medico e infermiera lentamente si avviano alla porta quando, di colpo, una vocina li blocca sull’uscio:

– Dove sono? Dove mi trovo? –

Miriam è uscita dal coma.

Tornano indietro e l’uomo si sporge dentro la tenda a guardare la paziente.

– Dove sono? – ripete lei confusa, poi gli afferra la mano – Lei chi è? –

– Sei in un ospedale, cara, stai tranquilla… – le si rivolge lui pacatamente.

Ma Miriam lo interrompe e grida forte:

– L’incidente! La pioggia! La mia auto che sbanda e il dolore alla testa… – si guarda intorno confusa e spaurita – Oh, mio Dio! Ora ricordo, ora ricordo tutto! –

Intanto, all’esterno, la pioggia intensifica la furia.

– Devo raggiungere Paolo… – urla Miriam concitatamente, puntellandosi coi gomiti al cuscino nel sollevarsi – Devo alzarmi! –

Il medico si prodiga a calmarla, ma è inutile, l’agitazione di Miriam aumenta.

– Se non arrivo in tempo, l’aereo parte e lui se ne andrà via per sempre! – grida disperatamente.

Il dottore fa cenno all’infermiera di preparare un sedativo blando e tenendola per le spalle, intanto, prova ancora a calmarla.

– Non puoi alzarti, Miriam. Lo capisci? Ti sei appena ripresa, non hai abbastanza forze. –

Seppure gli occhi dell’uomo siano buoni, lei non sente ragioni e si divincola così impetuosamente da far cadere l’asta della flebo oltre la tenda a ossigeno.

Miriam si è sfilata l’ago dalla vena.

L’infermiera le pratica all’istante l’iniezione dall’effetto calmante e lei scivola sulle lenzuola esausta, ma non smette di pregare il medico di lascarla andare via, di fare presto.

– Non capisce, dottore… – insiste e accenna un sorriso da bimba, mentre spiega il motivo di tanta urgenza – Paolo mi sta aspettando all’aeroporto. Devo dirgli che ho deciso di raggiungerlo. Non sa che ho avuto il coraggio di ribellarmi a mio padre! Che gli ho detto tutto quello che mi tenevo dentro da anni! Che non avrei più sopportato la sua tirannia, perché a vent’anni ho diritto di scegliere cosa fare della mia vita e come viverla! –

Il medico, però, l’ascolta appena. Le afferra il polso e le controlla il battito.

Miriam riprende a spiegare la sua angoscia:

-– Sono uscita di casa in fretta e furia, ho preso l’auto e ho spinto l’acceleratore al massimo, ma tutta questa pioggia maledetta ha reso inservibili i tergicristalli… La strada si vedeva a malapena. Ho finito per urtare qualcosa e non sono riuscita a fermarmi… – scuote piano la testa, sospirando – Se non fosse stato per l’incidente, sarei già arrivata all’aeroporto! –

Il dottore rimane in silenzio e sembra preoccuparsi solamente della salute della sua paziente. Allora lei lo supplica, implorante:

– Ma non capisce? Ormai non posso più tornare indietro! Ho lasciato la mia famiglia! Ho lasciato tutto! Non capisce che devo raggiungere Paolo immediatamente? – poi si sforza di controllarsi, vuole essere più convincente – Mi sento bene, glielo assicuro. Mi aiuti, dottore, la prego! –

Fuori altri fulmini sferzano quella notte di tempesta, i tuoni deflagrano come a scandire l’impellenza di Miriam. Poi, tutt’a un tratto, la voce della donna manifesta l’apprensione di sapere se farà ancora in tempo.

– Devo raggiungerlo entro le venti e trenta! Capisce? Capisce che non c’è tempo da perdere? – quindi sussulta nel timore che sia troppo tardi – Che ore sono? –

Ma il medico sembra non ascoltarla.

– Mi dica che ore sono! – urla con stizza.

Completamente insensibile alle sue implorazioni, il dottore le mormora:

– Stai buona, cara, cerca di riposare… –

In uno sforzo rabbioso, lei gli poggia le mani sulla manica e cerca l’orologio intorno al polso senza smettere di ripetere agli altri e a sé stessa:

– Devo fare presto! Presto! Presto! Pres… – ma la voce le si blocca di colpo.

L’orrore le pietrifica lo sguardo sulle sue mani strette sopra il camice: sono mani rugose, mani di vecchia!

L’infermiera scosta la tenda a ossigeno e scopre il viso di quella paziente che, ormai, è una donna di oltre ottant’anni.

Nello stupore e nel raccapriccio, gli occhi di Miriam si fissano in quelli del dottore nel rivolgergli una domanda muta e cui fa eco una realtà tremenda.

– Ciò che ricordi è successo molto tempo fa, Miriam. Dal giorno di quell’incidente ti sei risvegliata alla coscienza solo oggi. Sei dentro un ospedale psichiatrico dove, finora, sei vissuta in uno stato di amnesia continua. Ieri sera ti sei aggravata e abbiamo temuto di perderti. Ne eravamo addolorati tutti, perché ci siamo affezionati a te, in così tanti anni. –

Quella rivelazione annienta Miriam dentro al buio di un passato perso, mai vissuto, sprecato in un letto.

L’infermiera le accarezza la fronte, le scosta una ciocca dei candidi capelli e le sistema il lenzuolo sul petto.

– Ora riposa Miriam, come vedi non c’è più alcuna fretta… – le sussurra e richiude la tenda a ossigeno.

mariabruna.antonucci@gmail.com