Come? Cambieremo registro? Ci comporteremo in modo più responsabile? Vivremo tutti meglio? Può darsi… Ma chi dovrebbe condurci a queste graziose conquiste? Le multinazionali? I potenti della Terra? Gente come Putin, Kim Jong-un, i dirigenti cinesi? I padroni del web? L’impero Facebook, specializzatosi nell’estrarre illegalmente dati personali dei suoi utenti (tre miliardi di persone), e che Shoshana Zuboff, professoressa della Harvard Business School, ha definito “un campo di sterminio per la verità”?
I leader riuniti nel G20 di Roma e nella COP26 di Glasgow, che hanno parlato di “vero successo” dei summit, ma sanno benissimo che una seria transizione ecologica comporta investimenti ingenti e a lungo termine che nessuno Stato è in grado di affrontare? I capi di governo che tengono al gelo e alla fame intere famiglie lungo le frontiere degli Stati europei? Le alte gerarchie ecclesiastiche, che continuano a vivere in modo opposto al messaggio evangelico? Quelli che credono che il Corano sia stato trasmesso direttamente da Allah a Maometto, e in nome del loro Dio uccidono? O il cambiamento può arrivare dal gregge mondiale di follower e mitomani ormai schiavizzati dalla tecnologia?
Torno a porre la domanda: a parte le inevitabili eccezioni, che interesseranno soprattutto i singoli e alcune Istituzioni, pensate che gli Stati e i Colossi commerciali che governano il mondo siano disposti a deporre i loro privilegi? Dopo il crollo delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, alcuni filosofi e sociologi scrissero che una tragedia di quella portata avrebbe potuto cambiare il modello di vita degli americani, facendo emergere la paura, sempre rimossa, di abitare una realtà consumista, egoista, violenta, falsamente religiosa. Ditemi: è migliorato qualcosa in questo senso? E noi, che da sempre andiamo dietro a ciò che viene da oltre Atlantico, siamo meno coinvolti nel brillante e macabro show imposto dal capitalismo del pensiero unico?
Vi espongo una questione semplice e simpatica, provate a dare una risposta. I nostri figli e nipoti reclamano, anzi pretendono, un’economia green, uno sviluppo sostenibile, la riduzione dei gas serra, la scomparsa dei combustibili fossili, il riciclaggio integrale, il risparmio energetico, l’utilizzo di risorse rinnovabili eccetera. Escludendo i più consapevoli e impegnati fra di loro, sono gli stessi giovani che tengono in mano il cellulare per 14 ore al giorno, che mostrano un appetito famelico per ogni innovazione tecnologica, che vogliono le sneakers di firma, che non amano viaggiare a piedi, che pretendono cibi pronti e veloci, che si vergognano dei gadget che hanno più di due-tre anni (sono vecchi), che rifiutano lavori puliti e sicuri perché comportano l’uso delle braccia e non solo di dita che scorrono frenetiche su tastiere e display.
Ma attenzione: chi ha “educato” questi ragazzi, chi li ha deformati in questo modo? Chi li ha avviati verso una condizione esistenziale precaria, edonistica, viziosa, fatua? Risposta: noi, la generazione precedente, colpevole di aver allevato in modo sbagliato questa massa di insicuri resa ancor più vulnerabile dal venir meno di credenze, ideologie, valori che per millenni hanno fornito all’umanità delle mete riconoscibili e perseguibili. E tuttavia: assodato che abbiamo delle colpe dirette per il modo in cui abbiamo cresciuto i nostri figli, chiedo: era forse facile opporsi al dilagare della tecnologia, all’invadenza dei social, alla pervasività delle tecniche di manipolazione del nostro io? Riassumendo: primi responsabili, ma un po’ anche vittime, noi; a seguire, più decisa e motivata, ma gravata dagli stessi fardelli, la generazione “green”.
Brutto quadro, vero? Se state pensando che io sia un fatalista, un nichilista, un cinico, e non desideri né voglia fare la mia parte per un mondo migliore, che non sappia che sentimenti negativi ed errori sono compresi nel corredo esistenziale dell’uomo, e che l’unica cosa che possiamo fare è trasformarli in azioni di segno opposto, beh, siete fuori strada. Anzi – lo ripeto – sono convintissimo che alcuni mutamenti in positivo ci saranno, per esempio una certa (ma sempre insufficiente) riduzione delle emissioni di CO2 e una migliore collaborazione sanitaria fra gli Stati del mondo; a questo posso credere. Alle belle favole della decarbonizzazione globale, della fine dei razzismi e delle politiche di identità, della riduzione delle diseguaglianze, NO.
Che cosa mi rende dubbioso nei cambiamenti capaci di dare una vera svolta alla condizione che l’umanità vive a livello planetario? Semplicemente, la valutazione della specie di cui faccio parte, e di cui condivido pregi e difetti.
Chi siamo? Chi è l’essere umano? È la creatura di cui uno dei massimi filosofi di ogni tempo, Immanuel Kant, ha detto: “Dal legno storto di cui è fatto l’uomo non si può fabbricare nulla che sia veramente dritto”.
È “l’animale non ancora stabilizzato”, secondo la nota affermazione di Nietzsche.
È il buon cittadino che ha eletto alle più alte cariche politiche alcuni fra i più grandi criminali della storia.
È la causa del susseguirsi di guerre, massacri, genocidi, lotte sanguinarie fra tribù, clan, etnie, fazioni, classi, Stati, cui assistiamo dall’alba della nostra storia.
Ci siamo: nel profondo della creatura che ha dominato e rivoluzionato il Pianeta, nella psiche del Superuomo che annuncia e realizza la sua volontà di potenza c’è l’uomo biologico, l’animale, la scimmia evoluta che emerge dai ritratti più impietosi che gli sono stati dedicati.
Ne citerò due: li hanno cesellati un inglese, Jonathan Swift, e un romeno, Emil Cioran.
Non è soltanto la terra natia a dividerli, perché Swift ha vissuto a cavallo fra il Seicento e la prima metà del Settecento, Cioran ha attraversato tutto il Novecento, essendo nato nel 1911 e deceduto nel 1995.
Che cosa li accomuna allora? A unire questi due grandi spiriti è la concezione realistica, netta, amara, della natura umana. Capaci entrambi di concepire amore, profondi affetti e sincere amicizie, essi non credono, tuttavia, alla bontà originaria dell’essere umano.
Cioran ha riassunto il destino dell’uomo in parole amarissime ed essenziali, come quando afferma che il nostro vero progenitore è Caino, non Abramo. E nell’Inconveniente di essere nati: “Abbiamo un bel preferirci all’universo, ci odiamo pur sempre molto più di quanto pensiamo”.
Quanto al nostro rapporto con “Madre Natura”, in Écartèlement (Squartamento), opera del 1979, troviamo un’invettiva che è fra le più terribili che siano mai state pronunciate: “Che sloggi al più presto, questo è il voto che essa (la natura) formula e che l’uomo, se volesse, potrebbe esaudire immediatamente. In tal modo sarebbe liberata da questo sedizioso di cui perfino il sorriso è sovversivo, da questo contro-vivente che essa ospita per forza, da questo usurpatore che le ha rubato i segreti per asservirla, per disonorarla. (…) Le sue conquiste sono l’impresa di un traditore della vita e di se stesso”.
Ma Cioran va oltre, e incide con caratteri indelebili i contorni e l’intero scenario in cui ci siamo volontariamente cacciati: “È senz’altro increscioso che dobbiamo affrontare la fase finale del processo storico nel momento in cui, per aver liquidato le nostre credenze, manchiamo di disponibilità metafisiche, di riserve sostanziali d’assoluto. (…) Se, con il coraggio di guardare le cose in faccia, avessimo quello di sospendere la nostra corsa, non fosse che per un istante, questa tregua, questa pausa a misura terrestre basterebbe a rivelarci la vastità del precipizio che ci insidia e il terrore che ne conseguirebbe si muterebbe presto in preghiera o in lamento, in una convulsione salutare. Ma noi non possiamo fermarci. E se l’idea dell’inesorabile ci seduce e ci sostiene, è perché contiene nonostante tutto un residuo metafisico e rappresenta l’unico spiraglio di cui ancora disponiamo su un’apparenza d’assoluto, in mancanza del quale nessuno potrebbe sopravvivere”.
Cioran ha avuto molti predecessori, ma non c’è dubbio che Jonathan Swift sia uno dei maggiori critici dei costumi dell’uomo. Già in A tale of the tub, pubblicato nel 1704, sferra un deciso attacco alla superbia umana, non esclusa quella che promana dai religiosi che vivono nella “vana presunzione di possedere il favore di Dio e di comunicare con lui”.
Lo scrittore inglese sa che la credulità è più facile della curiosità e del pensiero critico; vivendo nell’illusione e sottomettendo la ragione all’immaginazione, è a se stesso che l’uomo fa il primo torto. Il bello (o il brutto) della questione è che il pensiero di Swift si radicalizza al contatto con i suoi simili; egli arriva a pensare che il genere umano sia formato in massima parte da persone stolte, disoneste e illuse.
In una lettera ad Alexander Pope del 29 settembre 1725, Swift enuncia con implacabile chiarezza i suoi sentimenti verso il prossimo: “Io ho sempre odiato tutte le Nazioni, le professioni e le comunità, e tutto il mio amore è per i singoli individui; ad esempio, odio la genia degli avvocati, ma voglio bene a quel tal consigliere e a quel tal altro giudice; lo stesso dicasi per i medici (…), per i soldati, gli inglesi, gli scozzesi, i francesi, e tutti gli altri. Ma soprattutto odio e detesto quell’animale chiamato uomo, pur nutrendo vivo affetto per Giovanni, Pietro, Tommaso e così via”.
Il sarcasmo di Swift diventa micidiale quando in A modest proposal for preventing the children of poor people from being a burthen to their parents or country (1729), suggerisce di ingrassare i figli dei poveri e vendere le loro carni, risparmiando ad essi e ai loro genitori le sofferenze che tutti gli indigenti vivevano a quei tempi. L’assimilazione dei bambini agli animali rivela la profonda indignazione dello scrittore per le terribili condizioni in cui i minori venivano allevati.
Il dispregio in cui Swift teneva il genere umano era destinato ad acuirsi durante l’ultima parte della sua vita, e a dar vita ad uno dei più corrosivi lavori satirici di ogni tempo. Nei Viaggi di Gulliver, pubblicati in forma anonima nel 1726, assistiamo ad uno spietato atto di accusa contro la creatura spregevole e crudele chiamata uomo. Nel primo libro, che descrive il naufragio e l’arrivo a Lilliput del medico di bordo Lemuel Gulliver, lo scrittore sferza senza pietà la meschinità e la vacuità delle pretese umane; nel successivo approdo, i giganti di Brobdingnag arrivano alla conclusione che il popolo di Gulliver deve essere “la più nociva razza di parassiti cui la natura abbia mai permesso di strisciare sulla superficie della terra”. Ma è nel quarto libro, A Voyage to the Country of the Houyhnhnms, che Swift emette una sentenza definitiva sul genere umano, presentandoci un Gulliver profondamente disgustato dai suoi simili e colmo di ammirazione per le virtù dei nobili Houyhnhnms, i cavalli parlanti e razionali che detestano gli Yahoos, brutali creature del tutto somiglianti agli umani nell’aspetto fisico.
Il quadro delineato da Swift e da Cioran è davvero sconfortante; siamo davvero così? Mi viene da rispondere che siamo anche e soprattutto così… Fortunatamente, come ho già detto, è innegabile che odio e amore, cattiveria e bontà, egoismo e generosità, fanatismo e tolleranza siano legati fra di loro, perché tutti fanno parte del nostro bagaglio antropologico e culturale. Non è facile, ma è sempre possibile trasformare i nostri problemi, i nostri tormenti, in azioni e sentimenti positivi e costruttivi. Purtroppo, Schopenhauer aveva ragione quando affermava che un babbeo resta un babbeo. In effetti, quanto si può influire su un terrapiattista? E pensate che sia possibile inculcare una retta teoria morale nella testa di un neonazista?
Goethe la pensava più o meno come il suo connazionale Schopenhauer: “La personalità è la felicità più alta”, scriveva, intendendo che alcune persone hanno la fortuna di nascere con dotazioni intellettive, familiari e sociali che li favoriscono nella capacità di comprensione del mondo (è opportuno precisare che ciò non vuol dire che questi individui saranno necessariamente più felici di chi nasce in situazioni meno propizie dal punto di vista culturale e sociale).
In ogni caso, non c’è dubbio che se desideriamo vedere un mondo più giusto è da noi stessi che dobbiamo partire; è certamente la prima regola morale, l’essenza stessa della vita. Per Spinoza l’essere umano si realizza nell’azione, nella capacità di creare determinati effetti, di cui egli stesso è la causa. Ma ci sono azioni e azioni, comportamenti e comportamenti, e se il “fare” più immediato rimane la necessità di provvedere al proprio sostentamento, non c’è dubbio che il fare più elevato risiede nella responsabilità di prenderci cura di noi stessi e degli altri.
Vogliamo provarci? E come? Ecco alcuni consigli desunti dalle letture di una vita:
Pensa a vivere bene oggi, perché il futuro non esiste. Conosciamo il nostro passato, è ciò che abbiamo vissuto a stare dinanzi a noi, non il nostro futuro. Domani potremmo subire un infarto, un ictus, una leucemia fulminante e sparire in pochi secondi. Gusta il presente, assapora quella che il grande Thich Nhat Hanh chiama la pienezza dell’istante, la facoltà di percepire come un dono ogni gesto della vita, dal più nobile al più banale. Il maestro zen Alan Watts: “Le cose non si spiegano con il passato, si spiegano con l’oggi. È questa l’origine della responsabilità. Altrimenti puoi sempre guardarti indietro e dire ‘sono nevrotico perché mia madre era nevrotica e lei era nevrotica perché è stata partorita da una nevrotica’”.
Accetta l’imprevisto, l’aspettativa delusa, la novità spiazzante; la vita di tutti noi reca la sua quota di ineluttabile. Come insegna il filosofo stoico Epitteto, ci sono cose che dipendono da noi e sulle quali possiamo influire, e altre che non dipendono da noi, e che dobbiamo saper accettare.
Rifletti sulla vita che conduci. Se è difficile ponderare e valutare preventivamente ogni cosa che facciamo, è possibile però riesaminare il proprio operato e cercare di evidenziare i pro e i contro di una determinata azione. Purtroppo, non siamo abituati a concentrarci su come migliorare i nostri rapporti con i genitori, i figli, i colleghi, il nostro prossimo. Ma la vita la conduciamo con queste persone, non da soli!
È chiaro che un processo del genere verrà vanificato se non ci doteremo del necessario autocontrollo. Controllarsi è segno di maturità, di saggezza, di una grande forza di carattere. Seneca ci ricorda che c’è sempre un momento nel quale sentiamo che stiamo perdendo il controllo delle nostre emozioni; è lì che possiamo esercitare la nostra capacità di scelta.
Non confrontarti con gli altri; ascolta lo psicologo americano Jordan Peterson, confronta il te stesso di ieri con quello di oggi, e cerca di migliorarti ogni giorno. Se non siamo disposti a fare sacrifici per perfezionarci, se pensiamo di dover vivere per come siamo e come siamo sempre stati, non c’è modo di sperare in alcunché.
Pensa agli altri. L’abbé Pierre ha detto una cosa semplice e fondamentale: Non si può essere felici senza gli altri”. Ma la nostra vita avrà una ricchezza maggiore e molto più senso se saremo anche di utilità agli altri, se saremo disposti ad aiutare e a servire il prossimo. E non solo il prossimo; ormai abbiamo capito tutti che dobbiamo prenderci cura del pianeta in cui viviamo, della sua atmosfera, delle piante, degli animali, e questo è alla portata di ognuno di noi. Non basta protestare: come sostiene lo scrittore Jonathan Safran Foer “bisogna costringere il mondo a cambiare, boicottando ad esempio certi cibi, aziende, compagnie aeree”.
Come non dargli ragione? Basta dare soldi a chi avvelena il Pianeta! È un compito richiesto a tutti noi e, com’è ovvio, ai nostri Governi, perché nessuno strumento è più potente di una legge che obblighi a determinati comportamenti nel bene della collettività. I consigli e gli incoraggiamenti di economisti come Ann Pettifor e Joseph Stiglitz, di psicologi come Steven Pinker e Jordan Peterson, di storici come Yuval Noah Harari ci confortano: dobbiamo agire, subito e seriamente, nella convinzione comune che non si è ancora fatta sera.
armando.santarelli@inwind.it
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