FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 59
novembre 2021

Rovine

 

ROVINE CIRCOLARI
Jorge Luis Borges, tra finzione e realtà

di Patrizia Tortora



Nel cuore della notte, la canoa di un uomo si incaglia nel fango sacro della riva di un fiume in un luogo geografico imprecisato. L’uomo avanza tra la vegetazione e raggiunge un recinto circolare che circonda la statua di una tigre o forse di un cavallo di pietra, che una volta era del colore del fuoco ed è ora di quello della cenere. Sono le rovine di un tempio divorato da antichi incendi. In questo spazio, permeato di sacralità e di mistero, l’uomo è fortemente determinato a realizzare il suo proposito: vuole sognare un uomo con minuziosa interezza e portarlo alla realtà. Questo progetto creativo magico e soprannaturale, ma secondo lui possibile, occupa ogni spazio della sua anima e divora i suoi ricordi: non ha più memoria di se stesso. Consacra la maggior parte del suo tempo a dormire per poter sognare. È nel sogno, infatti, che riesce a realizzare il suo atto creativo, benché siano molti gli ostacoli che incontra.

Il narratore, esterno e onnisciente, afferma che quest’uomo taciturno viene dal Sud e che la sua patria è uno degli infiniti villaggi che sono a monte del fiume, nel fianco violento della montagna, dove l’idioma zend non è contaminato dal greco, e dove la lebbra è infrequente. Fin dall’inizio, il lettore viene proiettato in una dimensione spazio-temporale fantastica e indefinita in cui il riferimento allo zend rimanda allo zoroastrismo, la religione basata sugli insegnamenti del profeta Zarathustra (o Zoroastro) che tra il VI secolo a.C. e il X secolo d.C. fu la più diffusa nelle regioni iraniche e dell’Asia centrale. Il luogo in cui si realizzano gli eventi potrebbe, dunque, corrispondere all’attuale Iran, a una regione compresa tra l’Occidente e l’Oriente.

Questo, in sintesi, è il contenuto del racconto di Borges, “Le rovine circolari”, che fa parte della raccolta intitolata Finzioni, pubblicata nella sua edizione definitiva nel 1953. Per questioni di spazio, sarebbe impossibile soffermarsi sui numerosi dettagli della narrazione, ricchissima di riferimenti intertestuali e culturali che rivelano il sapere enciclopedico dell’autore. Sarà il lettore a cercare di scoprirli, come in una caccia al tesoro, e ad interpretarli per mezzo delle coordinate che Borges lascia tra le righe come segnali per tracciare un sentiero verso il finale sconvolgente.

Le rovine circolari del racconto sono, dunque, ciò che resta di un tempio religioso in un luogo metafisico, testimoni di un culto a divinità ormai abbandonate dagli uomini. Ma possono anche evocare nel lettore un tempio dedicato all’arte e diventare scenario e palcoscenico sul quale l’uomo del racconto assume i contorni di un personaggio creato e destinato a ripetere infinite volte la sua vicenda per continuare a esistere. La sua realtà, infatti, è solo apparente così come il suo atto creativo. Scopre di essere anche lui il prodotto del sogno di un altro. Le sue azioni sono guidate da un copione che non può essere modificato, scritto dalla mano invisibile dell’autore onnisciente che è il vero creatore e sceneggiatore degli eventi. L’uomo-personaggio comprende con sollievo, con umiliazione e con terrore di essere anche lui un’apparenza, una finzione creata da un altro, privo del libero arbitrio. Le rovine circolari sono il teatro in cui viene messa in scena la storia di un uomo che solo nella rappresentazione di se stesso come personaggio, quindi nella finzione, riesce ad essere reale.

Il tema del sogno come spazio creativo tra finzione e realtà rimanda, quasi in modo automatico, a William Shakespeare, uno dei giganti della drammaturgia universale. Le rovine circolari di Borges non ricordano forse nella forma e nella funzione il teatro shakespeariano? Come non pensare alle parole scritte dal Bardo nel IV atto de La Tempesta: “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”? Siamo apparenza o siamo reali? La nostra essenza sembra effimera e destinata a dissolversi come polvere di stelle nell’universo. Eppure, i sogni sono la sostanza di cui siamo fatti, senza di essi la nostra vita non avrebbe consistenza.

Seguendo il filo del racconto di Borges, si creano collegamenti con un altro grande autore, Calderón de la Barca, il quale ha dedicato al sogno, come rappresentazione della vita tra apparenza e realtà, un’opera teatrale straordinaria, La vida es sueño. In uno dei monologhi più belli, uno dei personaggi afferma: “Che è mai la vita? Una frenesia. Che è mai la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione…E il più grande dei beni è poi ben poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni, sogni sono”. (Calderón de La Barca, La vita è sogno, scena XIX atto secondo).

Riconosco che l’accostamento tra Shakespeare, Calderón de la Barca e Borges può risultare audace ma, a ben guardare, sia il racconto sia le opere teatrali citate affrontano il tema dello stretto rapporto tra finzione e realtà che è proprio dell’arte. Finzione e realtà si fondono e si mescolano fino a rendere impossibile distinguere l’una dall’altra: questo è il grande inganno dell’arte che imita la vita ed è il grande sogno dell’uomo di essere immortale.

Accostamenti temerari tra testi narrativi e testi teatrali, tra autori moderni e autori del passato; non è forse questa la magia dell’arte? È l’arte, infatti, che permette di creare ponti e collegamenti tra forme espressive diverse, di tessere maglie intrecciando, in modo libero e creativo, i fili diversi della grande letteratura, della poesia e del teatro. È l’arte capace di donare questa libertà. Ed è esattamente quello che si propone questa bella rivista dal nome suggestivo ed emblematico, Fili d’aquilone.

Questo affascinante testo di Borges crea un racconto sospeso in una dimensione onirica che a tratti scivola in uno stato di allucinazione molto inquietante e pone un interrogativo sulla natura della realtà stessa e sul ruolo della finzione. Il lettore passa da uno stato di curiosità iniziale a un desiderio crescente di capire, continuamente stimolato alla riflessione dall’abile percorso narrativo dell’autore. Forse, alla fine, scoprirà che il modo più profondo di comprendere la realtà è di percepirla come un sogno, ossia in modo puramente poetico e completamente libero.

Le rovine del santuario del dio del fuoco furono distrutte dal fuoco. In un’alba senza uccelli il mago vide avventarsi contro le mura l’incendio concentrico. Pensò, un istante, di rifugiarsi nell’acqua; ma comprese che la morte veniva a coronare la sua vecchiezza e ad assolverlo dalle sue fatiche. Andò incontro ai gironi di fuoco: che non morsero la sua carne, che lo accarezzarono e inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro stava sognandolo.


J.L. Borges, “Le rovine circolari”, in Finzioni, Einaudi, 1955, Trad. di Franco Lucentini.


patrizia.tortora60@gmail.com