Eh sì, il Pianeta è a rischio, ma sembra che stavolta stiamo davvero correndo ai ripari. D’altra parte, il cambiamento climatico ci ha colti un po’ di sorpresa, no? Non è forse vero che ci siamo resi conto solo nel recente passato di aver depredato la natura in modo massiccio e insensato?
No, assolutamente no. Gli allarmi sui delitti che l’uomo stava perpetrando contro la natura erano arrivati, in modo chiaro, già nei secoli passati; ma li abbiamo ignorati, irrisi, calpestati, al punto di versare nella condizione di chi ammette, adesso, “che potrebbe essere troppo tardi”.
Nel 1864, il diplomatico e linguista statunitense George Perkins Marsh pubblica Man and Nature, opera in cui denuncia in modo esemplare la condotta distruttiva dell’uomo, che deriva, secondo lo studioso, dalla sua “mancanza di considerazione per le leggi della natura”. Marsh non nega che l’uomo sia stato costretto a servirsi della natura, e a mutare alcuni suoi equilibri. È come lo ha fatto a motivare le critiche di Marsh: “Le devastazioni dell’uomo sovvertono le relazioni e distruggono l’equilibrio che la natura aveva stabilito fra le sue creazioni organiche e inorganiche; ed essa si vendica dell’invasore scatenando nelle sue regioni oltraggiate le energie distruttrici tenute fino allora a freno dalle forze organiche destinate ad essere le migliori alleate dell’uomo, ma che egli ha spensieratamente disperso e scacciato dal loro teatro di azione”. Una predizione incredibile, spaventosamente attuale, vero o no? Eppure, è stata pronunciata più di 150 anni fa!
Negli stessi anni in cui scriveva Marsh, Victor Hugo auspicava un’estensione del giudizio morale al mondo della natura: “Nel rapporto dell’uomo con gli animali, i fiori, gli oggetti della creazione, c’è una grande etica, per ora appena percepibile, che dovrà in futuro venire imperiosamente alla luce e che sarà compimento e corollario dell’etica umana”.
Cent’ anni dopo Marsh e Hugo, l’ecologista Aldo Leopold, in A Sand County Almanac (1949), parlava nuovamente di “un’etica di responsabilità” per la natura. Leopold era più che mai consapevole che gli uomini non si preoccupavano delle condizioni del Pianeta perché non si sentivano moralmente colpevoli nel danneggiare la terra ed esaurire le sue risorse.
Più di recente, e precisamente nel 1974, in Man’s responsibility for Nature, saggio che ebbe un’enorme risonanza nel mondo ambientalista, il filosofo australiano John Passmor scriveva: “La letteratura scientifica mi ha convinto pienamente, dove non è bastata l’osservazione personale, che l’uomo non può continuare a comportarsi, come ha sempre fatto, da predatore della biosfera”.
Tre moniti eclatanti, un secolo e mezzo di avvertimenti chiari e motivati, con segnali di pericolo evidenti, solo per ritrovarci nelle rovine ambientali che minacciano la nostra esistenza. Ma non c’è da stupirsene. Siamo forse dei buoni amministratori della vita comune? Abbiamo usato con saggezza la nostra intelligenza? Abbiamo ponderato le nostre scelte e le nostre risoluzioni, in modo da estenderle al maggior numero possibile di abitanti del Pianeta?
Premetto che nessuno ignora che “il mondo ha compiuto progressi spettacolari in ciascuna delle misure del benessere umano” (Steven Pinker in Illuminismo adesso, 2018). Lo psicologo cognitivo americano dedica interi capitoli agli enormi balzi in avanti dell’umanità nel campo scientifico, sociale e culturale. In due secoli, l’uomo ha conseguito l’abolizione della schiavitù e delle persecuzioni religiose, attuato una rivoluzione nei diritti civili, sradicato malattie spaventose come la peste, il vaiolo, la poliomielite, abbattuto quasi interamente la mortalità infantile. Si calcola che le scoperte di medici e scienziati relative ai gruppi sanguigni, al trattamento dell’acqua con il cloro, i vaccini, le antitossine per il tetano, la penicillina, l’angioplastica, la reidratazione orale e la razionalizzazione della farmacologia abbiano permesso di salvare circa cinque miliardi di vite umane. Le scoperte scientifiche ci consentono di rispondere a domande relative alla nascita dell’Universo e della specie umana, al futuro del sistema solare, al meccanismo della vita.
Tutto a posto, allora? No, per niente. Nessuna visione illuministicamente fiduciosa nel progresso può evitare alcune questioni riguardanti la condizione umana attuale e futura. Parliamo del perpetuarsi e persino dell’approfondirsi delle diseguaglianze, del perdurare della povertà in molte aree del Pianeta, del terrorismo internazionale, del riscaldamento globale, della subdola violenza dei troll e degli haters di internet, della disgregazione delle comunità a vantaggio dei contatti virtuali della rete, dell’intrusività delle compagnie tecnologiche nelle nostre vite, della mercificazione del mondo, del dilagare delle droghe e degli psicofarmaci, dell’inquinamento e della distruzione ambientale, dell’emigrazione forzata di intere popolazioni, della perdita del lavoro da parte di milioni di individui…
Di tutti questi, non c’è dubbio che a tutt’oggi il problema moralmente più inaccettabile sia costituito dall’aumento delle disuguaglianze. Il divario crescente fra le aree ricche e quelle povere del pianeta era una delle preoccupazioni che Eric J. Hobsbawm esprimeva nel celebre Il secolo breve (1994). “Ognuna delle due aree prova rancore verso l’altra”, scriveva il grande storico. E ancora: “Un’economia mondiale che si sviluppa attraverso la produzione di disuguaglianze crescenti, quasi inevitabilmente genererà grossi problemi”. Ma per Pinker questo è un problema relativo. Sempre in Illuminismo adesso, leggiamo: “Insieme, la tecnologia e la globalizzazione hanno fatto sì che essere una persona povera oggi significhi una cosa diversa da prima, almeno nei Paesi più sviluppati. Il vecchio stereotipo della povertà era un indigente emaciato vestito di stracci. Oggi i poveri sono con buone probabilità altrettanto in sovrappeso come i loro datori di lavoro, e indossano la stessa felpa, le stesse sneakers e gli stessi jeans”.
E più avanti: “La disuguaglianza non è la stessa cosa della povertà e non è un parametro fondamentale della prosperità umana. Nei confronti tra i livelli di benessere dei vari Paesi passa in secondo piano rispetto alla ricchezza globale. Un aumento della disuguaglianza non è necessariamente un male: quando le società evadono dalla povertà universale, devono inevitabilmente diventare più sperequate, e lo scatto non omogeneo può ripetersi quando una società scopre nuove fonti di ricchezza”.
Ha ragione Pinker? Non credo. A parte che esistono ancora, nel mondo, intere popolazioni che soffrono la fame, ma è giusto che ovunque sia in atto un arricchimento delle élite e una stagnazione o addirittura un impoverimento dei più indigenti? Hobsbawm era stato chiaro: “Alla fine del secolo, lo Stato nazionale è sulla difensiva contro un’economia mondiale che esso non può controllare. (…) E tuttavia, lo Stato, o qualche altra forma di autorità pubblica che rappresenti l’interesse generale, è più indispensabile che mai se si vogliono controbilanciare le ingiustizie sociali e ambientali dell’economia di mercato o perfino se si vuole far funzionare in maniera soddisfacente il sistema economico. Senza qualche redistribuzione e ripartizione del reddito nazionale da parte dello Stato che cosa accadrà, per esempio, alle popolazioni dei vecchi Paesi sviluppati, la cui economia si basa su una quota relativamente sempre più ristretta di percettori di reddito, mentre cresce il numero delle persone estromesse dal ciclo produttivo a causa delle alte tecnologie e aumenta anche la proporzione dei poveri che non hanno un reddito sufficiente?”.
Entriamo nel campo della politica, ed è giocoforza rifarsi a due dei più influenti economisti del nostro tempo, ovvero Ann Pettifor e Joseph Stiglitz. Ann Pettifor, paladina dello sviluppo sostenibile, è autrice di un testo importantissimo, The Case for the Green New Deal, opera pubblicata nel 2019. L’idea centrale del libro è che non si può affrontare la crisi climatica e ambientale senza riformare il sistema economico e finanziario. Le banche e la finanza mondiale, ammonisce l’economista inglese, debbono smetterla di favorire politiche basate sul consumo e sullo spreco, perché sono le prime responsabili dell’inquinamento e dell’alterazione degli equilibri del Pianeta. Le soluzioni? Favorire l’economia verde e creare più occupazione, soprattutto nei settori sostenibili per l’ambiente; però, dove prendere i fondi per finanziare tali operazioni a livello mondiale? Sia la Pettifor sia Stiglitz escludono il ricorso alla tassazione, privilegiando invece i prestiti e il risparmio, e individuando nello Stato il motore del cambiamento; in primis, lo Stato dovrebbe avocare a sé la proprietà e la gestione di alcune risorse basilari, la sanità pubblica e l’istruzione; inoltre, sono gli aiuti pubblici a dover sostenere i privati virtuosi, offrendo la base per arrivare a quel capitalismo progressista di cui parla Stiglitz nel recentissimo Popolo, potere e profitti. Purtroppo, è qui che i piani proposti dai fautori del Green New Deal trovano un grosso ostacolo; infatti, molti Stati occidentali (e non solo) sono indebitati, e dipendono da Organi internazionali quali la Bce e il Fondo monetario internazionale, notoriamente molto abbottonati nella concessione di fondi a Nazioni deboli economicamente e politicamente. Se questo non è un gatto che si morde la coda, ditemi voi cos’è…
Pinker ha tutte le ragioni per ritenere che la scienza e la tecnologia potrebbero portare la vita dell’uomo ad un livello di benessere mai raggiunto nel corso della storia; tutte le ragioni, meno una, che però ha un peso forse decisivo. Hobsbawm, nel trattare la faccenda, non si fa illusioni: “Per la maggioranza degli scienziati, i cui istituti di ricerca vengono direttamente o indirettamente finanziati con i fondi pubblici, i controllori sono i governi. Ma i governi non si interessano della verità ultima (a meno che non sia quella delle ideologie o delle religioni), bensì solo della verità strumentale. La verità è che la scienza (un termine con cui la maggioranza delle persone intende le scienze naturali pure) è troppo grande, troppo potente troppo indispensabile per la società in generale e per i finanziatori in particolare perché possa essere lasciata a se stessa. Il paradosso della situazione è che, in ultima analisi, l’enorme centrale di energia costituita dalla tecnologia del Ventesimo secolo, e l’economia che essa alimenta, dipende sempre più da una comunità di persone relativamente piccola, per le quali le conseguenze titaniche delle loro attività sono secondarie e spesso insignificanti”.
I problemi evidenziati da Hobsbawm sono esattamente quelli messi in luce, un quarto di secolo dopo, dallo storico Yuval Noah Harari. In 21 Lezioni per il XXI secolo, terzo libro di successo dello studioso israeliano, leggiamo: “Per fare i conti con le rivoluzioni tecnologiche ed economiche senza precedenti del XXI secolo, abbiamo bisogno di sviluppare nuovi modelli sociali ed economici il prima possibile. Questi modelli dovrebbero essere guidati dal principio di protezione delle persone piuttosto che dei posti di lavoro”. In quest’ottica, Harari suggerisce una gamma di soluzioni: il ricorso al reddito minimo universale, l’ampliamento dello spettro di attività umane da considerarsi “lavori” (includendovi, per esempio, la cura dei bambini), la creazione di servizi universali di base gratuiti (istruzione, sanità, trasporti ecc.).
E tuttavia, il problema più rilevante di un possibile imperio della tecnologia rimane intatto: la creazione di masse umane che, persino in condizioni di tutela economica e sanitaria, sperimentino il terribile sentimento dell’inutilità, dell’insignificanza. Scrive Harari: “I due processi insieme – la bio progettazione abbinata alla crescita dell’Intelligenza Artificiale – potrebbero quindi avere come conseguenza la divisione dell’umanità in una ristretta classe di superuomini e in una sconfinata sottoclasse di inutili Homo sapiens. Così la globalizzazione, invece di portare a un’unione globale, potrebbe portare alla “speciazione”: la divisione dell’umanità in diverse caste biologiche o persino in diverse specie. (…) Su questa prospettiva si fonda l’attuale risentimento contro “le élite”. Se non stiamo attenti, i nipoti dei magnati della Silicon Valley e dei miliardari di Mosca potrebbero diventare una specie superiore rispetto ai nipoti dei montanari degli Appalachi e degli abitanti dei paesi siberiani”.
Che dire? Abbiamo una soluzione? Non lo so, forse non lo sa nessuno, perché ormai la tecnologia ci sopravanza in potenza, velocità, capacità di adattamento. Ma qualcosa di certo possiamo dirlo. Il nostro futuro, almeno per adesso, dipende ancora dalle nostre decisioni. Quando si sono create le prime holding finanziarie internazionali, quando è stata istituita la Banca Mondiale, quando Google, Facebook e Amazon hanno iniziato a conquistare il Pianeta, a dirigere le loro strategie non è stata alcuna macchina, alcuna IA, alcun algoritmo. La strada, i primi fatidici chilometri, la direzione, sono state decise da uomini, da rappresentanti del genere Homo sapiens. È superfluo, inutile prendersela con le Compagnie big tech, ed è retorico pensare che possano autoregolamentarsi. Dietro e sopra di esse c’era e c’è ancora la testa dell’essere vivente capace di cambiare le sorti del Pianeta, ci sono gli Stati, le comunità, le Istituzioni, le leggi. Non possiamo che convenire con Luciano Floridi, filosofo della rete dell’Università di Oxford, quando afferma che il potere, quello finale, sta nelle mani del legislatore, che “non deve rincorrere, ma direzionare lo sviluppo della tecnologia. Non ti deve dire quanto veloce puoi andare, ma dove devi andare, che è tutta un’altra storia”.
armando.santarelli@inwind.it
|