[Per l’anniversario dei 25 anni di pubblicazione del libro di poesia Voluntad de la luz (Mantis Editores, 1996) del messicano Luis Armenta Malpica pubblichiamo questo saggio inedito del venezuelano Adalber Salas Hernández. La raccolta poetica è stata tradotta in italiano, Volontà della luce, da Emilio Coco e pubblicata in Italia nel 2011 da Sentieri Meridiani. Di questo libro sono apparse, in questi venticinque anni, quattordici riedizioni, comprensive delle traduzioni in diverse lingue. NdR]
Come può l’uomo conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? MICHEL DE MONTAIGNE
Questo saggio inizia con una domanda e una scena postuma.
Prima di tutto la domanda: chi parla per conto dell’animale? Chi emette l’enunciato, chi si esprime quando leggiamo che si sta parlando a nome dell’animale?
È una domanda legittima, persino necessaria, dal primo istante in cui un animale alza la voce in un testo, voce che ci interpella articolandosi con un’umanità evidente. Penso, per esempio, alle Favole di Esopo, per fare probabilmente l’esempio più ovvio: nel corso dei secoli le successive elaborazioni del formato della favola dimostrano quanto sia irresistibile prendere voce per conto di un animale o, in modo più esplicito, prendere “la voce” dell’animale.
Questo potrebbe essere un esempio affrettato. Tuttavia, ciò non toglie validità al concetto. Un esame più attento delle opere canoniche occidentali ci regala un numero considerevole di casi in cui l’animale e l’essere umano si mescolano, si confondono nel territorio inquieto della voce. Nel libro VI delle Metamorfosi Ovidio racconta di come, dopo una successione di atti cruenti che coinvolgono stupri, mutilazioni e omicidi, in una di quelle catene di vendette tanto care alla mitologia greca, il re Tereo, sua moglie Procne e la cognata Filomela vengono trasformati in uccelli il cui canto è impronta udibile dei crimini commessi. Apuleio, nella sua Metamorfosi, generalmente conosciuta come L’asino d’oro, racconta la trasformazione del giovane e superbo Lucio in un asino, per aver partecipato alla pericolosa pratica della magia. Vengono in mente anche gli Yahoos e il villaggio di cavalli parlanti che Gulliver incontra in uno dei suoi ultimi viaggi. O il gatto Murr di Hoffmann, che non solo parla ma scrive. In tutti questi casi, è la parola lo spazio dove l’essere umano e l’animale mobilitano il confine che li separa: la parola è la zona in cui i due combaciano.
Ecco ora quella che ho definito la “scena postuma”. Si tratta di un brano della poesia “Il pesce immerso” che fa parte di Volontà della luce, libro di poesia del messicano Luigi Armenta Malpica (1961) pubblicato la prima volta in Messico nel 1996. Qui il lettore si ritrova in uno di quei luoghi che offrono alla vista dei passanti quello che si chiama, seguendo una tradizione antichissima, “storia naturale”:
Il pesce sarà un’assenza quando avranno smesso di nominarlo
quando i ragni non potranno più vederlo
e non sarà dato per morto
in qualche nido.
Il pesce sarà lo stupore che si fingerà
quando andando al giardino zoologico
nella sezione di storia naturale lo si vedrà
imbalsamato
sopra una scheda:
Pesce
estinto.
Allora si sentirà la sua mancanza.
Più di qualcuno dirà che, certo, lui lo conosceva:
possedeva un paio di potenti pinne
coperto di squame di metallo
e all’estremità del corpo
al timone di comando
una cortina di fumo
offuscava
la sua avanzata.
E un altro dirà no
che il pesce era un vecchio grattacielo
una specie di piramide di vetro e malta
dove i ragazzi nascondevano le monete
rubate ai genitori.
E un’anziana vanagloriosa
(la qual cosa denoterà la sua stirpe e il suo sesso)
aprirà i volanti della sua camicetta
smonterà il suo torso
e mostrerà sull’areola
il corpo inconfondibile del pesce
tra le sue costole.
E lei non dirà il nome che una volta fu
l’eredità dell’acqua
non dirà che medusa fu un’invenzione di vecchi
e che non esiste altro animale
che l’uomo...
Resterà
nuda
così pesce
come già
da moltissimo
lo era
in attesa
di un nuovo colpo
di anni
che la conduca
all’acqua.{1}
Volontà della luce accoglie il lettore in uno scenario imprevisto: il giardino zoologico. Nessun azzardo nella scelta: lo spazio delimitato e segnalato, concretizzazione fisica della classificazione tassonomica a cui è stata sottoposta ogni vita animale non umana, offre ai visitatori uno sguardo classificato, un senso. Tuttavia si tratta di uno spazio palesemente artificiale nel quale ogni esemplare viene presentato in un habitat finto, i cui limiti sono da subito ben visibili allo spettatore.
Ma qual è il giusto habitat per un esemplare estinto? All’interno della narrazione costruita dallo zoo il suo posto è quello di “antecedente”, quasi giustificazione della situazione attuale. Intrappolato in questo dispositivo narrativo teleologico il pesce estinto, di cui parla la poesia, funziona come un precursore, un documento storico. Di qui le prime due testimonianze che si ricevono su di lui tendono a farne un ibrido animale-industriale, una sorta di macchinario organico, investito dai segni ineludibili del progresso tecnologico: pinne, timoni, grattacieli, piramidi, in quanto alle forme, e scaglie di metallo, vetro e malta per quel che concerne i materiali. Così narrato il pesce estinto sembra contenere in anticipo i segni di un futuro inanimato.
Contro questo arco narrativo si pone la voce dell’anziana, capace di mostrare le tracce del pesce sul suo stesso corpo: la sua anatomia, semplice, contrasta con la profusione di materiali che i racconti precedenti attribuiscono al pesce estinto. E possiede, inoltre, la prova – a differenza degli altri visitatori, che contano solo a parole – la vecchia ci rivela il pesce nella sua carne. La sua nudità diventa quella del pesce.
A differenza del racconto costruito dallo zoo, lineare e con un chiaro punto di arrivo, il racconto che offre la vecchia è circolare: in lei il pesce estinto giace in attesa “di un nuovo colpo di anni che la conduca all’acqua”.
Questa scena postuma – postuma per il pesce, s’intende – pone la domanda con la quale aprivo questo mio lavoro alcuni paragrafi prima: chi parla per conto dell’animale?
La scena sembrerebbe delineare una risposta provvisoria: per l’animale può parlare soltanto chi porta la sua impronta, ovvero per l’animale può parlare soltanto lo stesso animale. Quando il gesto nominativo proviene da un’istituzione, come accade nel giardino zoologico, e, quindi, dal racconto civilistico, androcentrico che rappresenta, l’animale diventa accessorio, giustificazione, cosa anteriore.
Si tratta di un problema sollevato anche da un’altra scena, questa volta appartenente alla prima sezione di L’animal que donc je suis, di Jacques Derrida.{2} Qui Derrida riferisce di un incontro con un gatto domestico mentre si trova nudo e, a proposito di questo incontro, commenta: “È vero che io lo identifico come un gatto o una gatta. Ma prima ancora di questa identificazione lui viene a me come questo vivente insostituibile che un giorno entra nel mio spazio, in quel luogo dove ha potuto incontrarmi, vedermi, e vedermi nudo. Nulla potrà mai togliere in me la certezza che si tratta di un’esistenza ribelle a qualsiasi concetto”.
Prima dell’identificazione del gesto classificatorio c’è l’apparizione di questo essere vivente, la sua presenza nello spazio, ribelle all’assedio del discorso. Derrida lo inserisce nel suo racconto tracciando una meditazione sulla propria nudità: la nudità di chi parla rispecchia la nudità del gatto, quest’ultima doppia perché, inoltre, si ribella all’ordine del discorso, “a ogni concetto”.
C’è una certa affinità tra la nudità della persona anziana e quella del gatto. Un’affinità che ci obbliga a riformulare la risposta alla nostra domanda: chi parla per l’animale? Visto che ci permette di comprendere che non si tratta di parlare per conto dell’animale, ma di parlare l’animale, ovvero di costruire uno spazio dove l’essere umano e l’animale diventano indistinti nella voce. Una zona che mette in sospensione la macchina tassonomica. Per questo non c’è da meravigliarsi che Volontà della luce regredisca verso uno scenario non solo preistorico, ma anche precedente a qualsiasi vita che non fosse vegetale, l’origine del mondo, per trovare quel luogo dove tra l’animale e l’essere umano non ci sono differenze:
Laggiù in lontananza – Là-bas – ci fu una pietra affondata
dove l’aria sembrò fermarsi.
Un pezzo di basalto – traccia di quando i vulcani
erano i dittatori del regno minerale e le piante
(tutte sconosciute) lottavano con il fumo per la terra –
Sembrava miracoloso tra la lava ardente.
Pietra più grande della polvere diamante di quanto è rimasto intatto
si bagnava di muschio; all’aria
ardeva.
Con le sue orme verdastre scorreva un camino
di cenere e di fuoco:
scrittura di calcio rupestre e cuneiforme
nelle ossa dell’aria
la voce – di primigenia fattura –
si solidificava.
Questo testo, intitolato “Escavazione dell’aria”, si trova nella sezione “Cenere d’acqua e pesce”. Qui il poeta Luis Armenta Malpica configura una regione dove l’essere umano e l’animale si sovrappongono tornando al passato che condividono. Dopo averci obbligati, come lettori, a contemplare la scissione nella sua cristallizzazione istituzionalizzata, attraverso lo zoo, Volontà della luce ora avanza basandosi su un registro che sembra appartenere simultaneamente alle scienze e ai racconti mitologici. Questa sorta di registro ibrido rappresenta, nel fatto stesso della sua mescolanza, il senso che si va costruendo a poco a poco, pagina dopo pagina: una corrispondenza tra l’animale e l’uomo. Con-sonanza, ovvero assemblaggio di suoni, accordo: non è per caso che Volontà della luce si rivolga alla nozione di “voce” per fondare questa zona di sovrapposizione alla quale mi riferisco.
La pietra di basalto del testo poetico come espediente metonimico è la traccia che permette al poema di ricostruire un mondo, quella terra vulcanica, afflitta permanentemente dalle febbri della propria origine, fumante e sbuffante, dove la vita vegetale comincia a provare la sua prima calligrafia. E sorge proprio attraverso quella “scrittura di calcio, rupestre e cuneiforme”. Voce remota, voce ancor prima della voce.
Sta diventando chiaro perché Volontà della luce ci presenta una simile ambientazione. Per enunciare ciò che unisce la nudità dell’animale e l’essere umano è necessario, prima di ogni altra cosa, tornare al momento della nudità della stessa terra in cui abitano e condividono. È così che il libro può dare forma a quell’intima alterità che è l’animale. Ancora una volta vale la pena ricordare la scena della spogliazione – abbracciando i vari sensi del termine – che Derrida racconta. Riguardo al gatto ci dice: “Lui ha il suo punto di vista su di me. Il punto di vista dell’altro assoluto, e niente mi ha mai dato così tanto da pensare a questa assoluta alterità del vicino o del prossimo che nei momenti in cui mi vedo nudo sotto lo sguardo di un gatto”.
L’alterità del gatto è quella dell’altro assoluto. L’altro di una specie differente, di una diversa anatomia, di una configurazione fisica, di alcune capacità, di una struttura che si allontana dalla nostra. Tuttavia, quell’altro assoluto ha il suo “point de vue”. La sua non è l’alterità dell’inorganico, ma quella di un essere vivo che interagisce con noi nella misura in cui siamo anche noi degli esseri viventi. L’invito di Derrida è difficile da accettare, ma non per questo meno importante: occorre spogliarsi e contattare l’animale da quello spazio comune che è ciò ch’è vivo. Questa diversità ci pone requisiti etici invalicabili, sia nel comportamento tra esseri umani che in quello con le altre specie animali.
Quando osserviamo il pesce estinto nel giardino zoologico lo troviamo coperto dalle insegne di un futuro che non è il suo, di una temporalità che gli è estranea. Ne facciamo una nota a piè di pagina in un racconto evoluzionista, un utile articolo nella marcia inarrestabile del progresso umano. Completamente spogliato della sua alterità. Tuttavia, seguendo il gesto dell’anziana nella poesia che funge da prologo al libro di Luis Armenta Malpica, i testi che compongono Volontà della luce vanno ricostruendo questa alterità immaginandola a modo loro. Così, per esempio, succede nel poema “Fondazione del pesce”:
Lungo i flussi del pesce scorre un’opaca bolla d’amaranto; fiore porpora tagliato in un autunno di solforose acque in precipitosa fuga. Rovesciata dalla rocca della sua costola, dal catrame delle sue cartilagini porose, traccia di sangue pomice, la bolla sommerge dietro di sé una via lattea nata dalle mammelle della prima stella, da qualche strozzato cielo partoriente. Ombelicale, una cascata che avvolge pioggia e fiume, il lago e l’oceano.
Dopo quel paesaggio primordiale che ci è stato presentato in “Escavazione dell’aria”, l’origine del pesce – personaggio centrale della breve mitologia di questo libro –, la sua fondazione è segnata dall’emergere dell’animale dalla materia inorganica e la vita vegetale: “amaranto e fiore” condividono lo spazio con lo zolfo, il catrame, la roccia. “Cartilagini porose”, “sangue pomice” rendono conto di quel processo che, in ultima analisi, riflette in scala microcosmica la formazione dei corpi celesti, quella “via lattea nata dalle mammelle della prima stella”. Il particolare e il generale rivelano la loro affinità, come le piogge e i fiumi, o i laghi e gli oceani.
Il racconto della fondazione del pesce continua:
Il pesce lo intuiva già; lo sapeva per convinzione del mondo: il pesce che si fonda sulla terra, nel giallo latte pomice dell’oceano, che non aspira a essere pesce nell’acquario perché lì era un pesce, è la migale.
In qualcosa che potrebbe solo qualificarsi come salto evolutivo, appare in scena il secondo personaggio parallelo a questa specie di racconto mitologico: la migale. Questo aracnide di notevoli dimensioni, conosciuto anche come tarantola, è il pesce fondato sulla terra, il pesce che non ha bisogno di branchie né di pinne, che ha otto occhi e otto zampe. La migale è simultaneamente sé stessa e il pesce: diventando migale non ha abbandonato il suo passato. Un passaggio successivo ci dà maggiori dettagli sulla sua parentela:
Dei sogni del pesce, al ragno rimane unicamente l’acqua. L’idea, molto remota, dicevano, di una stessa parentela. La migale somiglia sulla sabbia a quel che è il pesce nell’acqua.
Ancora una volta incontriamo esseri viventi la cui progressione temporale contraddice ogni nozione teleologica. Come l’anziana del prologo portava in sé il pesce, la migale contiene in sé il suo passato, ancora attivo, nuotando. Il passaggio da una forma di vita alla successiva non implica un clivaggio brusco, ma un’assimilazione senza eliminazione. Al punto che non ci può essere migale senza un pesce che la preceda:
Invece, lo dice l’amaranto, non esiste la migale senza il suo pesce, che le arde in ogni girio d’acqua come i fuochi fatui.
Nei movimenti della migale si ritrova il pesce: in questa convivenza c’è anche della consonanza. Armenta Malpica formula una successione del vivente che contesta ciò che Giorgio Agamben ha chiamato la “macchina antropologica della filosofia occidentale”, la catena di dispositivi concettuali che servono per effettuare un taglio tra l’animale e l’essere umano nel pensiero occidentale, un parto cesareo volto a dare alla luce una nozione esclusiva dell’uomo, un’antropogenesi: “L’antropogenesi è ciò che risulta dalla cesura e dall’articolazione fra l’umano e l’animale. Questa cesura passa innanzi tutto all’interno dell’uomo.”{3}
Naturalmente, il correlato di tale cesura è che ogni sguardo lanciato sull’animale da ciò che è stato determinato come umano comporta una preposizione: per. L’animale esiste per l’uomo. È la sua risorsa, il suo strumento e il suo antenato, quest’ultimo solo nella misura in cui tale antecedenza denota la sua inferiorità. Per l’Agamben di L’aperto. L’uomo e l’animale, questa è stata una delle funzioni svolte dalla metafisica nel pensiero occidentale: rendere conto del superamento della physis animale nella progressione verso l’umano: “Questo superamento non è un evento che si è compiuto una volta per tutte, ma un accadimento sempre in corso, che decide ogni volta e in ogni individuo dell’umano e dell’animale, della natura e della storia, della vita e della morte.” Che il processo non possa essere consumato una volta per tutte, ma che si tratti di un lavoro permanentemente in corso, serve a capire quanto sia complicato sostenere una dicotomia come questa – che si articola sullo stesso asse di altre, come: natura-storia e vita-morte –, quante risorse e quanto sforzo richiede.
Un’altra poesia di Volontà della luce, intitolata “Traiettoria del pesce”, tratta direttamente il problema di questo superamento, offrendo in cambio un transito diverso per il vivente:
Molto prima di quello che oggi vi racconto
la voce del pesce aveva
la stessa prosa della voce umana.
In questo si conosce che tutti furono pesci
già prima di essere uomini.
Ma adesso niente dice.
Niente inventa che sia come giurare invano.
In principio fu il pesce.
Dal pesce fu la migale.
Nella transizione tra il mare e la terra
nacquero i granchi eremiti:
i ragni calcarei
con il mare dalla loro parte.
Torna la voce, vero filo conduttore di questa traiettoria, contemporaneamente suo spazio e sua bussola. La voce del pesce e la voce umana, consonanti, rivelano la loro parentela. Tuttavia, grazie ai constatati sforzi della “macchina antropologica della filosofia occidentale”, tale parentela è stata dimenticata, è rimasta in ombra. La voce del pesce è stata lasciata senza dizione, senza invenzione, del tutto sterile.
Subito dopo aver raccontato questo, il libro di Luis Armenta Malpica riprende il filo della successione per menzionare i granchi eremiti, ovvero quegli esseri prodotti dal cambiamento di habitat, personaggi mitologici di comparsa la cui apparizione serve a mettere in evidenza la possibilità di complessità, pieghe e crepe su quella strada che porta – anche se non termina – all’umano.
Sempre in L’aperto. L’uomo e l’animale Agamben si riferisce all’animale in un modo che ricorda, nel suo approccio midollare, la vista di Derrida sul gatto: “In quanto l’animale non conosce né essente né non essente, né aperto né chiuso, esso è fuori dall’essere, fuori in un’esteriorità più esterna di ogni aperto e dentro in un’intimità più interna di ogni chiusura. Lasciar essere l’animale significherà allora: lasciarlo essere fuori dall’essere. La zona di non-conoscenza – o di ignoscenza – che è qui in questione è al di là tanto del conoscere che del non conoscere, tanto dello svelare che del velare, tanto dell’essere che del nulla. Ma ciò che è così lasciato esser fuori dall’essere non è, per questo, negato o rimosso, non è, per questo, inesistente. Esso è un esistente, un reale, che è andato al di là della differenza fra essere ed ente.”.
L’esteriorità dell’animale, così come la sua interiorità, si trovano ben oltre la dicotomia esterno-interno articolata dagli sforzi volti a sostenere la cesura che lo separa dall’essere umano. Lasciare che l’animale sia fuori dall’essere significherebbe allora restituirgli la sua qualità di un altro assoluto, abbandonare l’assedio della sua alterità. Allora l’animale diverrebbe una presenza reale. La sua immagine, invece di rimanere per noi sfocata, si farebbe molto più nitida. Questo però significherebbe accettare che l’animale comporti per noi una misura di de-conoscenza, di “non-conoscenza” inespugnabile. L’animale andrà “oltre” i tentativi umani di afferrare il suo nucleo.
In un passo successivo della poesia “Traiettoria del pesce”, si può vedere che questo futuro conflitto era già previsto dal pesce e che, di conseguenza, dovette sperimentare non poca disperazione:
Secoli fa per esempio
il pesce per dimenticare il suo futuro da uomo
si convertì
in migale.
[...]
Così cominciò il mondo che oggi racconto.
Il pesce, immerso nell’uomo, cercava se stesso
nella migale
solo
per non affondare.
Non è eccezionale nei miti che i personaggi conoscano in anticipo l’esito della loro storia. Questo sembra essere uno di quei casi. Il pesce sa che il suo futuro sarà umano e, per dimenticare tale destino, si trasforma nella migale. L’oblio come motore di cambiamento nella materia vivente. Come se l’evoluzione delle specie fosse frutto non solo del bisogno materiale, ma anche di pressioni interne. L’angoscia del pesce ebbe conseguenze palpabili, ineludibili, nel suo divenire, fino a farne una specie distinta.
Conoscere il proprio destino propizia nel pesce un gesto di evasione che, anche in questo modo, alimenta quello stesso obiettivo: questa circolarità partecipa di un’altra più grande: la circolarità del tempo all’interno di Volontà della luce. Ma esaminerò questo punto più avanti. Per ora basta notare come l’azione del pesce funga da innesco per questa linea di trasformazioni la cui fine già si ravvisava: il pesce era già immerso nell’umano.
In uno stupendo libro intitolato The Inner Touch. Archaeology of a Sensation, Daniel Heller-Roazen enuncia con straordinaria acutezza l’operazione principale del clivaggio fra l’animale e l’essere umano:
Pensate, a titolo di esempio, alla definizione dell’uomo come animale razionale. Dal fatto di vivere, dal provare sentimenti, dal saper parlare di un essere che è uomo, deriva una qualità che si può definire correttamente “umana”, ovvero il possesso della ragione (poi si potrebbe anche voler definire meglio questa facoltà). Per quanto conclusiva possa sembrare, un’operazione del genere produce inevitabilmente un residuo, che non può essere attribuito in modo esclusivo a esseri umani o non umani. È, molto semplicemente, l’elemento che rimane negli esseri umani una volta che si eliminano da essi ciò che è propriamente umano: tutto ciò, per esempio, che rimane dopo, o prima, l’esistenza della ragione, tutto quello che non si può dire debba la sua esistenza all’attività del pensiero. Si tratta di un elemento che persiste nella natura umana senza coincidere del tutto con essa. Per definizione, non si può dire che sia strettamente umano, poiché rimane distinto dall’attività giudicata propria dell’uomo. Tuttavia, nella misura in cui può ancora essere trovato negli esseri umani, non si può dire con esattezza che sia non umano. Si potrebbe definire l’aspetto non umano dell’umanità o, in alternativa, l’aspetto umano del non umano, ma tali definizioni sono inutilmente complesse e nascondono un fatto più elementare. L’elemento residuo testimonia una dimensione dell’essere vivente in cui la distinzione tra umano e non umano non ha semplicemente significato: una regione comune, per definizione, a tutta la vita animale.{4}
In termini quasi chirurgici, Heller-Roazen esamina come l’attribuzione di ragione all’animale umano ha come conseguenza la realizzazione di una frontiera interna. Tutto ciò che rimane dalla parte della ragione è il propriamente umano, mentre il resto è l’eccedenza, ovvero il superfluo. Tuttavia, è proprio questo che condivide con tutti gli altri animali. Non per tale motivo è una regione disumana, come ben sottolinea Heller-Roazen e – come spesso si dimentica – ma solo non esclusivamente umana: l’aspetto disumano dell’umanità, o l’aspetto umano della disumanità. Soffermandosi su questa dimensione di congiunzione con tutto ciò che non è umano Heller-Roazen delinea una zona d’incontro con la vita animale, dove si sospende ogni tentativo di contrapposizione tra la vita umana e altre forme di esistenza, un luogo fuori dall’essere, dove ci troviamo con assoluta alterità.
Perché pensare l’animale come quest’altro radicale non significa sostenere la sua opposizione rispetto all’umano – questo accade subordinando l’animale all’uomo –, ma contemplando l’animale come una prolungata serie di singolarità di cui fa parte l’essere umano, semplicemente senza privilegi né dominio. L’alterità dell’animale nei nostri confronti ha la stessa densità della nostra alterità nei suoi confronti. Ma non si tratta di un’alterità sterile; anzi, si tratta di un altro col quale è imprescindibile il contatto. E ogni incontro non mediato dalla conquista richiede allora uno spazio comune.
Tale luogo ossessiona le pagine di Volontà della luce. Per questo ritorna alle scene primordiali, perché queste scene sono indubbiamente comuni a tutta la vita sulla Terra. Sono il luogo di partenza ideale per pensare all’incontro con l’animale. Così accade nella poesia “Escavazione dell’aria” e in “Prima liturgia”:
era un’acqua silente
inamovibile
che respirava di nascosto
sottoterra.
Non sembrava quel che è: liquido e trasparente
fiore, pesciolino di mercurio, sudorazione
del calcio.
Non appariva: la sua ombra
nella caverna si ridusse a una vena. Fossile di luce
– quel che possiamo capire di quella luce
di allora –
ghiacciaio
– il primo, è possibile –
completamente azoica.
(Sembra contraddittorio, ma la vita non esisteva
per l’acqua: l’aria – se la chiamiamo viva –
era il dio che regnava tra le rocce.
E l’aria non faceva rumore:
si ode
contraddittoria.)
Questa scena primaria ha molte caratteristiche in comune con quella precedente. Allo stesso modo questo luogo del passato sembra diventare il suo complemento. L’acqua e l’aria, trasparenti e animati, sono gli unici abitanti del mondo: tutto è rivestito da loro. Ma in questo tipo di brodo primordiale c’è un terzo elemento, la luce. Paralizzata, fossile, e ancora così presente. Luce che, quando raggiungiamo la fine della poesia, rivela il suo scopo:
E con la luce fu naturale il tempo:
ventiquattro ore come parti di un giorno
le vertebre
del mondo
protozoario.
E con il tempo fu ineludibile l’uomo
per accendere tutto.
E con l’uomo fu indispensabile l’uomo
per non soffocarlo.
È la luce che mette in movimento il tempo, quella successione che porta dal pesce al granchio eremita, dal granchio eremita alla migale e da questa, infine, all’essere umano. Il suo senso sta nel potere di accendere tutto, nel riprodurre quella luce glaciale che troviamo agli inizi della Terra. Gli ultimi due versi parlano del conflitto che abbiamo esaminato, quello che si dispiega nel momento in cui occorre stabilire i limiti dell’essere umano. L’essere umano può accendere tutto fino a soffocarlo, ovvero può organizzare il suo ambiente e metterlo al suo servizio, distruggendolo e distruggendosi in questo processo.
Volontà della luce nasce in contrasto a questo dualismo, lo stesso che per Philippe Descola circoscrive la nostra modernità, la quale “sviluppa una molteplicità di differenze culturali sullo sfondo di una natura immutabile”, realizzando stabilmente un’operazione che fa di “le piante e gli animali, i fiumi e le rocce, le meteore e le stagioni” oggetti che cadono nella stessa “nicchia ontologica definita dal suo difetto di umanità”.
Questa mancanza di umanità appiattisce, schiaccia, omogeneizza l’ambito che ci è stato dato denominare naturale, lo spazio del non-umano, la res extensa. Forse per questo Armenta Malpica si avvale del registro mitico per costruire questa curiosa (anti)epica evoluzione che è Volontà della luce. Questa tonalità discorsiva è caratterizzata dalla sua tendenza ad animare l’inanimato e a umanizzare l’inumano. In questo senso, conviene ricordare il modo in cui Descola, anche in Par-delà nature et culture, spiega la cosmovisione degli indigeni achuar, opponendola alla cosmovisione occidentale: “Nel pensiero moderno, inoltre, la natura ha senso solo in contrapposizione alle opere umane, che si è scelto di chiamare ‘cultura’, ‘società’ o ‘storia’ nel linguaggio della filosofia e delle scienze sociali, oppure ‘spazio antropizzato, ‘mediazione tecnica’ o ‘ecumene’ in una terminologia più specializzata. Una cosmologia in cui la maggior parte delle piante e degli animali sono inclusi in una comunità di persone che condividono tutte o parte delle facoltà, dei comportamenti e dei codici morali ordinari attribuiti agli uomini non risponde in alcun modo ai criteri di tale opposizione.”
Parole simili potrebbero riferirsi a Volontà della luce che ci restituisce una cosmologia dove animali e piante non si distinguono dall’essere umano, ma condividono facoltà e addirittura si includono a vicenda. Vale a dire che questa scrittura non cede alla semplice tentazione dell’antropomorfico; infatti essa delinea la forma di una umanità che contiene in sé ciò che non era ancora umano, senza per questo perdere il suo stupore. Quando raggiungiamo la fine del libro la poesia “Città di mare interno”, che funge da epilogo, dà una estesa visione di una città anonima, animata, dove è impossibile distinguere tra natura e cultura. Bastano due brevi istantanee:
La città era un gatto che miagolava.
[...]
E questa città che guardo – bue coricato – poté bere
quanto io ebbi
d’acqua.
Volontà della luce offre una visione dell’umano permeato dall’animale, ma anche una visione dell’animale permeato dall’umano. La nozione di tempo che si trova inserita nel libro è circolare: gli esseri viventi non progrediscono eliminandosi a vicenda, obliterandosi e dimenticandosi, ma accogliendosi reciprocamente, portando in sé la memoria di specie precedenti, anche se a volte in modo impreciso. Infatti, all’inizio di quella scena postuma che ho riferito, dallo zoo, alla fine, Armenta Malpica fa sì che la struttura stessa del libro emuli questa circolarità temporale. Ecco perché si può dire, nella poesia che dà il titolo al libro, che il pesce è già stato uomo:
Il pesce
– che fu già un uomo –
s’illumina:
egli vide i dinosauri che partorirono iguane
il camaleonte e il suo stormo di lucciole
la fenice il germoglio del guisquiamo.
Tutto era novità
perché era
antico.
Il pesce non sa parlare la lingua degli uomini.
Capisce poco la sua.
Ma se ascolta il vento, il mare
quando si agita
nella pietra silente
si comprende meglio.
E gli è familiare allora il tubare di un piccione viaggiatore
l’acuto sibilare del serpente
e l’inno del banco dei pesci.
Tutto era novità perché era antico, ovvero tutte le forme di vita della Terra erano già contenute in quelle anteriori. E la memoria di queste si sarebbe prolungata nelle successive come una voce la cui unicità iniziale, la cui “primigenia fattura”, come si dice in “Escavazione dell’aria”, è frammentata, rifratta nella moltitudine di singolarità che costituiscono i suoni animali. È così che accade il nuovo, l’insolito: con lo spiegamento delle possibilità latenti in esseri viventi anteriori. Questo ricorda un poco quello che scrive Elizabeth Grosz in The Nick of Time: “Il tempo è il prolungamento, non solo l’indugio degli esseri viventi, quando si aprono a nuove possibilità dell’esistenza partendo da quelle virtuali, ma insite nella materia stessa, che diventa più organizzata e con interazioni più vaste, complesse e imprevedibili. La vita prolunga il ritardo temporale latente nei processi fisici in una libertà produttiva, in un’indeterminatezza, nella creazione del nuovo, nell’innovazione in se stessa.”{5}
La maniera in cui Elizabeth Grosz concepisce il tempo, pur avendo differenze insormontabili rispetto alla temporalità gestita in Volontà della luce, risulta esemplificativo dal modo in cui formula la nozione di potenzialità. Il prolungamento del tempo non è solo la manifestazione diretta del virtuale, ma l’organizzazione esponenziale della materia fino a raggiungere il nuovo, l’imprevedibile. È proprio questo che succede con quella voce che appare più e più volte nel nostro libro: diventa plurale e immancabilmente complessa. Eppure resta sempre riconoscibile. Il pesce è in grado di identificare, nelle sue trasformazioni, l’elemento comune.
È quello lo spazio condiviso, la zona di congiunzione e di indifferenza tra l’animale e l’umano: dal canto dell’anziana nel prologo fino “all’inno del banco dei pesci”, dalla voce precedente alla prima formazione animale fino a “la lingua degli uomini”: la voce diventa segno del filo conduttore fra tutto ciò che è vivente. Incarna questa filiazione. Nel significante voce si somma anche l’esigenza etica che pone il libro. Mostrando infatti questo spazio comune tra umanità e animalità, contemplando entrambe le dimensioni non in opposizione ma articolate, esige dall’umano un approccio diverso a ogni alterità. Un cambiamento volto a sradicare l’essere umano dal suo autismo come specie. Si comprenderebbe allora che nessuno parla per conto dell’animale; che far parlare l’animale significa farsi da parte affinché l’animale si racconti. Un gesto che permetterebbe di capire che ne contiene sempre un altro. O, meglio, molti altri, incrociandosi tutti nel terreno condiviso del canto, come il poeta ci mostra bene in uno dei pochi testi poetici del libro protesi verso il futuro e intitolato “Rivelazione della migale”:
Con la calma, alla fine dei tempi, non ci sarà più luce ferma nell’acqua, né più acqua che alimenti il fuoco. La donna dovrà sostenere – a viva voce – quel miracolo, come nel principio. Sarà dunque il canto a mantenere in vita le specie.
{1}la poesia è “Il pesce immerso”, da Luis Armenta Malpica, Volontà della luce, a cura di Emilio Coco, Sentieri Meridiani, 2011.
{2}Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, 2006, Rusconi 2021.
{3}Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, 2002.
{4}Daniel Heller-Roazen, The Inner Touch. Archaeology of a Sensation, Brooklyn, Zone Books, 2007.
{5}Elizabeth Grosz, The Nick of Time. Politics, Evolution, and the Untimely, Durham, Duke University Press, 2004.
Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini
Le traduzioni dei testi poetici di Volontà della luce sono di Emilio Coco
Luis Armenta Malpica nato a Città del Messico nel 1961 è poeta, saggista e direttore di Mantis Editores. Dal 1974 vive a Guadalajara. Ha vinto diversi premi per la poesia, in patria e all’estero, tra i quali si distaccano: “Poesía Aguascalientes” (1996); “Nacional de Poesía Ramón López Velarde” (1999); “Nacional de Poesía Efraín Huerta” (1999); “Jalisco en Letras (2008); “Nacional de Poesía José Emilio Pacheco” (2011); “Internacional de Literatura Sor Juana Inés de la Cruz” (2013); “Encuentro de Poetas Enrique González León” (2016), “Jaime Sabines-Gatien Lapointe” (Canada-Messico 2017), “Premio Iberoamericano Bellas Artes de Poesía Carlos Pellicer” per il libro Enola Gay (2020) e il “Premio Iberoamericano de Poesía Minerva Margarita Villarreal 2021”. Ha ricevuto diversi premi anche come editore.
Ha pubblicato venticinque libri di poesia, i più recenti sono: El agua recobrada (antologia, Spagna, 2011), Envés del agua (Messico, 2012), Papiro de Derveni (Messico, 2013), Llámenme Ismael (Messico, 2014), The Drunkenness of God (Usa, 2015), Götterdämmerung. Antologie minime (Canada-Messico, 2015), Götterdämmerung. Antología personal (Ecuador, 2015; Messico, 2017), Greetings to the Family (Messico, 2016), Voinţa Luminii (Romania, 2017) e Enola Gay (Messico, 2019). Suoi testi poetici sono stati tradotti in molte lingue e inseriti in antologie messicane e straniere, in Italia in: Dalla parola antica alla parola nuova. Ventidue poeti messicani d’oggi (Raffaelli, 2012, a cura di Emilio Coco). In Italia è apparsa anche la raccolta poetica Volontà della luce (Sentieri Meridiani, 2011, a cura di Emilio Coco). Chiamatemi Ismaele [Llámenme Ismael] è stato pubblicato in Messico nel 2014 dopo aver vinto come inedito il “Premio Internacional de Literatura Sor Juana Inés de la Cruz”, poi pubblicato in Italia da Edizioni Fili d’Aquilone nel 2019 (a cura di Alessio Brandolini) e finalista al Premio Camaiore Internazionale 2019.
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