L’interazione tra soma e pòlis, tra individualità fisica e tessuto sociale urbano è divenuta parte della storia, non solo per i racconti di origini, ma per gli effetti culturali dell’impatto tra individuo e realtà comune, soprattutto la nuova città ottocentesca: i Fiori del male di Baudelaire sono solo uno degli esempi più importanti di quello choc metropolitano messo in evidenza da Walter Benjamin. Ora Carla Guidi affronta il problema di come il corpo e il suo immaginario si rapportino con la formazione e la deformazione urbane, soprattutto nelle pagine dedicate alle periferie, con Città reali, città immaginarie, avvalendosi del contributo delle immagini fotografiche di Valter Sambucini.
Guidi affronta direttamente il problema dell’arte e dei suoi rapporti con la città, rapporti che cambiano la stessa natura dell’arte così come essa si è delineata fino al Novecento: il corpo, ad esempio, attraverso il tatuaggio, si riprende una dimensione arcaica che questo libro mette bene in evidenza nel capitolo firmato da Eliseo Giuseppin sulla diffusione geografica del tatuaggio nella preistoria. Le mummie ritrovate in Egitto, a Similaun, in America latina mostrano come il derma avesse, già millenni prima della nostra epoca, una funzione mediatica – nel senso di mediazione creativa – tra corpo e spirito, tra elementi strutturali e creazione mitico-rituale. L’attuale stagione del tattoo non è altro che il riemergere, fatte le debite proporzioni, di questa mediazione in cui opera la dinamica dell’arte: non più focalizzata su una tela, su un blocco di materia inerte, su un muro, ma tornata alla dimensione umana per definizione e riconoscibilità: il corpo.
È quindi la città a prendere il centro di questo lavoro, con le sue interazioni somatiche e neo-artistiche: il travestimento, la statuaria dei figurinai, il rapporto fondamentale, e ignorato, del tessuto urbanistico con l’animale, il neo-graffito e il tatuaggio, il murale emergono qui nella loro dimensione di nuovo orizzonte che sfrutta la materia posta a disposizione da questa fase dell’antropocene: la pelle, i tessuti, le pareti dei muri, le strade, i marciapiedi.
Città reali, città immaginarie si pone come base di partenza per una nuova concezione dell’arte, che tiene conto di diversi elementi portanti: intanto i cambiamenti avvenuti nel bene e nel male nella dimensione urbana: abbiamo citato il Baudelaire di Benjamin che subiva il trauma della trasformazione della bella città dell’arte e dei giardini in dormitorio fumoso di gente strappata dalla campagna e gettata per un magro salario nelle fabbriche intorno all’antica pòlis gallo-romana. E Baudelaire non era il solo a documentare l’impatto devastante della nuova dimensione urbana, basti pensare a Dickens e a Ruskin. Per seconda cosa le nuove tecniche di espressione, che tengono conto delle superfici di sostegno: i muri delle periferie sono il nuovo papiro e la nuova carta di una arte che narra figurativamente la propria storia e le fotografie di Sambucini mostrano perfettamente immagini iconiche all’interno di un tessuto connettivo molteplice e apparentemente senza volto, e soprattutto l’emergere anche e non solo, come vedremo, dell’individualità artistica.
Le feste di piazza in maschera, ad esempio, non sono solo il continuum del rovesciamento del carnevale, ma la riemersione di una concezione condivisa dell’espressione attraverso il corpo e il richiamo all’antico. Un antico che quindi torna attraverso nuove mescidazioni: la fiaba, la favola, il mito, Lewis Carrol, Disney, la capacità di rigenerare con la propria presenza attiva il tessuto connettivo urbano, il ritorno della fantasia non solo come compensazione ma come vivibilità nel volontariato verso chi non sta bene, chi non si può muovere, gli anziani soli, i giovani senza più una guida.
Quello che un tempo era la televisione nel cortile comune dei palazzi o il cinema parrocchiale oggi vive attraverso forme, e la forma non è pura immersione nell’apparente, nuove, che rivalutano la piazza, la comunità, le nuove arti e i loro nuovi supporti.
Il punto di una situazione, questo di Carla Guidi e di Valter Sambucini, iniziata già con la beat generation e poi con i nuovi mezzi della comunicazione – la chitarra, il treno, l’armonica a bocca, il viaggio di rimbaudiana memoria – e poi, lentamente con la riscoperta dei mezzi che il quotidiano ci mette a disposizione senza doverli cercare in negozi esclusivi e costosi: vernice, sabbia, gesso, il corpo, i nuovi affreschi metropolitani, le modalità digitali sono solo una parte della mutazione, non solo estetica. Bansky è uno degli innumerevoli esempi di quello che ci aspetta nelle profondità di ciò che noi chiamiamo arte, sia essa quella dei musei o delle strade: la tendenza all’anonimato è qualcosa di più profondo di quello che abitualmente alcuni pensano, e può essere letta anche come recupero della collettività che ha avvolto nell’anonimato alcune opere che noi consideriamo irrinunciabili: alcuni canzonieri, i Burana, i canti popolari che a volte conoscono punte di riemersione e di contaminazione con altre forme, come il gregoriano. Dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare all’esperienza di Enigma cambiano, anche radicalmente, le modalità di questo recupero di radici e nello stesso tempo di proiezione verso il dopo.
Carla Guidi, Città reali, città immaginarie. Migrazioni e metamorfosi creative nelle società nell’Antropocene, tra informazione ed iper/urbanizzazione, foto di Valter Sambucini, 2019, Robin, 214 pagine, euro 29,50.
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