1.
Rimani bloccata col tovagliolo in mano e all’istante smetti di parlare: su di me i tuoi occhi sgranati e delusi. Allora ribadisco: sì, dobbiamo farla finita ma seguiterò a volerti bene. Questo ti manda in bestia e finalmente inizi a contestarmi: sono proprio uno stronzo ad arrendermi, a fuggire all’estero e mollare tutto. Mi rimproveri questo e quello ma non ti ascolto perché soffro ed è necessario farlo: non posso andare avanti così fino alla morte, nostra o di chissà di quanti altri.
Me ne vado perché miro solo alla carriera e ai soldi? No, questo proprio non lo pensi, sai leggermi dentro persino al buio. Troppo difficile scalare la gerarchia pseudo militare della nostra banda armata? Mettere da parte qualche soldo per coprirsi le spalle e il futuro? O perché, aggiungi dopo un po’, sogno di avere un’altra, magari più giovane e docile di me? Da troppo tempo dormo poco e male, ti rispondo a muso duro, cosa dovrei sognare se non chiudo mai occhio? La mia è solo una scelta, una come tante, però definitiva. Non te la prendere. E i nostri due figli ancora così piccoli? Ah, inconfutabile argomento, urlo con gli occhi arrossati, ecco: ora con questo colpo basso mi abbatti, finalmente.
Penso ai nostri due figli che non avrei più potuto vedere/toccare. Forse un domani, sì, fra vent’anni, mi dico come parlando a un altro, a distanza. Ma a lei non lo confesso, da vigliacco bene educato. Non aggiungi molto al nostro distacco, solo un sorriso sprezzante: te ne vai senza un saluto e uscendo non chiudi nemmeno la porta del nostro rifugio, quello che devo lasciare al più presto.
Deliri sciolti in bocca come caramelle e le farfalle inseguono i timori di vivere in fretta e consumare gli anni in una manciata di secondi. Quanti? Tutti quelli che restano. Di non fare nulla di bello, qualcosa di buono, utile per qualcuno, di lasciare un buon ricordo. A lungo svolazzano nella testa le farfalle, oltre che nello stomaco, e talvolta rubano aria, parole e fanno venire in mente un altro avversario da combattere e allora mi metto in guardia, scatto in piedi come una molla e assesto pugni e calci all’aria.
Lei aveva gridato, quando aveva compreso con esattezza il senso del mio delirante discorso, che era tutto sacrosanto ciò che io invece definivo “inutile e alterato”. Avevo aggiunto, tra una cosa e l’altra, che “il sangue non va via, ti macchia dentro”, ma lei questo non lo ripeté nel suo riassunto accusatorio. Sorseggiavo una vodka ghiacciata e mi leccavo i baffi per far finta di niente e farle capire che la mia era una mossa come un’altra, una semplice scelta di vita.
L’imbarazzo sembrava una scimmia scomposta e sotto il tavolo mi ballavano le gambe (finirà questa storia?): avrebbe potuto tradirmi, avvisare subito la direzione e farmi ammazzare da un compagno fuori dalla nostra cerchia, meglio essere prudenti – era la nostra logica intransigente – perché si sa che i morti non parlano.
Disturbato da quella scena mi alzai per raggiungere la finestra seguitando a prendere appunti con la mente e provai a unire ogni cosa che mi accadeva con l’esterno, con il tessuto sociale, l’Europa, la disoccupazione, i giovani senza prospettive, la morte della cultura del lavoro, della civiltà contadina e di quella operaia, la devastante lotta armata, lo stato pseudodemocratico e la voglia di fuggire per ricominciare dalle macerie, da quel poco che si era salvato. Senza voler dimenticare i morti: no, quelli mi sarebbero venuti dietro passo passo.
Sognavo soltanto di stare a lungo da solo e non avere nemici all’intorno: solo erba alta e fresca, campanule e papaveri, la pazienza e il silenzio da coltivare assieme alle rose, al rosmarino e alla mentuccia romana (lì sarebbe cresciuta?). Pecore dagli occhi miti e dal soffice vello, un levriero irlandese che ti osserva a lungo prima di ringhiarti contro per gioco e sbandierando la coda. E parlare con calma coi vecchi che della vita ne sanno più di tutti.
Favole e farfalle che sembrano scaldare il cuore, dare una voce a quel muscolo interno. Troppi amici morti sul campo di battaglia e poi tutte quelle vittime innocenti solo per far paura agli altri, per sentirsi pericolosi e feroci e quel fischio perenne nelle orecchie che mi faceva oscillare era il futuro inneggiante alla morte. Enzo, il marito di Loretta, la nostra caposquadra, era stato centrato al petto da una raffica di mitra durante un banale controllo perché voleva fare il duro con in mano una pistola priva di munizioni. Arruolato a Roma nel 1977 in un Istituto Tecnico di Centocelle, a diciassette anni. Roberto, il compagno di Federica, aveva preferito spararsi in bocca anziché capitolare davanti agli sbirri e magari col tempo trasformarsi in un viscido pentito.
In realtà sapevo ben poco, non ho mai saputo molto di nulla, era come se agissi per paura di pensare. Fingevo soltanto di comprendere tutto: gli assalti in banca per autofinanziarci, la strategia e la meta finale, l’assalto al cuore dello Stato, le morti necessarie. Le morti “necessarie”? Me lo ripetevo a lungo dentro e pensavo a un macabro scherzo, mi alzavo dal letto alle tre del mattino per correre in bagno a vomitare.
Parlo di allucinazioni trasformatesi in fatti concreti, in cronaca nera. Parlo di eventi accaduti nel marzo del 1978 e poi esplosi nella memoria di un ventenne che con passo vacillante cammina in una città sconosciuta. Avanza titubante nel tempo senza giorni, infinito e largo e per questo fa paura. Mi dicevano: dobbiamo abbattere i nemici per poi vedercela soltanto con gli avversari. Ma, domandavo con discrezione, non è la stessa cosa? Il mio avversario non è anche il mio nemico? No, non è esattamente così, mi rispondevano. Non capivo ed eseguivo gli ordini, prendevo la mira e premevo il grilletto trattenendo il respiro. Sottigliezze i miei dubbi? E intanto pensavo a Montaigne in giro per l’Italia, in beata ma fertile solitudine, per le strade di Roma nel novembre del 1580, con l’aria umida e corrotta che, diceva, gli faceva male alla testa.
Avevo deciso di avvisarti prima di cambiare aria e restare da solo a combattere me stesso: se ero in lotta nel mio intimo come potevo combattere gli altri? In fondo era giusto ammetterlo e io avevo voglia di essere schietto pensando a mio padre e a mio nonno che avevano sputato sangue sui loro pezzetti di terra con i quali mantenere una famiglia numerosa: ogni zolla doveva dare il suo frutto, ed ecco la vigna ed ecco l’orto e l’uliveto. Per questo all’inizio dell’estate, il periodo per noi più critico, prendo la saggia decisione di traferirmi in altri luoghi, di uscire dall’organizzazione terroristica. Di sparire per sempre dalla circolazione.
Faccio le valigie con rabbia visto che nessuno mi aiuta. Intanto metto tutto a posto, lucido i pavimenti stando in ginocchio e ogni tanto tiro su col naso per via della perenne allergia. Annaffio fiori e piante, il basilico soffre troppo il caldo. Presto sarò lontano centinaia di chilometri e quando lo saprai ci metterai il massimo impegno a ricostruire le parole dette, sepolte sotto la polvere gialla che in questi giorni entra dalle finestre tenute spalancate per via del caldo.
Renderai comprensibili quelle frasi che in un primo momento ti erano sembrate tanto inattese quanto irrazionali. Spolveri un volume alla volta della nostra libreria: così amata e così lontana dalle nostre cruenti azioni. Soffi via da ogni pagina l’ultimo granello e tracci parole che mancano, quelle cancellate dall’incuria, dalla superbia. Mi rivedrai all’inizio della primavera di un anno qualsiasi, penso, e saremo già vecchi. Intanto seguiti a spolverare, anche se sai bene che la polvere avvolgerà di nuovo gli scaffali, si infilerà ovunque nelle pagine, nei ricordi.
Frottole, favole e farfalle che svolazzano sui piatti, come a ripulire l’aria appesantita dai falsi sorrisi. Chi ci ha sottratto qualcosa di prezioso che neanche sapevamo di possedere? L’innocenza, la nostra giovinezza, la libertà di spostarsi a piacimento, di guadarsi negli occhi e ridere senza alcun motivo. La gioia di non avere avversari (o nemici).
L’uomo che ti sta accanto ha un passo fiero, la testa alta e dire che fino a un anno fa eri mia moglie: tutto si evolve, spesso si guasta, raramente si aggiusta. Mi sembra soddisfatto di sé, il tuo nuovo compagno, sicuro di aver fatto la scelta giusta a mettersi con te, a crescere e gestire i nostri due giovani figli: Marco e Lorena che ormai riesco a vedere poco e quando stanno con me li percepisco gonfi di rancore nei miei confronti. È stato difficile convincere i capi della nostra organizzazione ma alla fine ne sono uscito fuori, deriso sì ma ancora in vita. Ho promesso di tenere la bocca chiusa, di uscire per sempre dalla vita della mia ex moglie, di “lasciarla lavorare” come ha sempre fatto, come avevamo entrambi sempre fatto, per il bene della causa, della Rivoluzione.
Me ne sto nascosto tra la folla, ben camuffato: salutarti un’ultima volta sarebbe imbarazzante, ti passo a meno di tre metri e riesco a percepire il vostro odore proiettato su un futuro immaginario e fittizio, dilaniato dall’esaltazione politica e sociale. Avete formato una nuova famiglia e mi sta bene, io ne sono escluso. Sembri soddisfatta e quindi, forse, con il tempo mi odierà di meno e così anche i nostri figli.
Mi trasferisco subito all’estero ora che me ne sto tranquillo o, almeno, molto più di prima, senza far nulla, senza ammazzare nessuno. Tanto i figli non hanno più voglia di vedermi, di parlare e giocare con me. Forse un giorno li rivedrò e dovremmo iniziare tutto dall’inizio. Con calma proverò a spiegargli ogni cosa. Un impegno tardivo ma farò del mio meglio.
2.
Armo la mia pistola, la pulisco sempre prima di andare a letto: chi è questa volta il mio avversario? Sempre la stessa storia, un incubo dal quale fatico a uscire. Nell’attesa provo a vivere in modo disinvolto, qui in Irlanda mi chiamano “lo straniero” e “maccaroni” quando pensano che sono lontano o troppo distratto per sentirli. Talvolta immagino di starmene un po’ con i miei figli, Marco e Lorena: li porto a spasso, gli compro un gelato, gli parlo e aspetto fiducioso un loro sorriso. Sulla scogliera, senza dire una parola, guardiamo il mare, quelle onde metalliche che ti risucchiano all’interno e il vento che prova a strapparti i capelli. “La goccia che trabocca”, penso, senza sapere perché lo penso.
Il piano era quello di sventrare a Roma il palazzo del Mistero dell’Economia e delle Finanze, in via XX settembre, a due passi dal Quirinale. Stando al di fuori, in posizione di sicurezza. Occorreva soltanto una lieve pressione sul telecomando che avevo a disposizione. Le cariche già pronte, piazzate in punti strategici e collegate a un unico detonatore. Quanti morti ci sarebbe stati? Una carneficina per gli altri, per noi un colpo eclatante che sarebbe passato alla storia, quella delle tragedie, ovviamente, dei massacri.
Appariva sempre tutto facile, lineare, perfettamente organizzato. Ma poi, quando in bici mi sono ritrovato sul posto per l’ennesimo sopralluogo, vedo persone assiepate negli uffici, negli ascensori: persone come me che sorridono con dolcezza, parlano/ascoltano. E penso agli impiegati che vagano di stanza in stanza, agli ospiti che chiedono informazioni, alle madri che per caso passano lì davanti coi loro figli tenuti per mano o spinti nei passeggini. Allora mi vengono dei dubbi e poi dei brividi: perché ammazzare ancora? Perché polverizzare la vita di tutte quelle persone? Un ordine dei capi dell’organizzazione rivoluzionaria va trasformato in azione senza incertezze, senza discutere se non dei dettagli per migliorare l’attacco al cuore dello stato, per la messa a punto dell’assalto finale.
Ho agito altre volte, sì, ma era diverso: sequestri di persona, rapine in banca per autofinanziarci, qualche esecuzione mirata: fatti atroci, certo, ma non stragi, non uno sparare nel mucchio, né tantomeno una carneficina. E poi, solo pochi anni prima, vivevamo in altri tempi ed eravamo tutti un po’ folli, fragili ed esaltati. Ora la lotta clandestina la odio, dissi, e, quindi, lo confesso con coraggio, proprio per questo potrei commettere un grave errore. Meglio allora lasciar perdere, mollare tutto e cambiare aria.
Sei solo un vigliacco, replicarono e questo a me stava bene. Mi avevano deriso, sputato in faccia, minacciato di morte ma non mollai la decisione, ne uscivo fuori per sempre e della lotta armata non volevo sapere più nulla. Addio ragazzi ci si vede in un’altra vita. Ti teniamo d’occhio, stati attento! Ok? Ricevuto!
Intanto sopravvivere, evitare vendette: mi sembrava già un miracolo, ad altri – più furbi di me – il gioco non era riuscito: ammazzati come dei nemici. Nemici? Ma se fino al giorno prima si stava sempre assieme, si scherzava e si rideva, organizzavamo i turni di guardia!
Mi allontanai da quel palazzo governativo pedalando adagio fino a raggiungere il Circo Massimo. Piegai la bici snodabile per infilarla nel portabagagli e partii a razzo con la vecchia Volvo verso la periferia della città. Percorsi tutta via Casilina, ben oltre il raccordo anulare, fino a Pantano Borghese, al nostro nascondiglio dentro un capannone preso in affitto da cinesi benestanti e sempre sorridenti: bravi venditori, affaristi silenziosi e discreti.
È passato già un anno, faccio in fretta i bagagli e scompaio senza avvisare nessuno: loro avrebbero voluto parlarmi ancora un’ultima volta, convincermi a restare o quanto meno a fiancheggiarli. No, il taglio deve essere netto così farà meno male, sia a me che a voi improvvisai e non si accorsero che li prendevo in giro. Va bene, replicarono tutti seri, anche se non comprendiamo la tua scelta, però bada a quello che fai e poi hai dei figli, no?
Meglio partire subito prima che ci ripensino. Ho qualche soldo da parte, un passaporto falso. Via Aurelia rispettando i limiti di velocità come un anziano e diligente pensionato, ma non mi fermo mai, non perdo tempo a guardare il paesaggio. Il pieno, di corsa in bagno a svuotare la vescica, un panino e si prosegue: altri cento chilometri e poi cinquecento. La radio la tengo al minimo e quello che dicono non lo comprendo ma riscalda, di francese ne mastico poco. Guardo sempre davanti: la strada, i cartelli segnaletici e quelli pubblicitari, le case decrepite, i lampioni che a volte sono gialli e a volte bianchi. Ci si sente meno soli a guardare tutto, anche un gatto investito e stritolato, immobile al lato della strada.
All’alba del giorno successivo raggiungo il nord della Francia, ora mi ricordo che da adolescente parlavo un po’ di francese: sapevo a memoria l’Ave Maria, la Marsigliese, tornano alla mente un suono nasale e parole smozzicate, incomprensibili.
Di sicuro la pagherò prima o poi ma ora non ho intenzione di fermarmi. Qui in Francia di tipi come me ce ne sono già troppi e non voglio entrare in contatto con loro, né con nessuno.
Accelero e tiro dritto verso Calais, mi farò i cinquanta chilometri del tunnel della Manica, sarà divertente entrarvi per la prima volta, abbondonerò l’auto, staccherò le targhe e poi da qualche parte m’imbarcherò per l’Irlanda. Voglio vivere in un piccolo paese vicino al mare, distante da Dublino. Isolato e solo, avrò poco e quel poco mi basterà.
Guido nella notte più fonda e mi chiedo perché per alcuni anni ho fatto parte di un gruppo terroristico. Come è potuto accadere di trasformarsi in un automa, di uccidere delle persone per la “causa”, per la nostra personale e paranoica giustizia. Per quello che ho fatto dovrei scontare una giusta condanna, chiedere scusa in ginocchio ai parenti delle vittime e invece sono un uomo in fuga da tutto, anche dalla giustizia, da ciò che sono stato.
Magra consolazione il pensiero che decine e decine di persone – predestinate a sparire inconsapevolmente nella brutale deflagrazione – sono rimaste in vita grazie a me e probabilmente non sapranno mai nulla del rischio che hanno corso. Dopo la mia rinuncia quell’azione eclatante (il massacro) era stata depennata: avevo osato criticarla e questo aveva sconvolto tutti i piani, non era mai accaduto prima.
Non un conflitto tra quello che sono stato e ciò che sono, ma un deragliamento, uno strazio. Come tornare indietro se non uccidendo ciò che si è stati? A vent’anni ero in bilico tra l’invettiva e il restarmene a lungo in silenzio, per settimane senza muovere un dito. Tra l’agire spavaldamente e lo scodinzolare come un cane bastonato, ubbidente al padrone, a chi detiene il potere. Mi sono sposato, ho messo al mondo due figli, ho trovato un lavoro qualsiasi in un magazzino di materiale elettronico in via Tiburtina. Tutto in fretta, a tappe forzate e ogni tanto pensavo al gioco dell’oca: sarei tornato indietro se avessi raggiunto una determinata casella?
Ridevo per finta e mi amavo in modo strano, uccidendomi un poco ogni giorno o come se fosse un dovere, per disciplina, per espiare una colpa che altri avevano commesso a posto mio. I figli annullano con le piccole dita ogni desiderio di rivolta, con loro ogni pensiero di omicidio o suicidio si dissolve nella luce pura dei loro occhi e quando pensavo di staccarmene (“basta fingere”, mi dicevo) era come se fossi già morto e tornavo da loro (moglie e figli) con un sorriso ancora più grande.
Da quanto tempo ero bloccato? Chi stavo aspettando da decenni? Dopo ci sarà una tregua, pensavo, e potrò riempire tutte le stanze vuote nella mia mente e sarà possibile perché prima ci sarà stato un dolore devastante e mi preparavo a sopportarlo, stringevo i pugni. Ma perché trasmettere le proprie sofferenze ad altre persone? Perché alleviare la pena passandola a chi non ci conosce? Non un gesto da eroi, neanche da cavalieri dell’apocalisse. Questo cavillavo per ore, per giorni durante gli appostamenti davanti all’abitazione di un generale dei carabinieri che aveva fatto il partigiano e avremmo ammazzato nell’androne del palazzo dove viveva o di un magistrato che per caso sarebbe sfuggito a un nostro attentato, alla morte.
Dovevo trovare la forza necessaria per staccarmi da una grossa parte del mio passato e provare, in un paesino freddo e sperduto dell’Irlanda, a rifarmi una vita che doveva essere qualcosa di giusto e onesto. Dovevo realizzare quel vecchio progetto di sciogliere il groviglio cresciuto a dismisura dentro di me e fatto di rancore, rabbia e insoddisfazione. E poi, alla fine, sarei tornato in Italia dai miei figli, ci saremmo visti ogni tanto per provare a capirci. Loro già adulti e io invecchiato nei miei ricordi insanguinati, coi cappelli bianchi e i fianchi ingrossati, pendenti.
3.
Era alta, snella e aveva compiuto da poco vent’anni. Emanava sempre un leggero profumo di rose, di freschezza. Per questo piaceva a tutti. La guardavo a lungo e lei, accorgendosene, arrossiva e allora ridendo le dicevo a bassa voce: «Sei bella da morire, ma nessuno ti vuole». Aveva l’abitudine di piegare la testa da una parte e poi dall’altra e se stavamo all’aperto i suoi capelli fini e biondi fluttuavano nell’aria e le nuvole di pioggia sembravano sparire. Un giorno mi disse che quando parlavo riuscivo a incantarla ma subito dopo aggiunge, con malizia, sai: faccio solo finta di cascarci. Che credi, tu non sei proprio nessuno?
Sorrideva nel dirlo ma quello, mi chiesi, era per caso un invito a parlare di più? A raccontarle la verità sulla mia infanzia, sulla mia vita da terrorista? Avrei dovuto dichiararle che sarebbe stato bello vivere assieme? Formare una famiglia quando per anni avevo detto che la famiglia era la fine di tutto? Meglio nascondersi ancora di più, affondarsi.
Poi, dopo qualche mese, il pressante invito a sposarsi da parte dell’organizzazione, del comitato esecutivo, “questo è il momento giusto”. Avrei dato meno nell’occhio e, aggiunsero, non parlare mai di politica con estranei ma lei, nel frattempo, era scivolata via e ora usciva con un altro (avevo esagerato con le buche, le menzogne). Dovevo accontentarmi di un amore platonico legato alla lotta armata per eludere i nostri avversari. Così mi sposai con una compagna, una delle tante, e con lei misi al mondo due figli, Marco e Lorena.
A forza di fingere uno finge persino a se stesso pensando di essere spietatamente sincero. Ripulirsi, pascolare a testa bassa come una pecora, una mucca. Salvarsi in Irlanda. Essere straniero, specchiarsi e non riconoscersi, sciacquarsi la faccia e il collo con acqua gelida ogni mezz’ora. Raschiare i pensieri, le idee. Almeno per qualche decennio poi si vedrà, se si resta in vita, se le energie non saranno del tutto esaurite.
Erano i giorni dello strazio, delle illusioni politiche e nessuno avevo tempo per l’amore, soltanto sesso e storie da quattro soldi. C’erano troppe armi e troppi morti in giro. Nel capannone dei cinesi su via Casalina nascondevamo un arsenale, bombe a mano ed esplosivo per far saltare in aria mezza Roma o tutto il Vaticano col suo papa vestito di bianco e polverizzare la tomba di San Pietro. Magari fra un paio d’anni, quando avremmo vinto o perso, le cose sarebbero cambiate e avrei seppellito la mia rabbia da guerra, mi sarei pentito di ogni omicidio, avrei chiesto scusa ai familiari delle vittime. Avrei mentito ancora per non fare più danni, per non deludere nessuno. Per alleviare il dolore dopo averlo fatto crescere fino all’inverosimile. Chi era il mio avversario? Dio, il mondo? La storia con la esse maiuscola o un me stesso in miniatura?
Non ricordo il suo nome, mi sforzo e non ci riesco. Frequentavamo lo stesso corso alla Facoltà di Lettere all’Università “La Sapienza” di Roma. Ho memoria delle acuminate lezioni sul decadentismo di un bravo assistente poi morto suicida, del suo seminario nell’aula a piano terra, del mio sguardo sull’orologio ogni cinque minuti e poi la corsa in moto per raggiungere il posto di lavoro. Ho memoria delle passeggiate al centro di Roma, poco distante dal luogo dove poi, qualche anno dopo, avremmo pianificato la strage che avrebbe fatto crollare il Paese. Eppure, di quella ragazza della quale ero profondamente innamorato, non so più il nome, mi sfugge e il ricordo del suo volto brucia la pelle.
Quando accanto a me c’era lei faticavo a seguire la lezione e allora inchiodavo lo sguardo sulla punta di un piede, sulle scritte sui muri: Autonomia Operaia, BR, Stato fascista… Un assorbimento controllato, diluito nel tempo nei giorni che non passavano mai oppure troppo in fretta. Giorni che sarebbero finiti presto, e per sempre.
A fine lezione dialogavo coi professori, prendevo ottimi voti agli esami, al di sopra delle mie aspettative. I miei studi erano una radice misteriosa che avrebbe dato i suoi frutti, pensavo, ma di lei ero davvero innamorato? Sì, ma non lo sapevo. Lo compresi quando la incontrai a Fontana di Trevi, tra Santa Maria in Trivio e l’antico negozio di cravatte e cappelli. Lì avevo una stanza in piazza Crociferi, dormivo su un letto senza materasso, giusto una coperta per non sentire il freddo dell’acciaio.
Facevo due passi e osservavo la variegata fauna umana che sempre si trova da quelle parti. Eccola abbracciata a un tizio. Muove la testa da una parte e dall’altra, sorride e i capelli biondi danzano nell’aria, piegano i lampioni. Solleva lo sguardo e fissa il ragazzo che la tiene tra le braccia. Sguardo da innamorata che mi percosse, gli passai accanto e lei non mi riconobbe. Pensai che da qualche parte ci doveva essere un fotografo tutto per loro nascosto da qualche parte. Troppo spesso la vita assomiglia a una recita, a un perfido spettacolo.
Ancora frottole, favole e farfalle che svolazzano sui piatti, come a ripulire l’aria resa nociva dai falsi sorrisi, dalle chiacchiere inutili anche se poi ti ballano per decenni nella memoria e ti chiedi: ma tutto questo è davvero accaduto?
Il giorno della mia partenza Marco e Lorena erano rimasti a casa della nonna e se la spassavano davanti alla playstation, due genitori si separano per sempre e i figli non sanno cosa pensare e, allo stesso tempo, cominciano a comprendere che devono saper incassare i colpi se vogliono sopravvivere. E noi due? Arrabbiati ma con la giusta pacatezza: «Abbi cura di te e non farti più vedere». Non portarmi rancore, se ci riesci, le risposi dandole le spalle.
I pesci sono amici ma adoro pescarli all’alba sulla mia piccola barca a remi. Da decenni vivo in Irlanda, non sono felice ma qui ci sto bene.
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